La battaglia
«A sproni battuti»
«Terribile come un esercito schierato a battaglia»: un topos letterario, certo, ma al vedere schierate migliaia di uomini con le bandiere al vento, all’udire i nitriti e gli scalpiccii, il rullare dei tamburi, e le grida dei combattenti, non poteva non salire un brivido di paura in chi, qualche centinaio di metri più avanti, si trovava nel campo opposto.
In quel frangente si levarono alte preghiere a Dio, alla Vergine, ai santi protettori dai quali si attendeva un aiuto, convinti di ottenerlo gli uni e gli altri, combattendo – tutti, a loro dire – per una giusta causa. Dal lato ghibellino, l’Ubertini benedisse le proprie truppe e forse, come si usava fare prima delle battaglie, tenne anche un discorso, esaltando «l’antica grandezza degli Aretini, pregiandosi questi molto del lor antico valore e nobiltà; poi passò a lodare le nazioni de’ Romagnoli e Marchegiani che erano in sua compagnia [...]. Ma soprattutto innalzò al Cielo il titolo che si muovevano a quella guerra per sostenere la parte imperiale».
A un segnale convenuto, probabilmente in tarda mattinata, l’esercito ghibellino levò il proprio grido di battaglia e la prima schiera di cavalleria, composta da 300 uomini, iniziò a spronare delicatamente i propri destrieri per dar inizio alla cavalcata che li avrebbe condotti contro il nemico. Dodici Paladini, posti a capo di dodici venticinquine, per un totale di 300 cavalieri, come ci riferisce il Villani. Essi furono schierati lungo una sottile linea, composta probabilmente da due o tre file di cavalieri, tra loro serrati, così che, per citare paragoni frequenti in quei tempi, se si fosse gettato tra loro un guanto o una mela, non sarebbero caduti a terra, ma sarebbero rimasti confitti sulle lance tenute ancora in verticale.
Questa massa di cavalieri, tra le cui lance «non doveva passare il vento», iniziò, probabilmente partendo da destra, a procedere al passo al segnale convenuto, «gradu lento, paulatim», facendo attenzione ad andare a ritmo, in modo da ritrovarsi insieme al momento dello scarto al trotto. Poi, gradualmente, si accelerava, sino a poche decine di metri dal nemico: solo a quel punto si spronava il cavallo inducendolo al galoppo, si abbassava la lunga lancia che superava il cavallo di oltre mezzo metro, bilanciandola, e si scaricava l’adrenalina e l’odio in un urlo liberatorio. La carica prima dell’impatto non permetteva alcun tentennamento: doveva essere fatta come se il nemico non esistesse, come se si cavalcasse in una prateria, «fortiter, vehementer, impetuose, velocissime». «I feditori degli Aretini mossono con grande baldanza, a sproni battuti, a fedire sopra l’oste de’ Fiorentini, e l’altra loro schiera conseguente appresso»: al primo urto ne sarebbe seguito subito un altro.
Il cozzo fu tremendo, considerato che si mirava anche alle cavalcature per disarcionare i cavalieri. La prima schiera dei feditori guelfi era la metà di quella ghibellina, e comprendeva «150 feditori de’ migliori dell’oste, de’ quali furono 20 cavalieri novelli, che si feciono allora». Erano stati scelti, per ogni sestiere, cavalieri incaricati di nominare feditori, ruolo poco ambito in quanto prevedeva di ricevere il primo violentissimo urto del nemico. L’urto violento dei 300 ghibellini fece scavallare molti feditori fiorentini: forse in questa fase persero il cavallo Vieri dei Cerchi, Gianni e Filippo degli Adimari, detto Argenti, ma anche Giano della Bella e Baschiera della Tosa. In questa schiera di 150 feditori guelfi militava anche Dante, che dunque la battaglia se la fece dall’inizio alla fine: in una sua lettera, copiata a suo tempo da Leonardo Bruni, ma poi andata irrimediabilmente perduta, il poeta affermava di aver provato «temenza molta». E non c’è da dubitarne, considerato l’impeto con cui i Ghibellini travolsero i Guelfi. «Gli Aretini assalirono il campo sì vigorosamente e con tanta forza che la schiera de’ Fiorentini forte rinculò», «fu sì forte la percossa che i più de’ feditori de’ Fiorentini furono scavallati e la schiera grossa rinculò buon pezzo del campo».
Tra le file fiorentine dobbiamo immaginare che qualcuno dovette cedere alla paura e avere l’istinto di fuggire, ancor prima che la schiera ghibellina cozzasse: nel corso dei secoli si è compreso che l’uomo, di fronte a uno scontro, di fronte al rischio di morire ma anche a quello di uccidere, «resiste sino a una certa soglia di terrore, al di là della quale sopravviene la fuga, e solo la disciplina può avere il potere di mantenere un po’ più a lungo i nemici faccia a faccia prima che l’istinto di conservazione finisca per prevalere, e con esso la paura». Per ottenere l’ordine, la disciplina, ed evitare che si innescasse il meccanismo paura-fuga, si doveva minacciare un immediato castigo fisico, mediante l’uso di un bastone appositamente fornito ai guardaschiere.
