La Cassa per il Mezzogiorno e la politica
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La Cassa per il Mezzogiorno e la politica

1950-1986

  1. 352 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La Cassa per il Mezzogiorno e la politica

1950-1986

Informazioni su questo libro

Questo libro, frutto di una lunga ricerca su fonti archivistiche inedite, ricostruisce la storia della Cassa per il Mezzogiorno alla luce dei suoi rapporti con la politica italiana. Dalle fonti raccolte emerge che se in un primo ventennio – dall'inizio degli anni Cinquanta alla fine dei Sessanta – a predominare nella Cassa furono nettamente le luci, nei suoi ultimi lustri, cioè fino alla metà degli anni Ottanta, ebbero il sopravvento le ombre. L'analisi non si occupa tanto della ricostruzione tecnico-economica dell'ente, quanto piuttosto dei suoi rapporti con la politica e delle influenze che da essa subì. Emerge così il quadro interessante di una struttura tecnocratica in origine snella ed efficace, per assurdo fin troppo all'avanguardia per la realtà in cui si trovò a operare, la cui spesa divenne col tempo, da aggiuntiva, sostitutiva di quella ordinaria dei vari ministeri, e che finirà per essere snaturata nei suoi compiti originari anche da parte delle nascenti regioni a statuto ordinario.

