Il cinema italiano contemporaneo
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Il cinema italiano contemporaneo

Da "La dolce vita" a "Centochiodi"

  1. 838 pagine
  2. Italian
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Il cinema italiano contemporaneo

Da "La dolce vita" a "Centochiodi"

Informazioni su questo libro

«La storia che mi accingo a raccontare abbraccia quasi metà dell'intera esistenza del cinema italiano, parte dal momento più alto del suo intero sviluppo e ne segue i fasti, le trasformazioni, l'avvicendarsi generazionale e le crisi che ne hanno reso difficile il cammino degli ultimi decenni.»

La parola più ricorrente in tutti i tentativi di osservare il cinema italiano dalla fine degli anni Sessanta a oggi è «crisi». Quello che era stato il decennio più innovativo per qualità, quantità, forme di sperimentazione, innovazione ed espansione della cinematografia italiana nel mondo, a un tratto cambia pelle, segna il passo, si frantuma. Mutamenti strutturali modificano economia, mercato, modi di produzione, modelli narrativi, tematiche e poetiche autoriali. Ma non è la fine della corsa. Nel pieno della «crisi» si producono anche svolte positive: grandi nomi si impongono sulla scena internazionale, emerge una nuova ondata di comici, si compie il ricambio generazionale di attori e registi, continua l'esplorazione di scenari e mondi possibili.

Gian Piero Brunetta racconta un cinquantennio di cinema italiano. Il lettore vi troverà non solo le trame, i personaggi, i film, ma anche un pezzo della storia e dell'identità del nostro Paese.

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Tre generazioni a contatto e a confronto

Per almeno un quindicennio tutta un’area della critica cinematografica si è considerata – di fronte alle progressive defezioni e a quelli che considerava i «tradimenti ideologici» degli autori – come l’unica erede legittima e autorizzata del patrimonio neorealista, si è attribuita un potere giudiziario e lungo tutti gli anni Cinquanta innumerevoli sono i processi più o meno sommari (con relative condanne) a cui ha sottoposto quasi tutti gli autori più rappresentativi del cinema italiano. Un cimitero di orrori critici che da sempre mi riprometto di rivisitare criticamente, ma forse è più giusto che se ne occupino i giovani delle nuove generazioni. Alla svolta del decennio ritorna all’ordine del giorno il problema dell’eredità del neorealismo, della sua effettiva consistenza patrimoniale nel presente e della sua possibile divisibilità. Uno dei tratti caratterizzanti l’immediato dopoguerra è stato quello della difesa a oltranza del carattere unitario del patrimonio1. Dagli anni Sessanta in poi, si procede invece alla dispersione del corpo e delle ceneri neorealiste in tutte le direzioni e alla spartizione, anche per i nuovi arrivati, dei resti dell’eredità. In pratica, salvo poche eccezioni, gli autori partono in varie direzioni, cercando di far ancora tesoro di un sapere che considerano efficace. Questo per molti serve da elemento di unificazione e connessione. Vale soprattutto per chi esordisce, dopo un apprendistato decennale nel documentario, o per chi ha lavorato come aiuto regista o sceneggiatore, per gli scrittori che diventano registi nella fiducia dell’assoluta commutabilità dei mezzi e delle scritture; vale per chi ha ottenuto il diploma di regia al Centro Sperimentale, o per chi ha già realizzato qualche film negli anni Cinquanta. Vale infine anche per chi giunge alla regia senza alcuna credenziale anteriore. Se non infinite le vie del neorealismo risultano tuttora numericamente imprecisate.
Nelle pagine che seguono si è cercato di capire e mostrare come vi siano stati modi diversi di investimento e di resa del patrimonio, e come dei beni, le cui quotazioni in altri ambiti critici garantivano una rendita sempre più modesta, nel cinema costituiscano ancora un capitale di tutto rispetto, conservato e trasmesso fino agli albori del nuovo millennio.
A pari titolo e con gli stessi diritti i beneficiari legittimi o illegittimi dell’eredità si possono considerare personalità che ne faranno un uso assai diverso: Olmi, Pasolini, De Seta o Petri, Rosi e Vancini, Zurlini e i Taviani, ecc. L’impressione netta prodotta da molte opere d’esordio è che nessuno intenda assumersi la responsabilità di recidere in modo netto il cordone ombelicale col passato come invece hanno fatto i cineasti francesi.
Vi sono anzi dei gesti che, per gli attori che li rappresentano, possono emblematicamente essere considerati come veri e propri atti di investitura e di passaggio di consegne. Mi piace – ancora una volta – evocare la figura di Rossellini, riconoscendogli il potere carismatico di cogliere, sotto le umili vesti del documentarista, la fisionomia dell’autore e di investirlo – a tutti gli effetti – di questo titolo.

