
- 152 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
La cultura non serve, interessa a pochi, non rende… Non è così. Paola Dubini lo dimostra in questo saggio con cifre, fatti e argomenti, a proposito di libri e di musei, di teatro e di cinema, di musica, arte e patrimonio storico. La cultura è parte della nostra vita come l'aria che respiriamo.
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Informazioni
1.
La cultura non è «reale» (Falso!)
Con la cultura non si mangia perché è in buona parte impalpabile, effimera, sfuggente. Come si può definire e come può avere valore qualcosa che ha troppi significati, che abbraccia più settori e che può contemporaneamente essere fonte di desiderio, ispirazione, odio o indifferenza?
La cultura connette sviluppo civile, politico ed economico, in modi che cambiano nel tempo. «È nel nostro patrimonio artistico, nella nostra lingua, nella capacità creativa degli italiani che risiede il cuore della nostra identità, di quella Nazione che è nata ben prima dello Stato e ne rappresenta la più alta legittimazione». Così Carlo Azeglio Ciampi nel 2003. «L’Italia si identifica anche con i suoi tesori impareggiabili, con la storia che li ha plasmati e che essi manifestano e che compone il DNA delle nostre città e del nostro popolo, con l’osmosi tra la natura e l’opera dell’uomo che ha formato i tessuti urbani, definito i paesaggi, dato vita a un modello sociale e a una società», fa eco nel 2016 il presidente Mattarella.
L’antropologo Tylor nel 1871 ha fornito una definizione di cultura come insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società. È un concetto che comprende fatti di ordine materiale e spirituale, pratico e simbolico.
Queste definizioni ci parlano di cultura innanzitutto come patrimonio collettivo materiale e immateriale, frutto di pensiero e speculazione, ma anche come insieme di azioni e attività; si compone di monumenti e di tradizioni, di paesaggi modificati dall’intervento umano, di tecniche di lavoro; per identificare i confini concettuali di questo insieme così ampio e articolato, può essere utile analizzare l’evoluzione dell’attività dell’Unesco e lo sforzo di compilazione di liste e di coinvolgimento di attori e territori nel mondo che hanno alcune caratteristiche in comune.
La convenzione adottata dall’Unesco nel 1972 ha aperto la strada all’identificazione, protezione e conservazione di quasi 1.100 siti in 167 paesi (dati 2018). L’Italia, che ne ha 54, è il paese con il maggior numero di siti Unesco al mondo; ed è curioso notare come questo primato sia stato trasformato in un altro luogo comune, che vuole che il nostro paese ospiti la più alta percentuale di patrimonio culturale al mondo.
Dal 1992, alla lista del patrimonio dell’umanità si è aggiunto il Registro della Memoria, che censisce e salvaguarda il patrimonio documentario di 81 paesi dai rischi connessi all’amnesia collettiva, al negazionismo, alle ingiurie del tempo e del clima. Fra le 7 collezioni italiane iscritte in questa lista vi è l’archivio storico dell’Istituto Luce. Ancora, l’Unesco considera le riserve della biosfera, con l’obiettivo di proteggere e valorizzare ecosistemi terrestri, costieri e marini. L’Italia è presente in questo elenco con 12 siti, tra i quali il Monviso e il delta del Po. Infine, dal 2004 è stata creata la rete delle città creative Unesco, per promuovere la cooperazione tra le città che hanno identificato la creatività come elemento strategico per lo sviluppo urbano sostenibile. Questa rete associa 180 città in 72 paesi ed è organizzata in sette settori culturali (musica, letteratura, artigianato e arte popolare, design, media arts, gastronomia, cinema). Nel 2018 le città italiane che aderiscono alla rete sono Bologna e Pesaro (musica), Fabriano e Carrara (artigianato), Roma (cinema), Parma e Alba (gastronomia), Torino (design), Milano (letteratura).
Questo patrimonio è reale perché è visibile, riconosciuto, specifico: raccoglie capolavori del genio creativo umano, attesta un cambiamento culturale importante, è testimonianza unica ed eccezionale di una tradizione culturale o di una civiltà, è di particolare bellezza e unicità dal punto di vista paesaggistico e naturalistico, racconta un’era geologica, costituisce un habitat rappresentativo e importante della biodiversità.
È un patrimonio composto di elementi materiali ma anche immateriali, perché la dimensione intangibile della cultura, fatta di tradizioni, di conoscenze tramandate, di prassi, è strettamente collegata al patrimonio tangibile ed altrettanto importante; è la dimensione immateriale che ci ricorda che la cultura è processo e non solo risorsa, è costantemente ricreata dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e con altri gruppi e alla loro storia.
La cultura ha valore identitario: capiamo chi siamo e da dove veniamo grazie alla cultura. È difficile per le persone che vivono attorno al bacino del Mediterraneo rimanere indifferenti alla poesia di Omero, quando descrive i modi in cui Ulisse convince la dubbiosa Penelope, che non vede da vent’anni, di essere effettivamente il suo sposo; e la visione di un uliveto coltivato in un terreno contornato da muretti a secco fa «sentire a casa» persone provenienti dalla Spagna, dall’Italia, dalla Tunisia, dalla Grecia. Abitano in luoghi diversi per storia, per politica, per religione dominante, ma hanno e riconoscono tracce di un destino comune, dato dalle contaminazioni reciproche, dall’esposizione climatica, da una serie di segni lasciati sui manufatti e sull’architettura, ma anche sui modi di lavorare, di coltivare, di cucinare e così via.