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Informazioni

eBook ISBN
9788858135754
Argomento
Business
Categoria
Finanza

I.
Il concretizzarsi di tante speranze:
la nascita della Cassa

Quasi tutta la produzione è organizzata – se la parola
non sembrasse scherno in questo caso – in una miriade
di piccolissime, piccole e meno piccole imprese contadine, senza un centro, senza una base in campagna, legate
al mulo e all’asino del coltivatore che fa chilometri
e chilometri per raggiungere la terra. In queste zone,
che sono tanto frequenti anche in altre regioni
del Mezzogiorno e della Sicilia, in queste zone
quella che c’è non si può chiamare agricoltura, ma pazzia14.
L’Italia uscì stremata dalla guerra sotto tutti i punti di vista. La più che ventennale dittatura mussoliniana, la guerra perduta e il conflitto civile avevano lasciato una pesante eredità. Negli anni a seguire la storiografia ha evidenziato come le perdite materiali, soprattutto per quel che concerneva l’apparato industriale, fossero in realtà meno gravi di quel che si poteva pensare e di quanto si credette all’epoca15. Ciononostante, come icasticamente condensato nelle pellicole del Neorealismo, l’immagine che il Paese offriva era quella di una nazione in ginocchio, tanto nella percezione degli stranieri quanto in quella degli stessi italiani; e quest’ultima, per quanto potesse risultare esagerata, ebbe il suo peso e con tale vissuto collettivo bisogna, volenti o nolenti, confrontarsi. Le devastazioni erano state comunque notevoli in molti ambiti, a livello sia di infrastrutture che di patrimonio immobiliare, a causa delle pesanti distruzioni subite dalle abitazioni private in seguito ai bombardamenti e al passaggio del fronte. I combattimenti avevano infatti dato vita a una sorta di esercito parallelo, composto dai cosiddetti sfollati, vale a dire i civili privi di una fissa dimora, avendo perso la propria.
Probabilmente, però, le ferite più dolorose e quindi le più difficili da cicatrizzare non riguardavano i pur fondamentali aspetti della quotidiana sopravvivenza, bensì la sfera morale ed emotiva. La dura sconfitta militare, infatti, e poi la Resistenza, con i quasi due anni di guerra civile, avevano lasciato dietro di sé una lunga scia di lutti, sciagure, traumi, rimozioni individuali, famigliari e talvolta collettive che avrebbero richiesto molto tempo e il passaggio di almeno una generazione prima di essere parzialmente sanati. Si preferì allora, da parte dei più, imboccare la strada più corta e agevole, secondo un intento umanamente comprensibile ma sul lungo periodo foriero di ripercussioni negative: scaricare l’intera responsabilità dell’accaduto sul fascismo e su Mussolini, facendo finta che la dittatura fosse stata una brutta pagina da lasciarsi per sempre alle spalle.
In realtà, come la ricerca storica dei decenni a venire si sarebbe incaricata di fare, il regime mussoliniano era lungi dall’essere stato una mera parentesi, quella calata degli Hiksos – per stare alla celebre definizione di Benedetto Croce – su una società sana; si inscriveva al contrario nella vicenda nazionale, avendo tra l’altro potuto contare su larghissimi consensi almeno fino all’entrata nel secondo conflitto mondiale. Neanche il Trattato di pace di Parigi del 1947 fu in grado di stimolare un generalizzato ripensamento sui precedenti decenni. Eppure in esso si riconosceva l’Italia come nazione sconfitta tout court, a cui, malgrado la recente cobelligeranza, non era riservato alcuno sconto. Alle riparazioni in favore degli ex nemici, infatti, si sommavano le amputazioni territoriali non indifferenti dell’Istria e della Dalmazia, nonché la perdita delle colonie, senza alcuna distinzione – come invano richiesto dai governi italiani – tra possedimenti prefascisti e fascisti. Quest’ultimo non fu un particolare di secondaria importanza, in quanto la perdita dei possedimenti d’oltremare manu militari privò l’Italia di quel lungo, travagliato processo che fu la decolonizzazione; fenomeno che, verosimilmente, come avvenuto in altre realtà europee, avrebbe potuto stimolare quanto meno un dibattito sui trascorsi coloniali in età liberale prima e sotto il fascismo poi. Ad ogni modo, tornando al Trattato, esso sanciva un definitivo ridimensionamento dell’Italia sotto il profilo sia geopolitico sia militare per cui, abbandonata ogni velleità di grandezza, il nostro Paese si vedeva relegato al ruolo di media potenza regionale.
