
- 200 pagine
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Informazioni su questo libro
Come si configura il rapporto tra le forme di organizzazione politica e le dinamiche sociali del mondo contemporaneo? In questa epoca di trasformazioni ambigue e incompiute, in cui emergono nuovi modelli di razionalità e nuovi attori politici, occorre ripensare, trascendere o rinnegare l'esperienza dello Stato moderno?
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PhilosophieCategoria
Philosophie politiqueCapitolo primo. Dopo lo Stato
È compito dello Stato assicurare condizioni di giustizia ed equità? Il presente capitolo cercherà di mostrare come tale quesito, pietra angolare dei paradigmi teorico-politici che hanno segnato la seconda metà del Novecento, stia perdendo la sua ragion d’essere in forza di una radicale riconfigurazione del rapporto tra governo e giustizia. Il par. 1 metterà in luce come il governo si limiti ormai a erogare prestazioni minimali di regolazione e garanzia, mentre al contempo delega alcuni decisivi oneri di gestione politica e assicurazione della giustizia. Esso, infatti, per un verso rilascia ai gruppi fondati su legami etnico-culturali alcune funzioni di amministrazione delle dinamiche interne, per l’altro affida a diversi organismi istituzionali, come le Corti costituzionali e i tribunali internazionali, il compito di accogliere e tradurre in decisioni vincolanti le varie esigenze di giustizia socialmente diffuse. Il par. 2 analizzerà come, proprio in risposta a questo ridimensionamento dell’azione del governo statale, la giustizia sociale abbia assunto negli ultimi anni una forma del tutto inedita e non priva di ambiguità.
1. Teorie del governo
1.1. Nuove forme del liberalismo
Il liberalismo – inteso quale teoria politica fondata sulla limitazione del potere statale al fine di preservare e garantire i diritti fondamentali dell’individuo – nasce storicamente con la forma-Stato e all’interno dell’ingegneria costituzionale di cui essa si fa portatrice. Allo Stato, pertanto, la teoria in questione è legata a doppio filo: al succedersi delle forme storiche del primo evolve al contempo la forma teorico-politica della seconda, costretta a ripensarsi in conformità alle mutate esigenze della realtà che è chiamata a regolare (Fioravanti 2009).
Unica teoria politica moderna a essere uscita trionfante dalle tormentate vicende del secolo scorso, il liberalismo contemporaneo si è tuttavia profondamente trasformato in conformità agli speculari mutamenti del modello statale tardo-novecentesco. Si è infatti passati da una paritaria inclusione dei singoli in quanto individui a un differenziato riconoscimento degli stessi quali membri di gruppi sociali, etnici e religiosi di varia e difficilmente componibile natura, in conformità a logiche e processi politici che relegano sempre più lo Stato, per molto tempo indiscusso e sovrano decisore di politiche pubbliche normativamente giustificabili, alla funzione subordinata di contenere le spinte centrifughe presenti al suo interno, secondo una strategia il cui successo è in ultima istanza rimesso a mere contingenze fattuali.
In quanto segue si cercherà di rendere conto di tale mutamento di paradigma, inquadrandolo alla luce della questione fondamentale del liberalismo politico: come far coesistere interessi e preferenze individuali legittime ma tra loro confliggenti? Come si vedrà, la risposta classica – che puntava su un insieme neutrale di regole costituzionali, in grado di garantire un complesso di diritti fondamentali, a loro volta in condizione di proteggere il singolo tanto dagli altri individui quanto dallo Stato – appare sempre più compromessa.