Questo valore identitario determina il nostro radicamento in una comunità, tanto più importante quanto più le vicende storiche politiche ed economiche e i processi di globalizzazione portano a separare le persone dai loro luoghi di origine e ad allontanarle dalle proprie comunità. È la nostra capacità di essere radicati che ci consente di non perdere la bussola, di non sentirci perennemente estranei e «in rincorsa» in una società sempre più liquida, sempre meno geograficamente definita, sempre più interconnessa, nella quale le relazioni fra individui e lo status individuale sono definiti da processi di consumo. La cultura fornisce punti di riferimento e mitiga il bisogno di apparire, il consumismo esasperato e la mercificazione dell’esistenza, contrastando i processi di omologazione.
Il punto quindi non è tanto se la cultura sia «reale», quanto piuttosto la necessità di essere consapevoli della sua importanza. Purtroppo questo livello di consapevolezza è molto basso. Tendiamo a dare per scontata la sua esistenza, come diamo per scontato il fatto di respirare, di bere o di poter liberamente circolare per strada. Ma come l’aria, l’acqua e le libertà individuali, la cultura è fragile e preziosa, e spesso ce ne rendiamo conto solo «in negativo», quando è compromessa.
Tutte le comunità con un ricco patrimonio che hanno vissuto la terribile esperienza del terremoto (penso a L’Aquila, all’Emilia, alle Marche, per restare ai casi recenti e nostrani) possono testimoniare l’angosciante senso di perdita legato alla mancanza di luoghi e edifici così identitari e che sono patrimonio comune. Persone che hanno perso tutto dal punto di vista materiale esprimono l’angoscia della distruzione del patrimonio come perdita fisica, come perdita di senso, di posto nel mondo; non si tratta solo di perdita di opportunità di identificazione e di attrazione «geografiche», ma del punto di riferimento comunitario e originario.
Nel novembre 2010, per protestare contro la riforma Gelmini della scuola, gli studenti e i ricercatori organizzarono proteste in diverse città e scelsero di occupare diversi monumenti: Palazzo Marino a Milano, la Torre di Pisa, la Cattedrale di Palermo, Sant’Antonio a Padova, il Colosseo a Roma, la Mole Antonelliana a Torino; la scelta di questi luoghi assicurò ai manifestanti di avere un’attenzione mediatica anche internazionale senza precedenti. Un campanile caduto per un terremoto, una statua rimossa o una bandiera bruciata durante una rivolta sono fenomeni di fortissimo impatto. Vale la pena riconoscerlo, e interrogarsi sul valore che questi luoghi, manufatti o tradizioni esprimono.
Non è un caso che guerre e genocidi si accompagnino alla distruzione del patrimonio culturale; non si tratta solo di puro vandalismo, ma di scelte deliberate di cancellazione dell’identità di gruppi sociali: se la cultura non fosse reale, che bisogno ci sarebbe di distruggerne le rappresentazioni? Il 27 settembre 2016 Ahmed al-Faqi al-Mahdi è stato condannato dalla Corte di Giustizia Internazionale dell’Aia a nove anni di prigione per la distruzione di nove mausolei e dell’ingresso di una moschea nella città di Timbuktu in Mali, avvenuta su suo ordine nel 2012. Questa sentenza, primo caso assoluto di condanna per crimini contro il patrimonio culturale mondiale, rappresenta un punto di svolta nella lotta contro la distruzione indiscriminata dei beni culturali in contesti di conflitto armato più o meno formalmente e tradizionalmente inteso. È antidoto efficace contro le guerre? No, certo, ma il riconoscimento dell’altro e dei suoi diritti passa anche per il rispetto della sua cultura.
La cultura dunque è reale, anche quando è immateriale, e ha una forte valenza simbolica e identitaria: tendiamo a sottovalutare questo aspetto perché la diamo per scontata, in quanto ne siamo circondati. Spesso, ne riconosciamo la presenza, la forza e la rilevanza solo quando ne veniamo privati. Per questo, ha molto valore a mio parere la decisione del 2015 di estendere la legge 146/1990 ai musei e ai siti archeologici, dichiarandoli servizi pubblici essenziali, al pari della salute e della difesa.
2. La cultura non serve (Falso!)
Sì, però... fino ad ora abbiamo riconosciuto che la cultura è reale perché ha significato per ciascuno di noi, ha importanza in sé, un valore intrinseco. La cultura ci fa sentire cittadini, d’accordo: ma poi? Che cosa ce ne facciamo?