Ma la quotidianità vedeva la maggioranza degli italiani presa da ben altre priorità, impegnata com’era in un’aspra lotta per la pura sopravvivenza. Alta era la percentuale delle famiglie toccate (e spesso lacerate) dal turbine del conflitto nelle sue varie accezioni. Infatti al compianto per i numerosi caduti militari e civili si univano i problemi per l’altrettanto consistente numero di feriti, oltre alle fitte schiere di reduci e disoccupati (o sottoccupati), che non di rado coincidevano nella medesima persona. Senza tralasciare una diffusa malnutrizione, la difficile reperibilità di medicinali, un endemico tasso di violenza dalle numerose sfaccettature, che spaziavano dalla delinquenza comune ai regolamenti di conti, soprattutto nel Centro-Nord, nei confronti dei fascisti (o presunti tali); e ancora la ripresa conflittualità economico-sociale, le istanze separatiste in Sicilia, un’inflazione da capogiro, la notevole carenza di materie prime, il persistere del mercato nero e il conseguente acuirsi di sperequazioni di ogni genere. Insomma, quanto bastava per far tremare le vene ai polsi di qualsiasi governo. Il tutto, poi, inserito all’interno di un contesto politico nazionale che definire lacerato è limitato. Nel giro di pochi anni il Paese aveva subito tali sommovimenti tellurici da risultare perennemente spaccato in due lungo una profonda faglia. Questa correva dapprima lungo il crinale fascismo/antifascismo, poi rispecchiò la dicotomia monarchia/repubblica e infine si attestò sulla contrapposizione più duratura, quella tra comunismo e anticomunismo, vero perno attorno al quale ruotò la storia dei successivi quarantacinque anni. E in effetti lo spettro dello scontro fratricida, dopo quello effettivo durante la Resistenza, si era andato rinnovando in modo preoccupante dapprima all’indomani del referendum del 2 giugno 1946, nel clima di incertezza e a causa di numerose contestazioni dell’esito elettorale; e in un secondo momento nel luglio del 1948, quando, in seguito all’attentato a Palmiro Togliatti, frange della sinistra comunista erano state sul punto di imboccare la via dell’insurrezione armata. Entrambi, quindi, episodi in cui il Paese corse il rischio piuttosto concreto di un rinnovato conflitto civile.
In un simile quadro nazionale risultava se possibile ancor più rafforzato un altro tipo di dualismo, quello Nord/Sud, o – in altre parole – quello delle due Italie; vale a dire la dicotomia che dall’Unità in poi si era andata consolidando, fino a raggiungere sotto il fascismo il proprio acme16. Malgrado quanto si sarebbe potuto pensare, infatti, i bombardamenti e ancor di più il passaggio del fronte avevano assunto la fisionomia di un vero rullo compressore, in special modo nelle regioni centro-meridionali17; unico rovescio della medaglia parzialmente positivo era stato che buona parte delle attenzioni dei governi dell’Italia liberata e degli Alleati avevano finito per concentrarsi sul Mezzogiorno, arrivando alla congiunta conclusione che per far ripartire la nazione bisognava intervenire subito e in modo massiccio al Sud. Senza contare poi che le devastazioni in esso registratesi venivano ad aggravare una situazione già in partenza particolarmente fragile a causa di un’economia ancora largamente arretrata, come stava a confermare un tessuto economico-sociale tipico – salvo poche eccezioni – di una realtà preindustriale18. In altri termini, la tragedia bellica aveva colpito un’area con un’agricoltura ulteriormente depauperata, sulla quale era ricaduto come un macigno l’incremento demografico di quattro milioni di persone; pertanto alla fine delle ostilità il distacco complessivo tra le due macroaree del Paese faceva registrare un dato preoccupante: il Pil dell’intero Sud equivaleva al 53% di quello del Centro-Nord. Perciò ai più accorti fu subito chiaro come la risoluzione del problema meridionale fosse un tutt’uno con la ricostruzione dell’intero Paese19. Ma tralasciando per un attimo le conseguenze della campagna d’Italia del 1943-1945 tra gli eserciti alleati e le truppe del feldmaresciallo Kesserling, proviamo a vedere brevemente come e perché era sorta la questione meridionale.
Con una semplificazione che non crediamo vada poi lontano dalla realtà, possiamo affermare che la questione meridionale sorge in pratica già all’indomani della formazione del Regno d’Italia, sebbene sotto altro nome: all’epoca si parlava infatti di questione napoletana, ma in buona sostanza di questo si trattava; e per comprendere come il tema fosse percepito nella propria gravità basti ricordare come veniva menzionato da Cavour stesso in punto di morte20. Di una sorta di atavica diversità tra le due parti della penisola – quella che oggi con un infelice neologismo si è portati a chiamare divisività21 – si era in effetti cominciato a parlare già durante la Restaurazione, con un’impennata a partire dalla metà dell’Ottocento; e il tema dell’effettiva disparità o meno tra le regioni meridionali e quelle settentrionali al momento dell’unificazione ha finito quasi da allora con l’attirare l’analisi di storici, intellettuali e politici. Ultimamente, in concomitanza col 150° anniversario dell’Unità, ha ripreso vigore l’interpretazione secondo la quale le province dell’ex Regno delle Due Sicilie fossero quasi una sorta di Arcadia, in cui l’assolutismo paternalistico dei Borbone consentiva, grazie ad alte barriere doganali e soprattutto a un bla...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Introduzione
  3. I. Il concretizzarsi di tante speranze:la nascita della Cassa
  4. II. Tra speranze e progettazione: bonifiche, strade, acqua ed energia (1950-1957)
  5. III. Gli anni della crescita industriale
  6. IV. L’inizio della fine: la crisi degli anni Settanta
  7. V. 1978-1986: ultimo atto
  8. Conclusioni
  9. Appendice documentaria
  10. Interviste