Una teoria della giustizia di John Rawls (1982), pubblicato nel 1971, può essere a buon diritto considerato il vero manifesto della filosofia politica liberale della seconda metà del Novecento. Il contesto teorico-culturale e socio-politico in cui l’opera in questione vede la luce è caratterizzato da due rispettive tendenze fondamentali: la rinascita della filosofia pratica (morale e politica), in parziale risposta all’ormai declinante dominio dell’utilitarismo, e i fasti dello Stato sociale, soprattutto europeo, che si proponeva quale via mediana tra le istanze del liberalismo classico e le varie teorie di ascendenza marxista. Al di là del fatto che il testo si presenti come un’opera di filosofia morale (e non primariamente giuridico-politica) di impianto contrattualista e ispirazione kantiana, la teoria della giustizia come equità, avanzata da Rawls nell’opera richiamata, può dunque essere intesa come la celebrazione dello Stato sociale novecentesco, ovvero di un modello di Costituzione politica in grado di coniugare esigenze di stabilità e aspirazioni di giustizia sociale all’interno di una salda e coerente cornice costituzionale.
Al problema di fondo di come risalire a una Costituzione politica e ad assetti economici e sociali giusti – cioè tali da poter essere idealmente accettati da individui liberi e razionali, che si trovino in eguali condizioni di partenza – Rawls fornisce la seguente risposta: la giustizia in generale richiede che i beni sociali primari, ovvero quei beni necessari alla realizzazione del progetto di vita di ciascuno (quale che esso sia), siano ugualmente distribuiti, a meno che una distribuzione ineguale vada a vantaggio di tutti. In questa prospettiva, giustizia per Rawls significa dunque rintracciare dei principi normativi universali, tali da poter essere accettati da esseri razionali cooperativi e reciprocamente disinteressati, ossia da individui che, in fase di deliberazione, facciano astrazione dallo specifico posto che occupano nel contesto familiare, sociale e nazionale in cui si trovano a vivere ed agire.
Tale concezione di fondo si esplicita in due principi di giustizia, gerarchicamente ordinati (nel senso che il conseguimento del secondo deve essere subordinato alle condizioni stabilite dal primo): il primo prescrive che a ognuno venga riconosciuto il massimo grado di libertà compatibile con il massimo grado di libertà di ciascun altro; il secondo prescrive che le sole ineguaglianze sociali ed economiche ammesse sono quelle che: a) risultano l’esito di una competizione in cui a tutti sia stata offerta la possibilità di competere in condizioni di equa eguaglianza di opportunità; b) assicurano il massimo beneficio possibile ai meno avvantaggiati dalla regolazione prefigurata.
A distanza di più di venti anni, tuttavia, il quadro muta considerevolmente. Liberalismo politico (1994), pubblicato nel 1993, sovverte sia l’impostazione che gli esiti normativi di Una teoria della giustizia: Rawls sostiene qui che l’errore principale commesso nell’opera del 1971 consiste nell’aver prospettato la concezione della giustizia come equità quale ideale morale universale, condivisibile da ogni singolo in ogni contesto storico e culturale, in quanto esito normativo terzo ed equidistante rispetto ai vari e contrastanti punti di vista etici socialmente diffusi. Rawls argomenta di contro che tale concezione oggi non può più rappresentare un neutrale punto archimedeo: la giustizia come equità rappresenta a sua volta una specifica «visione del mondo», al pari di ogni altra, e in quanto tale è chiamata a giustificarsi pubblicamente in un contesto sociale in cui gli individui difendono «concezioni del bene» differenti e non del tutto né commensurabili né componibili.
In Liberalismo politico, il problema della giustizia è strettamente connesso a quello della stabilità: la politica nelle società contemporanee ha il compito primario di gestire il «fatto del pluralismo», ovvero la compresenza di visioni del mondo tra loro irriducibili, che Rawls chiama «dottrine comprensive». Il problema di fondo del liberalismo diventa quindi il seguente: dal momento che non è realistica né auspicabile una società in cui tutti gli individui facciano propria una visione del mondo come quella avanzata in Una teoria della giustizia, esiste un assetto politico in grado di assicurare la coesistenza pacifica delle varie dottrine comprensive, rispettandone al contempo la diversità?
Per rispondere, Rawls presenta una concezione della giustizia che definisce politica, in quanto fondata sull’assetto derivante da un consenso per intersezione e giustificata sulla base dell’idea di ragione pubblica. Consideriamo brevemente i tre concetti fondamentali qui richiamati in corsivo.
