Il mito di Roma
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Il mito di Roma

Da Carlo Magno a Mussolini

  1. 348 pagine
  2. Italian
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Il mito di Roma

Da Carlo Magno a Mussolini

Informazioni su questo libro

Roma. Non solo una città, ma nucleo generatore di miti, luogo che fin dall'antichità ha offerto metafore e modelli alle lotte politiche, ai conflitti religiosi, alle scelte culturali. Dal Medioevo a oggi, Andrea Giardina e André Vauchez raccontano la presenza del mito di Roma all'origine delle idee politiche che ancora animano l'attualità. La concezione universalistica dell'impero medievale e del papato, la difesa delle libertà cittadine e dei valori dell'autogoverno, l'immagine trionfante della Rivoluzione francese e la vocazione scenografica del fascismo sono le principali tributarie del mito di Roma, così come lo sono stati tutti quei movimenti che, dalla Riforma protestante ai nazionalismi ottocenteschi e al nazismo, si sono riconosciuti in un'identità 'antiromana'. Fra riabilitazioni e cadute, fra entusiastiche adesioni e drastici rifiuti, il mito di Roma continua a vivere un destino alterno, nelle cui pieghe corre la strada maestra della nostra storia.

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Informazioni

III.
dalla rivoluzione francese
alla prima guerra mondiale:
miti repubblicani e miti nazionali

1. Allegorie

Durante la Rivoluzione francese le parole «uscivano a torrenti»1, e con esse a torrenti uscivano i simboli. Li vediamo irrompere nell’iconografia, combinarsi in raffigurazioni essenziali e armoniche, oppure affastellarsi, come ad appagare una sorta di horror vacui. Simboli aulici e solenni provenienti dall’antichità convivevano con quelli radicati nella tradizione popolare francese, dando vita a infinite combinazioni. Attraverso questi contatti, gli uni e gli altri si trasformavano, assumendo forme e significati nuovi.
Le varie personificazioni femminili che popolano l’universo allegorico della Rivoluzione, in particolare quelle di Liberté e della sua gemella République, presentano molto spesso due simboli romani: il berretto frigio e il fascio.
Nell’antica Roma, il berretto frigio veniva indossato dai cittadini in circostanze solenni come le feste dei Saturnalia, e dagli individui che passavano dalla condizione di schiavitù a quella di libertà, divenendo in tal modo dei «liberti». Già in antico, il termine pilleus (così veniva chiamato quel copricapo) poteva essere usato come sinonimo di libertà: si poteva dire, per esempio, servos ad pilleum vocare («chiamare i servi al pilleo») invece di servos ad libertatem vocare. Nella più antica raffigurazione di Libertas, quel berretto, tenuto in mano dalla dea, indicava anche il valore della libertà in contrapposizione a qualsiasi forma di dispotismo. Come tale esso fu preso a simbolo dagli uccisori di Giulio Cesare: subito dopo l’assassinio del «tiranno», uno di loro pose infatti un pilleus sulla punta di una picca e incitò il popolo a restaurare il governo dei padri. Il capo dei cesaricidi, Bruto, emise inoltre un denario nel cui verso era raffigurato un berretto della libertà posto tra due pugnali.
Durante la Rivoluzione, le successive immagini di Libertà e di Repubblica si trasformano in parallelo ai mutamenti delle situazioni politiche ma, laddove ricorre, il berretto frigio – sul capo, in mano, oppure sulla punta di una picca – mantiene sempre una connotazione decisamente popolare e «democratica» (connotazione che spiega i suoi successi e le sue sfortune nell’iconografia pubblica francese, fino ai nostri giorni)2. Dopo l’abolizione della schiavitù nelle colonie, gli schiavi di colore liberati venivano raffigurati, secondo una perfetta imitazione della romanità, con il berretto sul capo.
L’altro simbolo romano di questa iconografia era il fascio littorio. Nell’antica Roma, il fascio di verghe di olmo e di betulle, alte circa un metro e mezzo, tenute insieme da strisce di cuoio e sormontate da una scure, rappresentava l’imperium, il comando dei magistrati, nel suo aspetto coercitivo; le verghe e la scure erano infatti gli strumenti delle pene principali, la fustigazione e la decapitazione. Erano portati da attendenti chiamati lictores (da cui il nome di fascio littorio), il cui numero variava a seconda dell’importanza del magistrato: sei per il pretore, dodici per il console, ventiquattro per il dittatore.
