Come nasce una dittatura
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Come nasce una dittatura

L'Italia del delitto Matteotti

  1. 272 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Come nasce una dittatura

L'Italia del delitto Matteotti

Informazioni su questo libro

«Matteotti procedeva a passo svelto. All'improvviso due uomini interruppero il corso dei suoi pensieri. Lo afferrarono bruscamente, cercando di trascinarlo a forza verso la strada. Ad attenderli, un'elegante auto scura»: è il 10 giugno 1924 quando il parlamentare socialista Giacomo Matteotti viene rapito in pieno giorno. I giornali seguono passo passo le indagini, dalle quali emergerà chiaramente come i mandanti dell'agguato siano da ricercare nelle alte sfere del potere politico. Ci sono tutte le premesse di un terremoto istituzionale: l'Italia è percorsa da un sentimento d'indignazione nei confronti delle violenze fasciste. Ma lo sdegno dell'opinione pubblica e lo scandalo delle forze politiche non basteranno a proteggere la democrazia.

Giovanni Borgognone racconta quei mesi convulsi. Da quel 10 giugno 1924 al 3 gennaio 1925 quando Mussolini, parlando alla Camera, si assume, lui solo, la responsabilità politica, morale, storica di quanto è avvenuto. Sono passati sei mesi e l'Italia si scopre sotto una dittatura.

