1.
Scrivo (a mano) quindi sono (io)
Il proprio nome, forse la prima parola che proviamo a scrivere, anche quando scrivere
non sappiamo ancora ma abbiamo intuito che esiste un disegno che ci rappresenta, e che è importante. A scuola, sul quaderno, sui compiti in classe,
sul diario... Io sono il mio nome. Scrivere il proprio nome per dire è mio, sono io,
ci sono! E poi quello delle persone per noi importanti: la mamma, il papà, il gatto,
gli amici, gli amori... scritti e riscritti su quaderni, diari, muri.
Non è un caso che con la nostra firma sigliamo i documenti che ci riguardano: assegni,
atti ufficiali, autocertificazioni, acquisti... La firma assume il ruolo di testimonianza
della nostra presenza, del nostro consenso, della nostra autentificazione e approvazione.
firma di Alessandro Manzoni
«Con la firma la scrittura si appropria, cioè diventa ad un tempo l’espressione di
un’identità e il segno di una proprietà; essa assicura a colui che la esegue il diritto
di godere del proprio prodotto. Autentifica l’impegno preso con la persona; è un elemento
importante del sistema economico, ma anche psicologico»1.
F. mi chiede di realizzare la firma di Babbo Natale, che suo figlio, 6 anni, ha chiesto
di trovare insieme ai regali per provarne l’esistenza (da notare che ha chiesto la
firma, non la foto).
La firma diventa autografo, ricordo e testimonianza di un incontro speciale. L’autografo
certifica il nostro contatto di cui rimane traccia, prezioso bottino vincolato al
suo supporto: libro, disco o improvvisato frammento di carta. In occasione di festival
letterari e presentazioni di libri non manca il rito del “firma copie”, in cui l’autore
dedica e autografa il volume ai lettori che, in fila, attendono il segno visibile di questo contatto. Quella firma, quella dedica, quella frase, porta con
sé tutto il valore emotivo dell’incontro. Potremmo dire lo stesso di un sms, di un
messaggio whatsapp, di una mail?
Qualche tempo fa, parlando di scrittura a mano con gli allievi di un corso di graphic design, chiesi se dal loro cantante preferito avrebbero voluto un autografo o un sms. «Anche
un sms va bene» è stata la loro risposta. Forse che i “millennials” non sentono più
la differenza tra un autografo e un sms? Andrebbe valutata la grande differenza emotiva tra un testo manoscritto e uno digitato.
Quando scrivo, ti scrivo: impugno lo strumento scrittorio, scelgo il supporto, impiego la mia grafia, con
le caratteristiche che la rendono unica – la mia. Scrivo un biglietto di auguri, una
cartolina, una lettera d’amore; piego il foglio, lo inserisco nella busta, acquisto
il francobollo, introduco questo oggetto da me composto nella fessura della buca delle
lettere, per il suo viaggio, la sua storia.
Quale affinità con l’uniformità del testo digitato? Come si può credere che una “star”
si diletti nell’invio di sms ai suoi numerosi fan? Non a caso è nata una nuova professione,
il social media manager, l’alter ego dei divi, colui che ne gestisce i profili social: non c’è nulla di scritto, inteso come espressione personale, i contenuti sono programmati, profilati da altri.
Il testo prodotto meccanicamente può venire scritto da chiunque, da un anonimo, non
presenta alcuna caratteristica di autenticità, nella sua piatta omologazione. Anche,
anzi peggio, quando si tentano “personalizzazioni” utilizzando font script che imitano
la naturalezza della scrittura a mano, ma che costituiscono un falso a tutti gli effetti,
un tentativo di essere speciale essendo in realtà seriale. Perché è sempre preferibile
una brutta scrittura autentica rispetto a una bella scrittura finta, che palesa legature
disarmoniche e lettere doppie seriali. Basta premere invio e, in pochi secondi, il
mio messaggio, uguale, nella forma, a tanti altri, raggiunge il destinatario. Una
velocità funzionale ai tempi moderni, ma non tutti i messaggi hanno la stessa funzione.
La diffusione di nuovi supporti immateriali ci sta privando di questi piccoli trofei,
questi piccoli piaceri che diventeranno ricordi di un particolare momento: le dediche
sui libri, non solo degli autori, ma anche di chi ce ne ha fatto dono, insieme alla
data, al luogo. Di certo non correva questo rischio Mr Poole, che presso il negozio
Cornelissen & Son, a Londra, nell’angolo dedicato alla vendita di pennini per calligrafia,
raccoglieva in un album le firme (e la città di provenienza) dei calligrafi che vi
si recavano per fare acquisti prima dell’avvento dell’e-commerce. In questo modo scambiava
informazioni sulle diverse caratteristiche e peculiarità dei pennini da lui proposti.