Una concezione politica – di fatto sinonimo di «costituzionale» – della giustizia è tale in quanto indipendente da premesse metafisiche, epistemologiche e morali: si tratta di concepirsi non più quali agenti morali, bensì, più limitatamente, quali cittadini democratici, che si riconoscono in una Costituzione fondamentale e in determinati assetti liberali, al di là di ogni altro principio e credenza extra-politica, i quali devono essere del tutto esclusi dal ragionamento pubblico dacché di fatto non condivisi dal resto dei concittadini.
Laddove i cittadini siano ragionevoli – ovvero riconoscano la pari legittimità e la reciproca irriducibilità delle diverse dottrine comprensive, e nondimeno conservino il desiderio di cooperare secondo condizioni paritarie e accettabili da tutti (mentre irragionevoli sono tutti coloro che intendono imporre a terzi le norme sociali e lo stile di vita alla base della loro specifica visione comprensiva) – è possibile operare nella cornice di un «consenso per intersezione». Tale consenso si riduce al reperimento di un minimo comun denominatore normativo, ovvero di una base pubblica di deliberazione (in sostanza, una condivisa cornice costituzionale), che può essere fatta propria da tutte le dottrine comprensive ragionevoli in virtù del fatto che ciascuna di esse ha già presenti al proprio interno, sebbene declinati in modi molto diversi da dottrina a dottrina, valori e ragioni sufficienti a giustificare e sostanziare i principi politici a fondamento della giustizia come equità. In sostanza, sebbene ognuna per ragioni diverse e di per sé probabilmente non condivisibili al di fuori del contesto etico-culturale su cui esse fanno presa, ogni dottrina comprensiva converge su un insieme minimale di norme di convivenza tra gruppi sociali altrimenti destinati a scontrarsi irrimediabilmente.
Il ragionamento pubblico richiede in sostanza che nella sfera politica lo spettro di ragioni che è normativamente legittimo avanzare venga ristretto al complesso di ragioni che risultano di fatto già condivise da tutte le dottrine ragionevoli entro un assetto sociale libero e democratico: in questa prospettiva, un argomento (e derivatamente i principi di cui esso è a fondamento) risulterà tanto più ragionevole quanto più sarà condiviso da un più ampio numero di dottrine comprensive (cui Rawls riduce ben più complessi e spesso contraddittori contesti sociali e culturali).
Ciò che qui interessa mettere in evidenza, al di là di più specifiche considerazioni sulla rilevanza e cogenza delle argomentazioni rawlsiane, è proprio come il trentennale percorso filosofico di Rawls, sommariamente tratteggiato, possa essere assunto quale riflesso teorico tanto della parabola storica del liberalismo quanto della diversità dei rispettivi contesti storico-politici di riferimento nelle due opere citate.
In tale ottica interpretativa, Una teoria della giustizia rappresenta, come accennato, il manifesto teorico di quello Stato sociale che conosceva allora la sua massima espansione e floridità: il quarto di secolo che separa il testo di Rawls dalla fine del secondo conflitto mondiale aveva presentato tassi di crescita economica senza precedenti, alti salari, bassi livelli di inflazione e un epocale incremento del benessere sociale (tutti indici attualmente in forte contrazione sia in Europa che negli Stati Uniti). In tale contesto storico-politico, il modello di riferimento è dunque rappresentato da uno Stato inteso quale garante di eque condizioni socio-economiche, ovvero fornitore, allocatore e regolatore di beni e opportunità di uguale natura da distribuire a singoli individui, in modo tale da ridurre, se non eliminare, la disparità delle loro rispettive condizioni sociali.
