1932-33. Non c’è due senza tre
«Spòsalo, figliola» – Parterre de rois per Italia-Inghilterra – Juventus, Juventus e ancora Juventus – “Cartavelina” Sindelar contro il “Balilla” Meazza
Il signor Ernesto Borel possedeva una prestigiosa boutique di abbigliamento in piazza San Carlo, salotto buono di Torino, e i suoi ricordi di gioventù erano legati a doppio filo alla Juventus. Prima di darsi alla carriera imprenditoriale, infatti, si era aggregato al gruppo originale dei ragazzi del liceo “D’Azeglio” che avevano fondato la squadra. Nel gennaio 1907 aveva firmato il primo gol segnato dai Bianconeri in un derby contro il neonato Torino, incontro peraltro vinto per 2 a 1 dai Granata.
Nel corso della Grande Guerra era riparato sulla Costa Azzurra, dove aveva giocato per qualche tempo con la maglia del Cannes e, a conflitto ormai concluso, si era concesso una brevissima rentrée per i colori della Biellese.
Ormai impegnato a tempo pieno con la sua nuova attività, aveva continuato a seguire la Juventus da tifoso, trasmettendo la propria passione ai figli maschi.
Per uno scherzo del destino, però, erano entrambi finiti nell’orbita delle giovanili granata.
Il maggiore, Aldo, vi aveva compiuto tutta la trafila sino a che, appena diciottenne, si era dimostrato uno dei migliori fra i Balon boys, ed era stato promosso a rimpiazzo per la prima squadra. Aveva esordito nel team di Libonatti, Baloncieri e Rossetti sul finire della stagione 1929-30, dimostrandosi un attaccante di prepotente fisicità ma approssimativo nella tecnica, almeno a confronto dei fuoriclasse che era chiamato a sostituire. Dopo un’altra stagione a far da riserva, a vent’anni aveva cercato una maglia da titolare, e aveva trovato quella nera con la stella sul cuore del Casale; con i “Cinghiali del Monferrato” era andato a segno sedici volte, risultando uno dei giovani più interessanti del torneo insieme a Silvio Piola. Così, per la stagione 1932-33, Aldo era stato acquistato dalla Fiorentina, reduce dalla sua prima, entusiasmante, stagione in Serie A.
Tutt’altro tipo di attaccante era il fratello minore, Felice Placido, di due anni più giovane, piccolo di statura e smilzo: in lui, l’atletismo naturale dei Borel conviveva con la visione e la tecnica raffinata degli assi. Aldo andava servito e messo in condizione di concludere, lui sapeva come “dare del tu” al pallone; se i tiri del fratello maggiore erano sciabolate, i suoi erano beffardi colpi di fioretto. Felice, in altre parole, sembrava riunire in sé la concretezza piemontese e il genio sudamericano. I tecnici delle giovanili granata gli predicevano un avvenire da “nuovo Libonatti”, ma papà Ernesto non poteva tollerare che giocasse anche lui nei Balon boys: aveva già “perduto un figliuolo” tra le file del Toro, e voleva che almeno il minore si giocasse le sue chances alla Juventus: aveva strappato l’accordo che avrebbe fatto anche di Felice un giocatore granata, e l’aveva portato di peso alla sede dei campioni d’Italia.
Così, mentre Aldo si preparava a giocare la sua stagione in viola, il giovane Felice, studente di liceo classico, era diventato un tesserato della Juventus.
Nel corso degli allenamenti estivi, Carcano aveva riconosciuto in lui il crisma del futuro campione: l’aveva ribattezzato “Farfallino” per lo stile leggiadro col quale giostrava palla al piede e la facilità con la quale, senza apparente fatica, si liberava dei difensori per calciare a rete. Non aveva che diciott’anni ma il mister, in cuor suo, era già pronto ad affidargli la maglia di centravanti che, negli ultimi due tornei, era stata di “Nane” Vecchina.
Il passaggio al professionismo era ormai cosa fatta. Era finito il tempo dei Bigatto e dei Carpi, che rifiutavano qualsiasi tipo di emolumento dalle rispettive società per mantenere la propria libertà di azione e opinione. Tutti i giocatori della Serie A, dalle stelle dei grandi club giù giù fino ai ragazzi delle squadre emergenti, erano ormai dipendenti delle rispettive compagini.