La nuova ondata: Ermanno Olmi

Nel 1961, in occasione della premiazione del documentario di Ermanno Olmi2 Un metro lungo cinque al Festival del cinema industriale di Torino, Rossellini dichiara «Questo modo di fare il cinema significa scoprire il mondo».
Rossellini, com’è noto, è stato uno dei pochi registi del cinema mondiale (un vero e proprio «padre Adamo» come lo ha definito Fellini) la cui lezione sia stata diffusa ai quattro angoli della terra da allievi e discepoli e in un panorama vario e dalle diramazioni imprevedibili Olmi appare come uno dei più legittimi interpreti della lezione rosselliniana3.
Aveva ragione Christian Depuyper nel definire Olmi – in occasione di un omaggio francese al regista – come «il più solitario e nello stesso tempo il più coerente dei registi italiani del dopoguerra». La sua condizione e la sua scelta di operare ai margini della grande produzione non gli impediscono di assumere naturalmente il ruolo di punto di riferimento per molto cinema indipendente e soprattutto quello di maestro4.
Olmi possiede naturalmente il carisma del maestro fin dai suoi primi atti compiuti ai margini del territorio cinematografico più legittimato dalla critica. In effetti a ben guardare lo spirito che ha guidato dagli inizi a oggi le sue scelte cinematografiche riesce a cogliere il cuore, il nucleo profondo del progetto del grande cinema italiano del dopoguerra. Maestro, nel suo caso, è un individuo che mostra di saper raccogliere un’eredità culturale, di saper far rivivere dei saperi che altrimenti andrebbero perduti. Maestro, nel suo caso, significa saper far diventare naturalmente il suo corpo creativo e culturale un ponte attraverso cui altre generazioni possano passare.
Il regista fa propri alcuni aspetti del magistero rosselliniano, ma anche di autori come Bresson, Resnais, Dreyer, Mizoguchi, aggiungendovi di suo un rispetto per il mestiere e un’etica che non lo vedranno mai piegarsi, nonostante insuccessi e stroncature, a compromessi, cedimenti alle mode o alle leggi del mercato. Sa raccogliere l’eredità del neorealismo senza che le sue scelte ne ricalchino le strade canoniche, ma anche di tutta una serie ulteriore di saperi che altrimenti andrebbero perduti. In un periodo in cui il patrimonio artigianale del cinema è disperso e cancellato, Olmi appare come una sorta di reincarnazione dell’artista rinascimentale ed è ancora oggi una delle poche figure in grado di dominare tutti gli aspetti realizzativi del film e di esplorare le frontiere degli effetti speciali in film come Cantando dietro i paraventi. È uno dei registi che più vuole e sa sperimentare la macchina da presa come strumento di ricerca, luogo di confluenza e metamorfosi di molti tipi di affabulazione, orale, di scrittura visiva, poetica, letteraria e musicale.
La sua carriera e il suo tipo di lavoro sono tra i più irregolari di tutto il cinema del dopoguerra. Olmi è un autodidatta che inizia la sua attività come cineamatore e che, per una decina d’anni, si forma girando documentari per e sul lavoro della Montedison5. Nei documentari della fine degli anni Cinquanta (Tre fili a Milano, 1958; Un metro lungo cinque, 1959; Alto Chiese, 1961) mette a punto competenze tecniche e linguistiche che gli consentiranno di passare, senza stacchi, al lungometraggio. Olmi si è trovato a riprodurre in piccolo l’esperienza del documentarismo inglese degli anni Trenta del General Post Office di John Grierson. Egli ha la possibilità di incontrare, per l’ideazione di questi documentari, Parise, Pasolini e di collaborare con loro, apprendendo così tutte le tecniche del processo realizzativo, dall’ideazione alle riprese al montaggio.
Dalla lezione del grande documentarismo civile americano, oltre che da quella rosselliniana, egli riceve la spinta a osservare gli aspetti comuni della vita e a rintracciare nei gesti quotidiani valori assoluti. Negli anni in cui il lavoro operaio, la fabbrica e la trasformazione dell’assetto industriale del paese non trovano un immediato riscontro nel cinema, quanto piuttosto una rappresentazione metonimica e in negativo (le conseguenze e gli effetti più che le cause), e sono comunque un’esperienza culturale, Olmi è in grado di raccontare vicende che hanno coinvolto direttamente il suo vissuto personale. Il suo punto di vista è l’unico interno al tema rappresentato. Quando altri registi, da Lizzani a Visconti a Scola si vedranno negare l’accesso alla fabbrica per le riprese di loro film negli anni Sessanta e Settanta, Olmi riesce a muoversi con assoluta libertà rappresentativa e a raccontare dall’interno il lavoro operaio offrendo una testimonianza diretta così forte e significativa da costituire oggi una fonte indispensabile degna di misurarsi con le opere letterarie e poetiche di Ottieri, Bianciardi, Volponi e Pagliarani.