Non dissimile la funzione del grande quaderno bianco sul tavolo all’ingresso di mostre
ed eventi, a disposizione per raccogliere le firme e i commenti dei visitatori che
testimoniano la loro presenza in quell’occasione. Ogni pagina è un groviglio, un alternarsi
di scritture diverse. Firmiamo e scorriamo i nomi e i commenti di quelli che sono
passati prima di noi, voltiamo qualche pagina: da dove vengono i visitatori? Cosa
pensano di questa mostra/evento/luogo, sono rimasti soddisfatti? Ci sono famosi autografi?
Persino la nostra lettura lascia dei segni: orecchie, sottolineature, appunti presi
direttamente sui margini della pagina. Un personale indice dei nomi o degli argomenti
compilato sull’ultima pagina. Si dirà: anche l’e-book ha funzioni che permettono queste
stesse interazioni con il libro – sì, persino le orecchie! «I supporti digitali (mp3)
non mancano di nulla, ma essendo qualcosa di evanescente, di non collocabile nello
spazio, sono indifferenti al tempo che passa, non si legano ai ricordi, non si “sporcano”
dei luoghi in cui sono stati o dei proprietari che li hanno posseduti...»2.
1 Roland Barthes, Variazioni sulla scrittura, Graphos, 1996, p. 47.
2 Dal film Aquarius, regia di Kleber Mendonça Filho, 2016.
2.
La scrittura ha il nostro volto
Scelgo una penna, una matita, un pennarello. Lo impugno, riporto sulla carta i miei pensieri, scrivo una lettera, un biglietto di auguri, i compiti, gli appunti, la lista della spesa...
La nostra scrittura dice molto di noi. È personale, individuale. Come il nostro volto e la nostra voce, è unica e ci “assomiglia”: ci rappresenta e ci identifica, diversa dalla scrittura degli altri, è riconoscibile tra le altre, da noi e da chi la ri-conosce. La scrittura a mano rivela chi l’ha tracciata, a partire dalla scelta della carta e della penna.
Quale differenza rispetto al picchiettare delle dita sui tasti! Nessun rapporto con la forma delle lettere, che non vengono tracciate: indico/premo il segno corrispondente. Le lettere si susseguono, le parole si compongono: tutte le lettere uguali tra loro, le mie uguali alle tue, uguali a quelle degli altri. E non importa l’ampia disponibilità di font che ci propone il computer: nessuno è vivo, in grado di rappresentarci, meno che mai quei font che – orrore! – imitano la scrittura a mano, creando un ibrido, o un falso. La comunicazione appare anonima nella forma, e pericolosamente pure i contenuti risentono di questa omologazione anche a causa dei suggerimenti del correttore automatico, forse pratico quando si digita un testo utilizzando un programma di videoscrittura, ma dai risultati bizzarri quando si utilizza la messaggistica veloce1.
Le parole si innestano, si completano a discrezione del programma: alzi la mano chi non ha mai inviato un messaggio ambiguo, o addirittura senza senso, a causa della diabolica combinazione del correttore con la nostra fretta. E così lanciamo in rete i nostri privati (e non) strafalcioni. Ricordo che tra i piatti proposti da un menu di un ristorante di T., località sul mare, saltò agli occhi “radici marinate”. Il cameriere informa che è un errore di stampa, si tratta di alici. Quindi: il correttore automatico ha “corretto” alici in radici, e a sua volta il traduttore automatico in “roots marinated”. Evidentemente nessuno ha verificato, e questo menu, stampato in varie copie, sfoggia i suoi piatti e la distrazione (ignoranza?) del proprietario.
La velocità è sicuramente funzionale quando si tratta di comunicazioni di servizio (ci vediamo alle 12 davanti alla stazione; ritardo 10 minuti; ricordati di comprare la frutta), ma quando il contenuto ha valore emotivo viene apprezzato un piccolo sforzo: TVB, rapido e indolore, uguale ai TVB di tutti, è diverso da un biglietto scritto a mano, pensato nella forma e nel contenuto, scritto con la propria grafia. Certo, impiegherà di più ad arrivare, ma non sottovalutiamo i tempi di attesa e gli effetti sorpresa. Scrive Julian Barnes nel suo libro Il senso di una fine: «Mi chiedo come facesse la gente in passato, quando una lettera impiegava tanto tempo ad arrivare. Immagino che tre settimane di attesa del postino allora debbano equivalere ai tre giorni attuali di attesa di una mail. Quanto possono sembrare lunghi tre giorni? Beh, abbastanza da generare un senso di completa ricompensa, alla fine»2.
Una lettera scritta a mano contiene una storia, racconta un viaggio. Inverosimile una lettera d’amore digitata al computer, potrebbe provenire da chiunque: standardizzata, anonima, il suo aspetto non espone alcuna singolarità. C’erano una volta le lettere anonime, chi le ricorda? Viaggiavano con la tradizionale posta, un collage di parole composte di caratteri tutti diversi, ritagliate da giornali, a comporre una breve frase, solitamente dal contenuto niente a...