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Informazioni

Un cadavere «gettato tra le gambe» di Mussolini

I

In un colloquio con l’intellettuale e politico fascista Paolo Orano, Mussolini, interrogato su quali potessero essere le conseguenze politiche dell’omicidio di Giacomo Matteotti, ebbe a dire: «Se mi è stato gettato un cadavere fra le gambe perché abbandoni il potere, ebbene si è sbagliato»1. Per due mesi, in realtà, le polemiche e i dibattiti intorno al delitto si svolsero senza notizie certe su che fine avesse fatto il corpo del deputato socialista, a proposito del quale circolarono solo voci fantasiose. Ancora nella seconda metà di giugno alcuni giornali affermarono che era stato ritrovato, trasportato all’ospedale San Giacomo e da lì al Policlinico, nel Gabinetto di Medicina legale, per essere infine sistemato in una cella frigorifero2. Le autorità di Pubblica sicurezza dovettero smentire ufficialmente tale ricostruzione. I carabinieri continuavano intanto a frugare per ogni dove, ma tutte le ricerche, svolgendosi in un’area troppo vasta e senza punti di riferimento neppure approssimativi, brancolavano nel buio. Serpeggiarono ancora ipotesi come quella dell’eliminazione della salma in un rogo o presso il forno crematorio di Roma. C’era chi dava per certo che il cadavere del segretario del Psu si trovasse sul fondo del lago di Vico, probabilmente legato in un sacco e assicurato a dei forti pesi. La sorte del corpo di Matteotti rimaneva dunque avvolta nel mistero.
In piena estate però, il 16 agosto, accadde qualcosa di nuovo. Nei due mesi precedenti la campagna romana, come si è detto, era stata battuta in lungo e in largo. Erano stati esplorati boschi, caverne, catacombe, piccoli cimiteri abbandonati. Era stato sondato il lago di Vico. Erano stati perlustrati la Macchia Grossa di Ronciglione e gli scavi presso Monterotondo. Ma fu alla fine una cagnetta, almeno secondo la versione ufficiale, a consentire la scoperta dei resti di Matteotti. Qualche giorno prima, in un chiavicotto al chilometro 18 della via Flaminia, era stata trovata una giacca intrisa di sangue. Poi a distanza di poche ore, nello stesso luogo, una manica tagliata. Le ricerche erano state guidate dal capitano dei carabinieri Domenico Pallavicini. L’indumento venne immediatamente riconosciuto come la giacca appartenuta a Matteotti. La speranza era a questo punto che nelle vicinanze, in quel tratto tra Scrofano e Riano, potessero essere recuperati anche i resti della vittima. Un brigadiere dei carabinieri, Ovidio Caratelli, che si trovava a Riano in licenza presso la famiglia, decise di condurre per conto proprio le ricerche nella macchia della Quartarella, che egli conosceva bene avendo abitato per vent’anni da quelle parti. Si trattava di un alto e folto bosco a lato della via Flaminia, un luogo impervio e selvaggio che in passato aveva dato asilo ai briganti: di là irrompevano sulla strada principale ad assaltare diligenze e a depredare i passanti.
Caratelli, sapendo del rinvenimento in quei pressi della giacca di Matteotti, pensò che non lontano potesse trovarsi il cadavere. Da ragazzo aveva battuto in lunghe gite di caccia tutti i boschi nei dintorni di Riano. Nessuno meglio di lui, dunque, avrebbe potuto esplorare quei luoghi. In base a quanto avrebbe poi raccontato, prese con sé il fratello Dante, la cagnetta da caccia di nome Trapani e passò infaticabilmente al setaccio la zona per tutto il giorno del 15. Perlustrò in particolare la macchia della Quartarella. Essa era separata dalla strada da un’alta staccionata ed era costituita da alberi di alto fusto e da cespugli molto fitti. Il terreno verso l’interno della macchia precipitava a un certo punto in un burrone profondo una cinquantina di metri. Tra il bordo della macchia e il burrone vi era però la piccola radura di una carbonaia abbandonata, non visibile dalla strada perché coperta dalla spessa vegetazione. Verso sera il giovane carabiniere udì il proprio cane abbaiare lontano, lo raggiunse e vide che annaspava il terreno. Ma era ormai buio e preferì perciò tornare indietro. La mattina seguente proseguì la propria indagine. Non appena si avvicinarono alla Quartarella, il cane si mise a correre ed entrò nel fitto della boscaglia. Giunto nello stesso luogo della sera prima, riprese ad annaspare. Fu allora che Caratelli sentì il terreno molle sotto i piedi e vide biancheggiare qualcosa. Chiamò il fratello e con lui iniziarono a scavare. Dalla terra saliva un odore nauseabondo di putrefazione. Vennero quasi subito alla luce ossa umane e brandelli di carne, completamente ricoperta da vermi brulicanti. Tolta ancora un po’ di terra, ai due Caratelli apparve la parte anteriore di un teschio.
Il giovane carabiniere andò a cercare aiuto. Si rivolse innanzitutto al capostazione di Riano. Giunse poi il capitano Pallavicini, il quale diede disposizioni per il servizio di vigilanza e contattò l’autorità giudiziaria. I magistrati Del Giudice e Tancredi, accompagnati dal medico legale, arrivarono alle 13. Constatarono in primo luogo che il cadavere, per entrare in un tumulo di quelle dimensioni, doveva essere stato premuto a forza, quasi spezzato in mezzo, presumibilmente pestandolo con i piedi, e piegato a libro (le gambe erano rivoltate sotto la schiena). Infine era stato coperto sommariamente con un po’ di terriccio. Gli animali selvatici della macchia, dato il seppellimento molto approssimativo, si erano potuti impossessare facilmente di qualche parte della salma. I particolari più significativi riguardavano però il teschio: alcuni denti d’oro diedero infatti conferma del fatto che si trattasse dei resti di Giacomo Matteotti.
Per tutto il pomeriggio i carabinieri continuarono a sondare il terreno intorno alla fossa, setacciandolo accuratamente per vedere se non contenesse ancora qualche lembo di carne o qualche resto di ossa. Intanto, di ora in ora, si ingrossava sensibilmente la folla accalcatasi ai confini del bosco. Tra i primi a soggiungere vi furono i deputati del Psu. «Ti risparmio – scrisse Turati alla compagna Anna Kuliscioff – la minuta descrizione dei resti. Tutto è distrutto. Non c’è più neppure lo scheletro, ma soltanto tibie, femori, costole, ossa disperse e il teschio»3.