«La battaglia fu aspra e dura»
L’impeto della prima schiera aretina era stato tremendo: la gran parte dei cavalieri guelfi fu disarcionata mentre i cavalieri ghibellini, saldi in sella, si incuneavano nella schiera principale dove sventolavano i vessilli del Comune di Firenze, quello del Popolo, quello della Parte Guelfa e quello di Carlo II d’Angiò. Dopo la galoppata dei 300 feditori «l’aria era coperta di nuvoli, la polvere era grandissima». Dopo poco, la seconda ondata di cavalleria, perforò la nube di polvere con un secondo urto, aumentando la spinta e sospingendo i compagni ancora più in profondità tra i cavalieri guelfi che tentavano disperatamente di contrastare la furia avversaria.
Una volta spezzate le lance lunghe, i cavalieri ghibellini estrassero dai foderi le spade, impugnarono mazze, asce o martelli da guerra e cominciarono a ingaggiare duelli contro piccoli gruppi di Guelfi ancora in sella, tentando di disarcionarli: in questo frangente «molto bene provò messer Vieri de’ Cerchi et uno suo figliolo cavaliere alla costa di sé». Nella mischia scoppiata al centro dello schieramento guelfo si trovavano i due fratelli Giano e Taldo della Bella, Stoldo Frescobaldi, Guelfo Cavalcanti, Filippo Argenti, Dante Alighieri, membri dei Nerli, dei Gherardini, e forse messer Manetto degli Scali «dai cavalli coverti», a cui piaceva «esser tenuto sì grande e temuto». Non tutti, come sempre accade, combatterono con onore. Compagni, in una caustica battuta, esprime tutta la variopinta umanità di quella massa di persone, ora pavide, ora bestiali, ora incoscienti, ora atterrite: «Molti quel dì che erano stimati di grande prodeza, furono vili; e molti di cui non si parlava, furono stimati». Il rombo di centinaia di cavalli al galoppo, le urla di migliaia di persone, la vista e l’odore del sangue, la polvere, il caldo, la difficoltà respiratoria, l’adrenalina e la paura palpabile di essere uccisi: la cruda realtà di una battaglia all’arma bianca, lontana dagli scontri ideali dei canti dei poeti, trasforma gli spavaldi in codardi, e i vili in impavidi. Il Pieri scrive che «combattero insieme, ambo queste parti a dura e stretta battaglia di campo».
Possiamo supporre che in questa fase, quando la cavalleria ghibellina raggiunse il culmine della spinta, siano caduti sotto i colpi degli aretini i cavalieri guelfi di cui ci è giunta menzione, anche se «molti altri cittadini e forestieri furono fediti». Ma «dalla parte de’ Fiorentini non vi rimase morto uomo di rinomea» fuorché messer Ticcio della famiglia Visdomini. Il veterano Bindo del Baschiera della famiglia Tosinghi, che si copriva un occhio orbo con una benda, per una ferita da balestra ricevuta all’assedio di Fucecchio nel 1261, fu probabilmente disarcionato e ferito gravemente in battaglia: «e così tornò a Firenze, ma fra pochi dì, morì». Gli aretini evidentemente avevano diretto il proprio attacco proprio contro il centro dello schieramento nemico, là dove Gherardo dei Tornaquinci, detto «Ventraia», sventolava la bandiera degli Angiò. Nella mischia furibonda che si accese intorno alle bandiere del drappello di comando, obiettivo degli aretini, fu ferito al volto Amerigo di Narbona, mentre «il balio del Capitano», Guglielmo di Berardo di Durfort, che «assai pregio v’ebbe», «fuvvi morto»: i presagi che il cavaliere provenzale aveva avuto prima di partire per il Casentino si erano rivelati esatti. Il suo testamento, dettato ai serviti, sarebbe stato naturalmente rispettato e la lastra tombale, visibile alla Santissima Annunziata di Firenze, ce lo mostra a cavallo così come forse si presentò in battaglia. Rivolgendosi al priore dei serviti, Amerigo di Narbona, conducendo il cadavere del compagno d’arme sino al Cafaggio, avrebbe detto: «Fa’ che tu abbia a te uno maestro de’ reputati che sono in questa terra e richiedilo di uno monimento, dove il pro chavalieri si veda tal era alla chosta mia quello dì che uno quadrello mel tolse a Chanpaldino».
«La schiera grossa rinculò buon pezzo del campo, ma però non si smagarono né ruppono, ma costanti e forti ricevettono i nemici»: la superiorità numerica e la consapevolezza di essere coperti da solidi reparti ancora intatti alle loro spalle spinsero probabilmente molti Guelfi ad atti di coraggio, e anche ciò contribuì a mantenere solido lo schieramento. I 650 cavalieri ghibellini, tra cui i mercenari reclutati dal vicario imperiale, al comando di Buonconte e Guglielmo Pazzo, «il quale fu il migliore e ’l più avvisato capitano di guer...