Nelle immagini in cui ricorrono insieme, il berretto e il fascio inevitabilmente dialogano, e compongono in vario modo il discorso sui valori repubblicani. Nel dipinto di Nanine Vallain, che decorava la sala delle riunioni del Club dei giacobini (1792), il berretto frigio si staglia sulla punta della picca, mentre il fascio è raffigurato a terra, coperto in parte dal rotolo che reca la dichiarazione dei diritti e che è impugnato dalla mano destra della Libertà, punto focale della composizione. Qui il fascio non ha una collocazione solenne, come il berretto e il rotolo dei diritti, e sembra quasi gettato a terra: pur non risultando per questo un simbolo umiliato, esso appare tuttavia come un’icona che non esprime un valore di prima istanza; del resto, che non tutti gli iconografi della Rivoluzione ritenessero sempre opportuno esibire in primo piano il fascio con le scuri è evidente anche da altre composizioni3. Nel primo sigillo della Repubblica, risalente allo stesso anno 1792, la picca col berretto e il fascio con la scure, simmetricamente disposti ai lati della figura femminile, sono invece accomunati da un pari risalto. E tuttavia, anche in questa composizione equilibrata non tutto era scontato, sul versante del fascio: si ritenne infatti necessario associare a questo emblema l’immagine del timone, la cui pala è ben visibile alla sua base (fig. 11).
Sigillo della Repubblica francese, 1792.
Fig. 11. Sigillo della Repubblica francese, 1792. Parigi, Archives Nationales, Collection de Sceaux. © Foto Josse.
Il timone esprime una delle più antiche e fortunate metafore del governo, che identifica la perizia del reggitore della cosa pubblica con quella del pilota, l’arte del navigare tra i flutti con quella di chi impugna il timone della collettività. Presente già nella lirica greca arcaica, questa metafora assunse un ruolo di rilievo nella concezione platonica dell’ordinamento politico. Ripresa ampiamente da Cicerone, essa si diffuse in età imperiale (come non ricordare Traiano, il «principe civile», raffigurato quale timoniere sulla sua Colonna?) per poi culminare nella legislazione di Giustiniano. Dall’età tardoantica in poi, la metafora del timone aveva conosciuto particolare successo nella cultura cristiana, sia nelle sue proiezioni ultraterrene (il Signore come nocchiero), sia nella formula del gubernare ecclesiam. Dalla tradizione iconografica e letteraria – civile e religiosa – del Medioevo e dell’età moderna, il tema era quindi pervenuto all’imagerie rivoluzionaria. La decisione di associare al fascio, nel primo sigillo della Repubblica, il segno rassicurante e «civile» del governo, dipendeva certamente dalla volontà di stemperare il simbolo terrifico del potere, ed è il segno evidente di una tensione interna al paradigma iconografico che si andava costruendo.
Il timone, tuttavia, non riuscì mai a soppiantare il fascio, anche in virtù della grande duttilità di quest’ultimo. Nella medaglia commemorativa della festa dell’Unità e dell’indivisibilità della Repubblica, celebrata il 10 agosto del 1793, il fascio senza scuri è sormontato dal berretto, e ha come piedistallo il triangolo; ma quest’ultimo può anche trovarsi talvolta alla sommità. Frequentemente, la scure laterale è sostituita dalla picca centrale, la cui punta esce dall’alto del fascio, e reca talvolta una bandiera. In altri casi – come nel quadro di Jeaurat dedicato a Rousseau e ai simboli della Rivoluzione, e in tante altre immagini – dalla sommità fuoriesce non già un unico oggetto, ma una moltitudine di picche e di lance, che esprime evidentemente la forza del popolo rivoluzionario (fig. 12). Ma, all’occorrenza, il fascio poteva anche essere sormontato dal gallo...
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Fig. 12. Eugène Jeaurat, Jean-Jacques Rousseau e i simboli della Rivoluzione. Parigi, Musée Carnavalet. © Foto Josse.
Il fascio non era soltanto l’emblema di Libertà/Repubblica, ma anche di altre personificazioni: lo vediamo infatti tenuto da Ragione, sormontato dall’occhio e avvolto da serpenti, o anche da Fraternità, che lo regge, come le si addice, con una posa molto aggraziata (tav. 7).
Tav. 7. La ragione, incisione da un disegno di Claude-Louis Desrais
Tav. 7. La ragione, incisione da un disegno di Claude-Louis Desrais. Parigi, Cabinet des Estampes. Cliché Bibliothèque nationale de France.