Erano accorsi nel frattempo anche i giornalisti. Arrivò da Roma un autocarro, da cui venne calata una cassa di legno grezzo. In essa, tra l’orrore dei presenti e il disgusto provocato dall’olezzo, vennero deposti i poveri resti del deputato socialista. Tutti i quotidiani si affrettarono a dare la cronaca dettagliata del ritrovamento. L’opinione pubblica dunque, pur intorpidita dalle feste di Ferragosto, fu improvvisamente percorsa da intense vibrazioni emotive, come nei primi giorni dopo il 10 giugno. La cagnetta Trapani, fotografata e vezzeggiata, si disse fosse stata persino al centro delle attenzioni di Velia Matteotti, che secondo la versione dei giornali aveva chiesto di acquistarla e prenderla con sé.
Quando sembrava che Mussolini avesse ripreso in mano la situazione e che lo scandalo suscitato dal delitto si stesse esaurendo, anche per stanchezza, dopo settimane di sistematico bombardamento da parte della stampa, l’impressione suscitata dal ritrovamento del cadavere del deputato socialista acuì nuovamente la crisi del fascismo. Le opposizioni poterono sfruttare l’occasione per rinnovare gli attacchi giornalistici contro il governo. Per reazione le componenti più aggressive del Pnf, quelle rappresentate dai ras di provincia, ripresero l’organizzazione di violente manifestazioni e di aggressioni ai danni degli avversari politici.
Finalmente la giustizia aveva la prova inconfutabile del delitto – sostennero i giornali aventiniani, a partire dal «Mondo» – e il processo non poteva più essere impacciato da formalità. Singolare era poi il fatto, secondo il quotidiano romano «La Tribuna», che nessuno, né tra i mandanti né tra gli esecutori, avesse mai fornito il minimo indizio per la ricerca del cadavere di Matteotti. Sicuramente sapevano tutto, ma avevano taciuto, sperando probabilmente di essere salvati da una «seconda ondata» fascista, ovvero da una sorta di «notte di San Bartolomeo» in cui si sarebbero regolati i conti con tutti i nemici del regime.
Ora era stato rimosso ogni ostacolo – commentò Cesare Sobrero dalle colonne della «Stampa» di Torino – al procedere dell’istruttoria e si sarebbe potuto fare luce su tutta la vicenda, come il popolo italiano da tempo domandava. Si era dileguata completamente, sempre secondo Sobrero, l’ipotesi che al deputato socialista si fosse voluta infliggere solo una lezione e che la cosa fosse degenerata per la resistenza dell’aggredito. La scelta di delinquenti già sperimentati in altre imprese delittuose, l’«orgia di sangue compiuta nella tragica automobile», i particolari raccapriccianti messi in luce dalla scoperta del cadavere, così come quelli della stoffa recisa per nascondere le tracce di sangue e l’intera svestizione del corpo di Matteotti per renderlo irriconoscibile collocavano l’impresa di Riano «fra le più meditatamente feroci» mai registrate dalla storia. Adesso comunque – proseguiva il giornalista della «Stampa» – il processo Matteotti avrebbe potuto assumere «un andamento normale», anche se persisteva ancora «il pericolo di vederlo inquinato dalla politica». Già si cominciava infatti ad affermare da parte della stampa fascista che il ritrovamento delle spoglie dell’onorevole Matteotti costituisse in fondo una vittoria per il governo, perché dimostrava non essere vero che l’esecutivo avesse voluto occultare le povere ossa del segretario del Psu4.
Argomenti simili circolarono invero più o meno su tutti i quotidiani schierati a fianco del fascismo. La notizia, secondo il «Popolo d’Italia», era destinata «a cadere come una fiera mazzata» sul capo di quanti avevano, «per ben due mesi, inscenato la più miserabile mistificazione sul mancato ritrovamento del cadavere». Il giornale del presidente del Consiglio insisteva su questa linea, attaccando i fogli indipendenti e di opposizione: dal delitto Matteotti in avanti era stato «impunemente stampato» di tutto, dando credito alle «voci più assurde» e alle «ipotesi più strampalate». Ora però era emersa la verità, che schiacciava «il cumulo delle calunnie e delle menzogne»5.
Severo nei confronti del governo fu invece il giudizio del «Giornale d’Italia», e dunque dei liberali fiancheggiatori del fascismo. Ora che il cadavere era stato rinvenuto, la «legge punitrice» avrebbe dovuto fare il suo corso fino in fondo. Era necessario che la giustizia trionfasse per restituire fiducia nelle istituzioni. Nelle masse italiane vi era infatti, secondo il quotidiano romano, una crisi morale, in base alla quale molti erano stati indotti a ritenere che talvolta avesse ragione la violenza. A costoro si doveva fare comprendere che l’uso arbitrario della forza non si sarebbe più potuto sovrapporre alla legge e che quest’ultima, d’ora in avanti, si sarebbe dimostrata inflessibile con chiunque. La magistratura avrebbe reso così un grande e inestimabile servizio al paese, liberandolo dalla crisi morale che da due mesi lo turbava. Il quotidiano dei liberali salandrini sviluppò inoltre, nei giorni che seguirono il rinvenimento del corpo di Matteotti, alcuni ragionamenti intorno al delitto che di certo non avrebbero incontrato l’approvazione degli alleati fascisti6. Per giungere alla macchia della Quartarella dalla via Flaminia occorreva avere una profonda conoscenza della campagna romana. Ma degli imputati, toscani e lombardi, quasi tutti chiamati nella capitale per la missione criminosa, nessuno poteva essere così pratico di quei luoghi. Chi dunque – domandava il «Giornale d’Italia» – aveva indicato loro la via? Chi aveva suggerito la località?
In quel clima molto teso il fascismo estremista, quello che, come si è visto, suscitava i più vivi dissensi pure nella componente liberale e centrista della maggioranza, alzò nuovamente il tono polemico e aggredì tutti i critici e gli avversari. Di fronte ai dubbi sollevati da fogli di opposizione come l’organo del Ppi «Il Popolo» sull’autenticità del ritrovamento del cadavere (era subito emersa, infatti, l’ipotesi che fosse stato «pilotato»), Farinacci su «Cremona Nuova» domandò: «C’è un decreto sulla stampa: perché non viene applicato?». Il popolo italiano non aveva mai chiesto a Mussolini la libertà di stampa, né aveva mai protestato per il sequestro dei giornali, «sequestro che quasi ha accolto con entusiasmo, risparmiandosi così di leggere menzogne e notizie indegne di una Nazione civile come la nostra». Il governo aveva già tollerato abbastanza, permettendo che per due mesi si pubblicasse ogni sorta di falsità; aveva consentito che l’opinione pubblica venisse turbata «con racconti malvagi, preparati ad arte». A questo punto, se il decreto si fosse rivelato insufficiente, sarebbe stato anche opportuno, secondo il ras di Cremona, occupare le tipografie dei giornali o sospenderne a...

Indice dei contenuti

  1. Il delitto
  2. Gli antefatti
  3. Lo scandalo
  4. Un cadavere «gettato tra le gambe» di Mussolini
  5. Finale di partita