Una controversia fra il vescovo e i canonici di Imola
Imola/Ferrara, 1197-1198
L’8 aprile 1198, nel palazzo vescovile di Ferrara, il vescovo Ugicio e il prevosto della Chiesa ferrarese Mainardino si riuniscono (su mandato di papa Celestino III) per discutere e arbitrare una lite insorta a Imola fra il vescovo Alberto e i canonici della cattedrale di San Cassiano: due istituzioni – la massima autorità religiosa cittadina e la comunità di sacerdoti che regge la vita della cattedrale – strettamente legate l’una all’altra, ma spesso in conflitto (non solo a Imola) per affermare la rispettiva supremazia. Il giudicato si svolge alla presenza dei procuratori delle due parti, il prete Abbate per il vescovo, i maestri Aspetato e Guido di Mezzocolle per i canonici. La regolarità delle procedure è garantita dal notaio Enrico.
La controversia verte su una complicata serie di questioni. I canonici sostengono che il denaro riscosso prima dal vescovo Enrico e poi dal vescovo Alberto vendendo certi beni della Chiesa cattedrale deve essere utilizzato nell’interesse comune e non solo del vescovo. Reclamano 9 libbre d’olio che il vescovo è tenuto a consegnare ogni anno per la preparazione del sacro crisma. Rivendicano la metà dei redditi della chiesa di San Donato, ingiustamente incamerati dal vescovo; la decima in vino e grano pagata dai contadini di Poggiolo e di Torano, due villaggi sulle prime colline attorno alla città; la rendita (pesce e una somma di denaro) di un podere tra le valli di Conselice.
Altre questioni sono di natura più squisitamente liturgica (ma, sempre, con significative implicazioni economiche e di reciproco controllo): la nomina dei sacrestani addetti alla custodia della suppellettile sacra, l’ordinazione dei chierici e le tasse loro imposte, le cause matrimoniali, i giuramenti di fedeltà prestati da chierici e laici. Infine, i canonici intimano al vescovo di non tenere più presso di sé la campana, simbolo della comunità e del potere ecclesiale.
Si trattava, verosimilmente, della campana della cattedrale, rasa al suolo dalle truppe imperiali e dagli imolesi nel 1175: episodio culminante del conflitto che per oltre un secolo aveva contrapposto la comunità di Imola al suo vescovo. Da tempo i cittadini cercavano di costringere il vescovo a rientrare in città, abbandonando la sua residenza nel castello di San Cassiano, pochi chilometri fuori dalle mura, sorto agli inizi del Medioevo e diventato nel XII secolo un centro di potere antagonista a Imola e alleato dei suoi nemici, le città di Bologna e di Faenza. Grazie anche all’appoggio dell’imperatore Federico Barbarossa, la «città antica» (così era chiamata Imola, sorta in epoca romana con il nome di Forum Cornelii) ebbe infine il sopravvento e ottenne la distruzione del castello, con tutte le sue abitazioni e i principali centri di governo: il palazzo vescovile, la cattedrale, la canonica. Alla fine del secolo l’abbandono dell’area extraurbana e il trasferimento a Imola della chiesa vescovile era cominciato da poco; la ricostruzione (in città) era appena avviata, le antiche strutture ormai inservibili.
Tale situazione ci aiuta a capire lo stato di disagio e di incertezza che caratterizza la vita della Chiesa imolese in questo periodo; la stessa controversia tra vescovo e canonici, pur essendo tutt’altro che anomala nella realtà del tempo – data l’ambiguità di un rapporto costruito al tempo stesso sulla dipendenza e sull’autonomia tra le due istituzioni –, si colora di sfumature legate alla realtà locale. Il contendere sulla campana, in particolare, è legato all’importanza che quell’oggetto aveva assunto in un momento in cui le strutture edilizie che lo avevano contenuto (la chiesa, il campanile) non c’erano più (e non c’erano ancora).
Le pretese dei canonici, avanzate dal prevosto a nome di tutti, sono violentemente contestate dal vescovo, che a sua volta contrattacca, reclamando una serie di proprietà e di diritti usurpati: un terreno edificabile abusivamente occupato dai canonici; due macine da mulino e 16 misure di frumento; i redditi di terre concesse in feudo o in enfiteusi; i paramenti sacri e tutti i libri della biblioteca vescovile, attualmente in mano ai canonici. Il vescovo, inoltre, rivendica la facoltà di ordinare i sacerdoti, di discutere le questioni matrimoniali e tutte le faccende che a qualsiasi titolo chiamino in causa il diritto canonico. Pretende la sua parte delle decime, delle oblazioni, dei redditi attualmente riscossi dai canonici, così come i diritti di sepoltura nella chiesa vescovile. Esige dai canonici obbedienza e servizio, «così come fanno gli altri canonici con i loro vescovi». In particolare, richiede che gli facciano il servizio di scorta con i cavalli – a qualsiasi ora ciò venga richiesto – e che lo seguano ogni anno a Ravenna per le feste di san Vitale e di sant’Apollinare. Lo scontro arriva a coinvolgere le reliquie del santo patrono della Chiesa imolese, san Cassiano, simbolo e strumento del potere ecclesiale. Evidentemente i canonici ne avevano preso possesso e le tenevano gelosamente presso di sé: il vescovo chiede che non le nascondano più e le sistemino nel luogo che egli stesso vorrà indicare.