Olmi ha l’esatta percezione di cosa succede nella trasformazione dei gesti del contadino che diventa operaio, della rivoluzione epocale che, nell’arco di pochi anni, travolge un mondo la cui velocità di trasformazione è stata costante per secoli. Nessun regista prima di lui si era spinto fino a interrogarsi su cosa succede nella testa di un contadino che passa improvvisamente al tornio e diventa operaio o qual è la profonda trasformazione antropologica nei gesti dell’italiano popolare che viene sbalzato di colpo da una civiltà agricola a una civiltà industriale.
Il lungometraggio d’esordio, Il tempo si è fermato (1961), segna un punto d’arrivo di questa prima fase della sua attività: l’esperienza documentaristica confluisce nel racconto di un «breve incontro», a 2.500 metri di altezza, tra un vecchio montanaro e un ragazzo che viene dalla città. Tagliati fuori dal mondo due universi distanti iniziano un lento processo di avvicinamento e di conoscenza reciproca attraverso una comunicazione fatta di sguardi, silenzi, e l’uso assai parco delle parole6.
La caduta dell’incomprensione e della diffidenza tra il lavoratore e l’intellettuale ci viene raccontata in termini essenzialmente visivi.
Il giovane regista rivela subito la sua capacità di osservatore partecipe e discreto di comportamenti. Non c’è mai facile affettività o ricatto emotivo nei suoi primi piani. Il volto per lui è come un paesaggio che muta di continuo, ma conserva anche tracce profonde delle condizioni di vita della persona. Nella sua poetica, come nella sua tematica, ciò che gli interessa di più è la scoperta degli spiragli positivi, dei meccanismi disalienanti. Nei primi piani, nei rapporti tra personaggi e ambiente, si cerca di trovare l’anello capace di spezzare la catena dei gesti ripetuti e alienati. Diversamente da Pasolini, che fa sentire il senso della fisicità del rapporto tra il suo sguardo e i volti e i corpi dei «ragazzi di vita», Olmi si accosta ai personaggi e cerca di seguirne i processi comunicativi indiretti con gli altri. Gesti, sguardi, silenzi prolungati, frasi lasciate a metà... Il detto che gli interessa è quello che il personaggio sa esprimere con la sua semplice presenza significante in un ambiente. Anche Olmi è una presenza implicita nei suoi film: il suo tocco è così leggero da risultare spesso inavvertibile7. Con felice espressione il critico francese Christian Depuyper ha definito nel corso di un convegno dedicato a Olmi (a Fiesole nel 1987) il cinema di Olmi come «ipodermico», nel senso che ti fa passare sotto la pelle del personaggio. Pochissimi registi del cinema mondiale sono dotati di simili qualità.
Nei documentari, nel Tempo si è fermato, nel Posto (1962), che segna l’inizio di una seconda fase operativa, o nei Fidanzati, Olmi riesce a esplorare naturalmente, senza dichiarati supporti ideologici, o intenzioni di denuncia, o scopi illocutivi o moraleggianti, un insieme di comportamenti comuni e a dare la sensazione di come quei gesti scandiscano, in larga misura, la vita quotidiana8.
Di fronte al secondo lungometraggio la critica avverte confusamente la presenza di un autore9, eppure prova disagio di fronte a una denuncia della solitudine non gridata ma detta in modo sommesso e non per questo meno disperato. «Raramente ho visto sullo schermo una scena di squallore pari a quello che promana dal veglione di carnevale. Si tratta di uno squallore la cui pittura pare crudele ed è pietosa»10.
Su «Cinemasessanta» Mino Argentieri non è tenero con il quasi esordiente regista e lo giudica «inadatto a rielaborare criticamente e ad approfondire gli spunti dei suoi modelli preferiti e privo di una individualità autonoma»11.
Rispetto ad Antonioni, che parte dall’alienazione intellettuale, Olmi mostra l’alienazione partendo dal mondo operaio, dalla materialità del lavoro, delle operazioni e delle attività esecutive, dalla chiusura dell’esistenza entro un orizzonte prevedibilmente sempre eguale.
Attraverso Il posto, Durante l’estate, Un certo giorno e La circostanza, il regista esplora quella che per lui è una fenomenologia dell’alienazione quotidiana in soggetti che occupano ruoli diversi nell’organigramma lavorativo. In parallelo però, con Il tempo si è fermato, I fidanzati, fino all’Albero degli zoccoli, egli riesce anche a far ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Nota dell’Autore
  3. Dagli anni del boom all’assedio delle luci rosse
  4. Politica e cultura delle istituzioni tra il vecchio e il nuovo
  5. I cineclub
  6. Il lavoro degli sceneggiatori tra lingua e letteratura
  7. La critica
  8. Divi, mostri, attori
  9. Elementi per una carta del navigar cinematografico degli anni Sessanta
  10. Il vecchio e il nuovo: l’eredità e le ceneri del neorealismo
  11. Tre generazioni a contatto e a confronto
  12. Orbite e parabole nel cinema dei maestri
  13. Splendori e miserie dei generi
  14. Il paesaggio nella catastrofe
  15. La crisi più lunga
  16. Il mercato: mutamenti del gusto e lunga agonia dell’«homo cinematographicus»
  17. Il cinema in televisione
  18. La generazione degli anni Ottanta: i sommersi, gli emergenti, gli emersi
  19. C’era una volta il cinema italiano
  20. Guardare avanti, nonostante tutto
  21. Bibliografia