I calciatori erano legati da un rapporto economico che presumeva ubbidienza e disciplina, e ogni sgarro ai codici dello stile societario e dello spogliatoio era regolato da multe salate.
In compenso, ognuno di loro poteva ritenersi fortunato rispetto ai coetanei, ché le paghe minime dei calciatori di massima serie potevano equivalere al salario di un operaio specializzato, e non v’era dubbio che allenarsi e giocare davanti a migliaia di persone fosse meno faticoso e più gratificante rispetto a fare turni in fonderia o in catena di montaggio; a differenza degli operai, poi, i calciatori affermati potevano aspirare a migliorare in poche stagioni la propria condizione economica, strappando ancora giovani stipendi paragonabili a quelli di un impiegato ministeriale o, addirittura, di un professionista con anni di studio e pratica alle spalle; quanto alle stelle del campionato, erano già da inserirsi nella categoria dei benestanti o, addirittura, dei ricchi.
Quello del calciatore iniziava insomma a essere un mestiere non solo ammirato, ma anche invidiato.
Col nuovo benessere, arrivava anche il culto della personalità: su Bernardini, idolo della Roma, era stato scritto un libro ch’era andato esaurito in poche settimane, e i giornali cominciavano a riferire dettagli sulla vita privata dei giocatori, a cominciare dalle località nelle quali trascorrevano le vacanze. E, con tanto interesse e ammirazione intorno a loro, era ovvio che i “ragazzi del calcio” suscitassero l’interesse delle signorine più ambiziose.
A tal proposito, risulta illuminante un trafiletto apparso sul Littoriale nell’estate 1932, dall’emblematico titolo «Spòsalo, figliola»: «Dicono che i giocatori della Roma e della Juventus siano quelli trattati meglio (finanziariamente) dalle società: chi veste maglia giallo-rossa o maglia bianco-nera è sicuro di essersi fatto una ‘posizione’. E si capisce che, quando ci sono i soldi, tu vedi per via questi ragazzi ben eleganti e disinvolti. Quando un giocatore si mette a corteggiare una ragazza, la madre di costei fa alla figliola: ‘Sciocca, di’ di sì: non vedi che è un giocatore della Roma?’ E quella dice di sì».
La Juventus si era vista recapitare un nuovo titolare a domicilio nella persona di Borel II, mentre il Bologna campione d’Europa andò a cercarsi un rinforzo nel bacino, ormai tradizionale per i Felsinei, del torneo uruguagio: come già accaduto per Fedullo e Sansone, si scelse non già una stella di prima fama, ma un emergente. Il prescelto era Francesco Occhiuzzi, mediano d’origine calabrese dei Wanderers di Montevideo: arcigna facies mediterranea e fisico compatto da guerriero del centrocampo, era già stato selezionato per una manciata di presenze con la maglia della Celeste, e non esitò ad accettare l’offerta di Dall’Ara. Durante le amichevoli estive si dimostrò dotato di garra e polmoni, e, nonostante la statura ridotta, mise in mostra anche un superbo stacco di testa.
Fra gli altri club di Serie A, i più attivi si dimostrarono i Nerazzurri e i Viola.
I Milanesi, guidati dal nuovo presidente Ferdinando Pozzani, assunsero la denominazione ufficiale di Ambrosiana-Inter, una notizia che aveva “riempito di giubilo i tifosi”, e fecero incetta di giocatori per tornare a lottare ai vertici della classifica: dallo stesso club di Occhiuzzi, i Wanderers, arrivò l’attaccante Francisco Frione.
Toccò un viaggio decisamente più breve allo “Sfondareti” Levratto, ristabilitosi nel fisico e desideroso di scrollarsi di dosso la nomea di “giocatore più forte d’Italia a non avere mai vinto lo scudetto”. Il tragitto più breve di tutti, tuttavia, fu quello del portiere Carlo Ceresoli, ceduto alla compagine milanese dall’Atalanta per ovviare a una situazione debitoria che rischiava di strangolare il club bergamasco.