Il semplice elenco dei motivi di contrasto basta a suggerire la complessità dei rapporti fra le due parti in causa, che coinvolgono realtà e problemi di natura diversa quali gli interessi patrimoniali, l’esercizio del potere territoriale, le pratiche liturgiche, il controllo della comunità religiosa.
A tutto ciò si aggiunge una questione che a prima vista sembrerebbe di secondaria importanza: quattro pranzi che i canonici esigono dal vescovo. Ma si capisce subito che l’argomento non è marginale: occupa infatti il primo posto nella lunga lista di rivendicazioni; inoltre, è proprio a questo argomento che la maggior parte dei testimoni riserva i racconti più dettagliati.
L’anno prima, canonici e vescovo avevano presentato al tribunale della Chiesa di Ferrara i testimoni che avevano creduto utili alle rispettive cause. Le deposizioni, accuratamente registrate dal notaio Enrico, aggiungono particolari sempre nuovi alle vicende contestate, aiutandoci a vederle in modo concreto, vivo, teatrale.
Fra i testi di parte canonicale, ben ventiquattro (quasi tutti) hanno qualcosa da dire sulla questione dei pranzi, definiti in vario modo: procuraciones, oppure prandia, o ancora comestiones. A deporre sono anzitutto alcuni canonici: i preti Cristiano e Clario, l’arciprete Ildebrando, il chierico Ugolino, i diaconi Gerardo e Arduino, il «converso» Ildebrando. Poi molti altri personaggi, legati ai canonici da un vincolo di fedeltà o di dipendenza o di servitù.
La deposizione più dettagliata è quella del prete Cristiano. Inizia col raccontare che si trovava alla pieve di Sant’Apollinare (il luogo, a quel tempo detto Aquavia, oggi si chiama Cantalupo) quando il vescovo Rodolfo disse al suo magazziniere, Gisone, di prendere la mezena migliore che aveva e di farla portare ai canonici per il pranzo di Natale, «che doveva loro offrire». Lui stesso vide caricare su un asino la mezzena – il termine, ancora oggi in uso, indica la metà di un maiale tagliato per il lungo e messo sotto sale. Da questo episodio erano passati, gli pare, trentasei anni: era dunque avvenuto nel 1161, poco dopo che l’imperatore Federico Barbarossa aveva espulso lo stesso Rodolfo dalla sua sede, sostituendolo con un vescovo favorevole allo scisma che in quegli anni opponeva l’impero al papato.
Di Rodolfo (vescovo dal 1146 al 1166) Cristiano ricorda che almeno un paio di volte lo vide apprestare quattro comestiones ai canonici nell’arco di uno stesso anno. Anche il vescovo Arardo (1166-1174) offrì quasi sempre i quattro pasti, e quando per qualche motivo fu impossibilitato a farlo li risarcì con 25 soldi in moneta lucchese. Questo lo ricorda bene, dice, perché proprio in quegli anni diventò canonico della cattedrale. In una successiva deposizione aggiungerà che il vescovo Arardo offriva il pranzo ai canonici anche quando era malato. Poi il castello di San Cassiano fu distrutto e il vescovo fu costretto ad abbandonarlo: da quel momento la tradizionale corresponsione cessò, per riprendere sei-sette anni più tardi al tempo del vescovo Enrico (1174-1193).
La distruzione a cui allude Cristiano è quella del febbraio 1175, quando – lo abbiamo già accennato – le forze imperiali, affiancate da truppe delle città romagnole alleate, comprese quelle imolesi, rasero al suolo San Cassiano ordinando agli abitanti del castello di trasferirsi nella città di Imola. Ciononostante, nel 1181 il castello fu ripristinato con l’aiuto di Faenza e di Bologna, e gli abitanti (a cominciare dal vescovo e dai canonici) vi fecero ritorno per qualche tempo, prima di abbandonarlo definitivamente sullo scorcio del decennio.