A differenza di quanto accadeva nell’antica iconografia romana, in quella rivoluzionaria il fascio appare dunque come un’immagine versatile, impiegata in una pluralità di composizioni. In questo universo alquanto caotico s’individuano tuttavia due significati principali, entrambi presenti nella tradizione iconografica dell’età moderna. Il primo, più vicino all’uso romano, vede nel fascio, associato alla scure, il simbolo del comando e della giustizia, ora esercitata dal popolo e non più da un despota. Il secondo lo intende invece, nella versione senza scure, non già come un emblema della coercizione, ma come un emblema dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica. Mentre nell’antica Roma il fascio senza scure manteneva comunque la sua connessione con l’ambito della pena (in virtù dell’uso punitivo delle verghe), nella Francia rivoluzionaria esso indicò in moltissimi casi il concetto di forza coesa, di un insieme reso compatto da un vigoroso legame, un «fascio» per l’appunto. In questa formulazione, il simbolo non solo perdeva la sua connotazione terrifica e punitiva, ma non di rado s’ingentiliva, adornandosi di foglie di quercia e di edera. In alcuni casi, impreziosito da fiori e da nastri, assumeva addirittura un aspetto lezioso. Spesso, infine, esso si monumentalizzava, prendendo la forma di una colonna tronca, di varie dimensioni4.
Questi emblemi romani ricorrevano nelle sculture, nelle pitture, nei manifesti, nei mobili, nei soprammobili, nei sigilli, nelle medaglie, nei timbri, e venivano anche esibiti su supporti più effimeri nelle feste rivoluzionarie. Erano emblemi romani: ma venivano davvero percepiti come tali dalla maggioranza degli osservatori? Non poteva essere questo il caso del berretto che, per le funzioni da molto tempo assunte nella tradizione moderna (da ultimo in Olanda e in America), spiccava sì per la sua forte connotazione popolare, ma non per la sua prorompente romanità. Era invece maggiormente percepibile come romano il fascio, soprattutto nella sua versione con le scuri; ma in moltissime immagini, come abbiamo potuto constatare, esso era talmente trasfigurato per la forma, per i particolari che lo adornavano, per i simboli a cui veniva associato, che quell’aura di romanità tendeva a svanire. Comunque, a differenza del tricolore e di altri simboli, esso non si qualificava mai come un emblema di appartenenza nazionale.
Nei paesi dell’Europa continentale dove le idee della Rivoluzione si propagarono, il ricorso agli elementi romani della simbologia francese incontrò significative resistenze, dovute principalmente alle secolari polemiche antiromane. Non fu così, invece, nelle repubbliche giacobine d’Italia dove, per una sorta di acculturazione di ritorno, i simboli romani della Rivoluzione furono ampiamente utilizzati. Le varianti, dovute soprattutto al rapporto che si veniva a determinare tra i simboli giacobini e le tradizioni locali, non oscurano la prevalenza dell’allegoria più diffusa anche in Francia: la personificazione di Libertà con la picca sormontata dal berretto in una mano e il fascio nell’altra. Del resto, non solo negli emblemi, ma persino nel calendario, le feste giacobine italiane tendevano a ripetere in gran parte le liturgie francesi. A Roma, questa iconografia si associò spesso all’emblema dell’aquila romana (che si ritroverà ancora nella Repubblica romana del 1849): per esempio, lo stendardo della guardia nazionale recava su un lato il fascio sormontato dal berretto frigio, sull’altro l’aquila romana poggiata sul fascio (figg. 13-14); in altre immagini, l’aquila teneva nel becco il berretto frigio5.
Figg. 13-14. Bandiera della Guardia nazionale della Repubblica romana, recto e verso.
Figg. 13-14. Bandiera della Guardia nazionale della Repubblica romana, recto e verso. Parigi, Musée de l’Armée, Hôtel des Invalides. © Foto Musée de l’Armée.
A Roma accadeva tuttavia qualcosa di unico e di irriproducibile altrove: a Roma, che non possedeva nessun significativo monumento neoclassico, le nuove scenografie rivoluzionarie, di gusto classicheggiante, si ergevano sulle quinte dell’autentico palcoscenico della romanità, con le sue grandiose rovine: in occasione della festa della Rigenerazione, celebrata nel febbraio del 1799, la basilica di Massenzio fece da sfondo solenne a una colonna che era sormontata da una statua della libertà e poggiava su un grande podio inquadrato da aquile: era come se le nuove strutture vive germogliassero dalle rovine, con un effetto che anticipava le atmosfere che sarebbero state create nello stesso luogo, più di un secolo dopo, dalle rappresentazioni fasciste6. Mancava tuttavi...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. I. Il Medioevo: tra continuità e sogni di rinnovamento
  3. II. Dal Rinascimento all’età barocca: Roma capitale del mondo cattolico
  4. III. dalla rivoluzione francese alla prima guerra mondiale: miti repubblicani e miti nazionali
  5. IV. Ritorno al futuro: la romanità fascista
  6. Conclusione
  7. Bibliografia