Soprattutto la riflessione dell’economista indiano Amartya Sen (2000, 2010) può essere considerata, in questa prospettiva, come la più fedele prosecuzione e il più efficace inveramento, pur da posizioni critiche, della logica inclusiva ed egualitaria affidata all’allocazione di beni primari. In particolare, si tratta di tener conto delle soggettive e diversificate capacità di ciascuno – tali in quanto dipendenti dalle risorse individuali di cui si dispone e dallo specifico contesto sociale in cui si agisce – nel convertire detti beni o risorse comunque necessari in concrete possibilità di realizzare i piani d’azione e raggiungere un livello qualitativo accettabile per quanto attiene al proprio progetto di vita.
Di contro, con Liberalismo politico il quadro di riferimento è nel frattempo profondamente mutato: a determinare la crisi del modello precedente furono l’implosione del sistema sovietico e gli sviluppi dei processi d’emancipazione dei contesti post-coloniali, per un verso, e l’impatto delle crisi energetiche che segnarono proprio l’ultimo quarto del secolo scorso e le trasformazioni delle coeve forme capitalistiche, per l’altro. Stretta tra la reazione radicale del liberismo degli anni Ottanta e le rivendicazioni etnico-identitarie di comunità e minoranze politiche non più gestibili secondo la logica statalista invalsa fino ad allora, la teoria liberale finisce per aprirsi a richieste di riconoscimento avanzate da collettività sopra-individuali di varia origine e per assorbire molti dei lasciti delle tradizioni rivali (su tutte il comunitarismo), prendendo atto in tal modo dell’irriducibile pluralità di approcci e visioni del mondo, che appaiono di per sé difficilmente compatibili.
Il modello di riferimento diviene conseguentemente uno Stato il cui compito essenziale è quello di assicurare la sussistenza di un consenso minimale per la composizione del disaccordo tra membri di gruppi con identità, esigenze e tradizioni differenti, soprattutto per quanto riguarda la concezione stessa dei compiti e delle funzioni dello Stato, chiamato in tal modo sempre più affannosamente a mediare tra principi di aspirazione universalista e inaggirabili differenze culturali (Ferrara 2000).
Nel periodo di transizione che segna il passaggio dal primo al secondo modello di riferimento (ovvero da uno Stato garante di eque condizioni socio-economiche a uno Stato mediatore tra gruppi sociali e comunità radicalmente differenti), si assiste a quella che è stata definita la «svolta contestuale» della riflessione politica contemporanea, consistente in una sempre più diffusa attenzione verso i contesti politici locali, caratterizzati da questioni pubbliche differenti, approcciate in modo differente, in risposta a esigenze differenti. Se già la riflessione di Sen, come accennato, allarga l’analisi alle condizioni contestuali delle politiche redistributive, sono tuttavia le critiche da parte dei vari teorici riconducibili alla galassia comunitarista a dominare il dibattito filosofico-politico degli ultimi anni del secolo scorso.
Il comunitarismo pone l’accento sulla necessità di considerare le relazioni e i contesti comunitari (la famiglia, il vicinato, le associazioni, i gruppi con finalità politiche, ecc.) come condizioni pratico-sociali indispensabili per la formazione della soggettività individuale. Secondo l’ottica comunitarista, le specifiche esigenze di simili realtà contestuali dovrebbero pertanto essere salvaguardate anche in ottica liberale, la quale invece tende ad astrarre completamente da ogni ancoraggio sociale particolaristico, in favore di forme di contrattualismo pre-sociali, che si rivelano in realtà astrazioni irrealistiche e fuorvianti. Anche il concetto di neutralità, alla base dell’universalismo liberale, altro non è, secondo la critica comunitaria, che un costrutto ideologico, dipendente da una specifica e particolaristica, ancorché non esplicitata, concezione del bene (tesi che, come visto, verrà in parte accolta dallo stesso Rawls). Per il comunitarismo, dunque, la giustizia si sostanzia nella conservazione del sommo bene comune, rap...
Indice dei contenuti
- Introduzione
- Ringraziamenti
- Capitolo primo. Dopo lo Stato
- Capitolo secondo. Sopra lo Stato
- Capitolo terzo. Senza lo Stato
- Bibliografia