Ritornata la pace – continua la deposizione di Cristiano – il vescovo Enrico ripristinò la consuetudine dei pranzi, eventualmente riscattate da una somma di denaro. Quanto al vescovo attuale, Alberto, Cristiano afferma che appena eletto (1193) mandò una mezzena per il pranzo di Natale, poi 20 soldi come risarcimento di un altro; indi offrì un pranzo a Pasqua e uno per la festa del patrono, san Cassiano, la cui festa cade il 13 agosto. Per concludere afferma di aver sempre sentito dire dai canonici che è loro diritto ricevere dal vescovo i quattro pranzi; domandatogli a che titolo (qua racione) siano richiesti e corrisposti, risponde che si tratta di una consuetudine consolidata (ex usu et ex consuetudine) e che sono offerti non solo a tutti i canonici presenti in sede, ma all’intera familia dei loro dipendenti e servitori, nonché ai «gastaldi» (gli amministratori dei beni canonicali). I canonici da parte loro fornivano il necessario per la preparazione delle tavole (pro apparatu).
Ricca di dettagli è anche la deposizione dell’arciprete Ildebrando, canonico da venticinque anni. Durante gli ultimi tempi del vescovato di Arardo partecipò a tutti i pranzi offerti ai canonici nel castello di San Cassiano: quattro all’anno per due anni di seguito, poi solo due, il Giovedì Santo e il giorno di Pasqua. Il pranzo del Natale precedente fu saltato perché il vescovo era assente: ma ciò avvenne – precisa subito Ildebrando – col consenso dei canonici; altrimenti sarebbe sorto fra loro magnum rumorem. Dal 1174, col vescovo Enrico, la consuetudine dei quattro pranzi annui per qualche tempo continuò, poi – già lo sappiamo – dovette interrompersi in seguito alla distruzione del castello. Nel periodo che precedette la sua ricostruzione (questo il prete Cristiano non l’aveva detto) il vescovo offrì un pranzo ai canonici nella pieve di San Lorenzo a Imola (questa chiesa, nel lungo periodo dell’assenza vescovile, fu il luogo dell’identità cittadina e comunale, una sorta di alternativa all’episcopio mancante).
Nuova è anche la notizia che non appena si concluse la pace e il vescovo poté tornare sul sito del castello distrutto, subito, per la festa di san Cassiano, volle imbandire la tavola per i canonici, a costo di farlo sotto una tenda messa su alla bell’e meglio. Il pranzo diventava così l’occasione per riappropriarsi dell’area del castello, riaffermarvi i propri diritti, ribadirlo sede del potere vescovile, contro le pretese di assorbimento (che poi avranno la meglio) da parte della «città antica». Un segnale, dunque, rivolto soprattutto agli imolesi, che negli anni precedenti avevano ospitato entro le mura cittadine, in San Lorenzo, il tradizionale convito del vescovo con i canonici.
I pranzi successivi furono dati nella chiesa di San Cassiano, provvisoriamente rimessa in sesto – non stupiamoci di vedere imbandito un pranzo proprio all’interno dell’edificio sacro: nel Medioevo succedeva spesso. Il teste ricorda che in quegli anni il vescovo si spostava molto e non di rado era assente: in tal caso i canonici lo esentavano (confermando però, con ciò stesso, il proprio diritto a esigere il pranzo). Una volta, a ricompensa di un pranzo non celebrato, fece portare ai canonici un maiale intero.
Per quanto riguarda gli avvenimenti successivi Ildebrando conferma la testimonianza di Cristiano, a cui anche altri fanno riferimento. Anche a lui viene chiesto a quale titolo i canonici pretendono dal vescovo le comestiones. Anche lui si appella semplicemente alla consuetudine, confermando che ai pranzi hanno sempre partecipato, con i canonici, le persone del loro entourage.
Sarebbe lungo e noioso ripercorrere tutte le deposizioni che i testi di parte canonicale rilasciano al notaio del vescovo di Ferrara. Alcuni particolari, tuttavia, meritano di essere segnalati, perché aggiungono dettagli e squarci nuovi al quadro fin qui disegnato. La stessa pignoleria nel ricostruire storie di pranzi fatti o mancati, di maiali e mezzi maiali mandati per risarcirli, ci fa capire l’importanza della questione.