Quanto ai Viola, presero dal Livorno l’avanti ungherese János Nehadoma, già star della lega americana nelle fila dei Brooklyn Hakoah, e profittarono delle vacanze di Petrone in Uruguay per fargli selezionare giovani talenti. L’“Artillero” convinse senza troppe difficoltà Antonioli del Misiones, e Vicente Sarni e Carlos Gringa, entrambi del Peñarol, a lasciare le rive del Rio de la Plata per seguirlo alla corte di Hermann Felsner.
Degno di nota anche il mercato della Roma, che si assicurò i servigi del mediano modenese Dugoni e dell’“Uomo del fango” Banchero, mezzala che si era affermata ad Alessandria e aveva giocato le ultime due stagioni nel Genova.
Curiosa al limite dell’eccentricità fu invece la campagna acquisti del Torino, che doveva sopperire al ritiro del grande Baloncieri. Persa la chance di affidare il posto di centravanti a Borel, lo affidò al diciannovenne Giovanni Busoni, che sin lì aveva giocato in terza serie nel Montevarchi.
Ancora più curiosa la storia del nuovo mediano granata, in arrivo da Rio de Janeiro: si chiamava Démosthenes Magalhães, un patronimico che non gli permetteva di vantare alcuna ascendenza italiana. Il suo ex compagno alla Fluminense Fernando Giudicelli, già arrivato in granata da alcuni mesi, suggerì allora al buon Démosthenes di procurarsi... dei documenti nuovi. Fu così che il Toro poté acquistare il sedicente “oriundo” Demostene Bertini.
Il 18 settembre, prima giornata del nuovo torneo di Serie A, la Juventus cadde clamorosamente sul Campo del Littorio di Alessandria.
I Felsinei, detentori della Mitropa, giocarono invece ospiti del neopromosso Padova: la squadra apparve lenta e ancora “da registrare”, e dovette accontentarsi di uno scialbo pareggio a reti inviolate.
Erano parsi decisamente più attrezzati per la nuova stagione i Nerazzurri, che schiantarono per sei reti a due la Pro Patria, con uno scatenato Meazza autore di una tripletta e paragonato dai giornalisti a un instancabile cannoncino.
Assai vivaci si dimostrarono anche il Genova, che liquidò per quattro reti a zero la Triestina, e il Napoli, trionfatore per 3 a 1 all’Ascarelli sulla Lazio.
Combattutissima fu invece la partita del Filadelfia tra i Granata e la Fiorentina, con i padroni di casa, orfani per la prima volta di Baloncieri, che risultarono vincitori per 3 a 2.
I tifosi, persino quelli delle squadre uscite sconfitte dai primi novanta minuti del torneo, tirarono un sospiro di sollievo: la fiera dei gol era ricominciata.
Alla terza giornata la Juventus, che portava da quindici mesi lo scudo di Savoia affiancato dal fascio littorio cucito sulla maglia, cadde anche a Napoli.
La stella bianconera “Mumo” Orsi guadagnava ottomila lire al mese, mentre il condottiero partenopeo Sallustro, al suo primo contratto da professionista dopo anni di rigoroso dilettantismo, ne percepiva appena novecento, ma evidentemente la superiorità nel calcio non si giocava soltanto con i conti in banca.
Esaltati dalla vittoria, gli Azzurri inanellarono due mesi di risultati positivi, provando per la prima volta il brivido di condurre da soli la classifica di Serie A.
Il 28 ottobre gli Azzurri erano attesi a Praga, per l’ottava e ultima partita valevole per la seconda Coppa Internazionale.
Per l’Italia, nel giorno dell’anniversario della marcia su Roma, l’imperativo era quello di vincere. Da un lato, era l’unico modo per scavalcare in classifica l’Austria e mantenere il possesso della coppa di cristallo, dall’altro si trattava di una questione di prestigio nazionale che andava ben oltre la sfera sportiva.
«Gli Azzurri non hanno mai vinto a Praga» titolava quel giorno la prima pagina del Littoriale, sulla quale figurava anche la riproduzione di un ritratto d...