Il senso di appartenenza che generano i paesaggi, i monumenti, le opere d’arte, la tradizione culinaria, la lingua, riguarda secondo alcuni solo la sfera privata. Mi emoziono alla vista di una cascina di mattoni nella campagna e di una fila di pioppi e mi sento lombarda. E allora? Allora può essere utile esaminare il valore politico della cultura e riflettere su una funzione di utilità di carattere istituzionale.
L’articolo 9 della Costituzione italiana impone alla Repubblica (alla Repubblica, si badi bene, non allo Stato) di tutelare il patrimonio. I Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite hanno un sotto-obiettivo, l’11.4, che prescrive di tutelare il patrimonio, perché coerente con un modello di sviluppo sostenibile ed inclusivo. Il retro delle monete coniate in Italia mostra opere d’arte e monumenti. Queste misure hanno come conseguenza che il senso di identità descritto nel capitolo precedente diventi senso collettivo non grazie a relazioni interpersonali, ma per precisa scelta politica, che fa leva sul patrimonio, le arti, la cultura per costruire il senso di nazione attraverso un processo di selezione e interazione – non necessariamente pacifico – fra identità e culture locali diverse.
L’uso politico della cultura può essere guidato da desiderio di egemonia, volontà di controllo o propaganda da parte della classe dominante, o dalla volontà di esprimere dissenso da parte dell’opposizione o di gruppi minoritari: la cultura come arma politica è potente, pervasiva e determinante nell’orientare i comportamenti sociali ed ha una importante funzione segnaletica. Quando il duca di Milano Gian Galeazzo Visconti assume nel 1386 il controllo dei lavori della nuova cattedrale di Milano, lo stile scelto è un gotico che «guarda a Nord», verso la Francia e la Germania, per segnalare la vocazione internazionale della città e la potenza del suo ducato.
L’arte è inoltre espressione di potere politico ed economico: le statue, i colonnati, gli edifici civili e religiosi, ma anche le targhe (come il Leone di San Marco), segnalano da sempre la ricchezza e il potere di uno specifico regime o di un casato (si pensi alla gara fra le famiglie di San Gimignano per avere la torre più alta, o alla competizione fra quelle con i palazzi sul Canal Grande a Venezia per mostrare facciate imponenti e riccamente decorate), oppure la direzione di una politica pubblica (si pensi al messaggio politico connesso alle scelte architettoniche di scuole, ospedali e biblioteche pubbliche).
Scelte collegate agli edifici, alla loro forma e alla loro disposizione nello spazio urbano hanno conseguenze importanti sulle relazioni fra classi e gruppi sociali, fra i modi in cui si organizza e si svolge la vita sociale; anch’esse sono il risultato di scelte di politica. L’organizzazione degli spazi nelle chiese o la distribuzione dei posti nei teatri ha reso visibile la stratificazione sociale. Le riflessioni sulla città ideale trovano rappresentazione visibile nelle costruzioni e nella ripartizione degli spazi pubblici e privati e producono conseguenze durevoli: i portici a Bologna diventano obbligo per tutte le costruzioni a partire dal 1288 per servizio pubblico, opportunità commerciale e protezione dei piani terra degli edifici; ancora oggi caratterizzano il paesaggio della città e determinano conseguenze sociali non sempre apprezzate. La configurazione di sale d’aspetto, bagni pubblici, sedute in spazi urbani è sempre più condizionata da politiche di ordine pubblico e dal desiderio di contrastare il fenomeno dei senza fissa dimora.
Ancora, l’arte è espressione di attivismo politico: Diego Rivera utilizzava murales su edifici pubblici come forma di espressione per massimizzare la visibilità delle sue opere e la comprensione del loro messaggio politico anche da parte di chi non sa leggere; i soggetti delle sue composizioni sono sovente persone semplici collocate in un contesto politico. Diversi graffitari e street artist (dai pixadores di San Paolo a Banksy, a Blu, alle arpilleras cilene prodotte durante il regime di Pinochet) derivano la loro legittimazione dalle proteste contro ingiustizie e disuguaglianze: oltre a porre l’attenzione su questioni sociali, costringono a riflettere sul significato di arte pubblica, sulla problematica relazione fra espressione artistica, attivismo e sfruttamento commerciale.
Talvolta, come nel caso del controverso collettivo sloveno NSK, l’impegno politico è vissuto non senza una certa preoccupazione da parte dell’opinione pubblica. Come scriveva Picasso a una giornalista francese:
Che cosa pensi sia un artista? Un imbecille, che se è un pittore ha solo occhi, se è un musicista ha solo orecchi, se è un poeta ha la lira in ogni atrio del suo cuore, o se è un pugile ha solo muscoli? Al contrario, è sempre anche un essere politico, costantemente vigile sugli eventi angoscianti, inquiet...
Indice dei contenuti
- Introduzione
- 1. La cultura non è «reale» (Falso!)
- 2. La cultura non serve (Falso!)
- 3. La cultura interessa a (troppo) pochi (Falso!)
- 4. La cultura non ha mercato (Falso!)
- 5. Dietro la cultura non c’è attività d’impresa (Falso!)
- 6. La cultura non rende (Falso!)
- 7. Il lavoro culturale non paga (Dipende!)
- Conclusioni
- Nota bibliografica