Per esempio, il chierico Ugolino racconta che ai pranzi a cui partecipò erano presenti tutti i familiares dei canonici in buona salute; agli altri, che non potevano venire perché indisposti, il vescovo faceva mandare a casa «quanto era loro necessario per mangiare». Particolarmente preziosa, ad attestare l’antichità della consuetudine, è la testimonianza di Graziadeo detto Marutto, un «manente» dei canonici, ossia un contadino che lavorava sulle loro terre con obbligo di risiedervi. Egli è l’unico testimone a risalire con la memoria ai tempi del vescovo Randoino (1140-1146) e addirittura di Bennone (1126-1140), e ricorda che entrambi offrivano ai canonici quattro pranzi annui. Da almeno una sessantina d’anni, dunque, costui era partecipe della vita dei canonici: a certi pranzi era intervenuto di persona, altri li aveva visti da fuori; di altri ancora aveva sentito dire. La sua deposizione è confermata da un altro vecchio contadino, Albertino di Diana, che però non risale oltre i tempi di Randoino.
Ora è la volta dei testimoni di parte episcopale: una trentina circa, fra membri della gerarchia ecclesiastica, uomini della curia vescovile (amministratori, cortigiani, personale di servizio), ex abitanti del castello di San Cassiano o di località nei dintorni. Anche loro affrontano l’argomento dei pranzi in modo preciso e circostanziato, ma, in generale, con l’obiettivo di ridimensionare e minimizzare l’impegno, sottolineando il carattere irregolare e variabile dei pranzi allestiti dai vescovi per i canonici.
Disalbergato, per esempio, afferma che i vescovi Rodolfo e Enrico talvolta offrivano il pranzo, talvolta no; in ogni caso, nessuno ne offrì mai più di due nello stesso anno. Baldovino, che faceva parte della curia vescovile al tempo di Bennone, dice di essere stato sempre con lui per le feste di Natale, Giovedì Santo, Pasqua e san Cassiano (i giorni dei presunti pranzi) e di averlo visto offrire solo un pranzo in tutto. L’arciprete Guido ricorda che il vescovo Rodolfo certi anni dava un pranzo, certi altri due. Il prete Giovanni di Conselice, che visse assieme a uno zio canonico per nove anni, al tempo di Arardo e poi di Enrico, dice di avere assistito a venti pranzi in tutto, e mai a quattro nello stesso anno. Ughetto di Bagnara afferma che il vescovo Arardo non offrì mai più di due pranzi nello stesso anno e in sette anni ne imbandì solo cinque – lui lo sa bene, dato che la sua casa confinava con la canonica «e i canonici non potevano uscire senza che lui li vedesse». Il vescovo Enrico, poi, non lo vide offrire più di nove-dieci pranzi in diciotto anni. Un certo Pelukinus conferma: non più di cinque pranzi in nove anni – e non può sbagliarsi, visto che all’epoca «viveva in casa con lui».
Più o meno dello stesso tenore sono le altre deposizioni: chi dice di avere visto, o saputo, di questo o quel vescovo che offriva un pranzo, due, tre; chi afferma di non sapere nulla; chi confessa di non ricordare bene il numero dei pranzi e la loro scansione temporale: «non so quanti», «non so quando»...
Fumo negli occhi? Un tentativo di confondere le idee ai giudici? Si direbbe piuttosto una strategia per suggerire l’idea di una realtà irregolare, elastica, non codificata. Il nocciolo del problema non è il numero dei pranzi (questione, tuttavia, non insignificante, come vedremo subito) ma l’obbligatorietà o meno della consuetudine. La sua motivazione. Il suo significato. Se, come sostengono molti testimoni, il pranzo era offerto ora sì ora no, ora spesso ora raramente, senza necessità di renderne conto a nessuno, ciò indicava la natura graziosa del gesto, funzionale a esprimere non un obbligo ma una libera scelta, determinata dalle circostanze e dalla volontà del vescovo.
Il «curiale» Grimaldo è molto esplicito in proposito: afferma di essere sempre stato presente quando il vescovo Enrico e il suo successore Alberto offrivano pranzi ai canonici e ai loro uomini, non solo amministratori e personale domestico, ma anche concessionari delle loro terre, legati ai canonici da un vincolo di fedeltà. Una folla di gente, sembrerebbe: ma Grimaldo insiste sul fatto che tutti costoro partecipavano al pranzo solo se il vescovo voleva. Anche la scelta del menù (cibaria) era lasciata al vescovo. Il tutto all’insegna della benevolenza, della generosità – al punto che, se i canonici facevano la voce grossa ed esigevano il pranzo, il vescovo non lo concedeva, mentre lo accordava volentieri se lo accoglievano come un dono: «quando lo chiedevano, non lo dava; ma se non lo chiedevano, lo dava con benevolenza».
Lo stesso valeva per quelle che i canonici e i loro testimoni avevano definito «ricompense», risarcimenti per pranzi non ricevuti: Grimaldo sa perfettamente che il vescovo Alberto fece loro avere una mezzena d...