Afghanistan: trent'anni dopo
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Afghanistan: trent'anni dopo

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Afghanistan: trent'anni dopo

Informazioni su questo libro

Due armate speculari, eppure diversissime, hanno invaso l'Afghanistan negli ultimi quarant'anni: quella sovietica e quella americana. Hanno seguito tattiche diverse, usato armi differenti eppure entrambe le spedizioni si sono rivelate fallimentari. Di più: hanno incentivato il supporto locale per quei gruppi armati islamisti contro cui erano andate a combattere. Il racconto di Valerio Pellizzari, inviato in Afghanistan fin dal 1974.

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Informazioni

Categoria
Giornalismo

Afghanistan:
trent’anni dopo

Trentatré anni fa centomila soldati sovietici occupavano l’Afghanistan. Era pieno inverno. Indossavano colbacchi e pesanti giacconi. A Mosca iniziavano quelle due settimane di festa e di paralisi burocratica che ogni anno avvolgono la vita del paese con le bevute, i pranzi distribuiti tra l’ultimo giorno dell’anno e il Natale ortodosso. È il periodo ideale per i colpi di mano della politica. Eltsin aspettò il 31 dicembre per annunciare che Putin avrebbe preso il suo posto. Con quella spedizione afgana il vertice del Partito comunista sovietico avviava il crollo dell’impero che si sarebbe concluso dieci anni dopo.
Lo stesso numero di uomini, questa volta senza stella rossa sul cappello ma con addosso la divisa americana, era dislocato nello stesso paese nell’estate del 2011. Da quella data cominciarono a ritirarsi, in modo graduale. Anche le avanguardie di questo secondo contingente erano comparse in inverno, dieci anni prima, due mesi dopo l’11 settembre. Le avevo viste arrivare, muoversi in motocicletta dentro e attorno alla grande base militare di Bagram, a un’ora di strada da Kabul, ormai svuotata, priva di forza, che era stata la roccaforte dei sovietici, e che rappresenta il sogno proibito di ogni generale che voglia controllare l’Asia centrale. In quell’anfiteatro di montagne spettacolare, cinematografico, predisposto attorno alle piste, iniziava per gli Stati Uniti una guerra più lunga di quella combattuta in Vietnam.
Il numero degli uomini impiegati e il tempo speso in terra afgana rivelano già da soli una similitudine allarmante tra due spedizioni militari condotte in momenti storici molto diversi, con motivazioni diverse, sotto bandiere diverse. L’Unione Sovietica confinava con l’Afghanistan, i suoi soldati avevano facilmente e rapidamente scavalcato quella debole linea di separazione. Erano arrivati a Kabul per difendere la rivoluzione comunista locale e combattere l’integralismo islamico. Così raccontava la loro propaganda. E così testimoniavano le foto costruite dai cronisti della «Pravda», mettendo pazientemente in posa soldati biondi e uomini scalpitanti con la barba nera, gli occhi nerissimi e il turbante in testa. In mezzo, a cementare, a ingentilire quella vicinanza forzata, non mancavano mai le corone e i mazzi di fiori assieme a qualche bambino recuperato in una delle case vicine. Sui francobolli afgani dell’epoca era scritto, in dari e in francese, «Il popolo fa la storia. Il partito democratico del popolo rende onore ai suoi martiri». E negli striscioni della propaganda il nome di Lenin era associato a quello del re Amanullah che aveva avviato la modernizzazione del paese.
Gli americani e i loro alleati occidentali invece, dopo l’11 settembre 2001, erano arrivati per sconfiggere il terrorismo che si era trincerato in quelle vallate con Bin Laden, cancellare l’oscurantismo dei talebani e importare la democrazia. Così hanno ripetuto per anni la radio e «La voce della libertà», il giornale delle truppe straniere, confezionato per gli afgani, cosparso di foto sorridenti, con soldatesse occidentali rispettose coperte dal velo, con gli anziani dei villaggi esibiti come testimonianza di collaborazione, come garanzia di una nuova amicizia, ma troppo rigidi, impalati, per essere autentici.
L’Armata rossa si ritirò dopo dieci anni, sconfitta. Accompagnata da racconti e dicerie di brutalità e di paura che l’omertà dei comunisti afgani non permetteva di verificare; e che la propaganda dei mujahedin, dei guerriglieri anti-comunisti, ingigantiva. I russi usavano mine anti-uomo che sembravano giocattoli e che devastavano i bambini appena le toccavano. Ogni volta che si entrava in un ospedale quelle vittime testimoniavano senza bisogno di parlare. Ma quelle mine le usavano anche i guerriglieri, e le conseguenze erano identiche. Nel maggio del 1988 a Kabul raccontavano che una donna con i suoi bambini era stata travolta per errore da un camion russo. I militari avevano continuato la loro corsa, molto probabilmente impauriti dalla ostilità degli afgani che sarebbero accorsi sul luogo dell’incidente. E infatti erano stati inseguiti da un corteo di auto, cariche di gente inferocita, che li aveva raggiunti, tirati fuori dalla cabina e linciati in mezzo alla strada.
Una vicenda simile si era svolta al bazar. Due russi erano andati da un cambiavalute sikh per cambiare i loro rubli. Uno dei due, forte del suo kalashnikov, aveva rubato parte dell’incasso all’uomo. La voce del furto si era diffusa e dal bazar, sempre affollato anche nei giorni di guerra, si era staccato un gruppo, sempre più numeroso e rumoroso, che aveva incalzato a piedi la coppia dei soldati. Questi, terrorizzati, si spararono alla testa prima ancora di essere catturati. I russi avvelenavano i pozzi d’acqua, usavano i gas nei villaggi. Ma nei racconti popolari i mujahedin più feroci toglievano la pelle a quei soldati e li coprivano con la sabbia bollente.
Il ritorno a casa dell’Armata rossa durò circa dieci mesi. Il primo scaglione uscì da Kabul tra bandierine, ombrellini colorati e...

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  1. Afghanistan: trent’anni dopo
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