La Chiesa di papa Wojtyła
di Andrea Riccardi
Tre immagini, tra le infinite, ritraggono Giovanni Paolo II: l’insediamento in piazza San Pietro con l’urlo «Non abbiate paura!»; l’attentato nel 1981 del turco Ali Agca; le folle al suo funerale. Immagini di un uomo rilevante nel Novecento, al punto che tentano di eliminarlo e, alla sua morte, i potenti del mondo vengono a inchinarsi, come mai di fronte a un papa. Era da poco finito il Novecento, il secolo più secolarizzato della storia, in cui il cattolicesimo non sembrava destinato proprio a un grande futuro.
Tanti, cattolici o no, vedono in Karol Wojtyła L’uomo del secolo (come recita il titolo della biografia di Kwitny1). È Karol il grande secondo il vaticanista Del Rio, all’inizio critico del papa che gli sembrava un faraone, poi folgorato dalla sua personalità2. Mai un numero così grande di biografie è stato dedicato a un papa. Su di lui si sa moltissimo. Ha scritto libri, autobiografie, opere teatrali, poesie, oltre, ben inteso, al magistero: sedici encicliche, più di cinquanta ponderosi volumi di discorsi. Massa enorme di parole e immagini, oggi ordinata attorno a un’idea: l’uomo del secolo, forse il più grande della seconda metà del XX. Convinzione rafforzata nel confronto con Benedetto XVI, con quel procedimento mentale tipico dei cattolici contemporanei, per cui il papa migliore è sempre quello morto. Fu così con Paolo VI rispetto a Wojtyła e con Giovanni XXIII rispetto a Paolo VI.
Wojtyła il grande? Si dimenticano però i primi anni di pontificato, criticati da ogni parte. Ci furono problemi persino con i fedelissimi italiani. Specie nel clero. Era il primo papa non italiano dopo 450 anni. Italianità e papato sembravano interconnessi. Wojtyła apparteneva alla Chiesa polacca, esterna al dibattito occidentale dopo il Concilio. Il cardinal Ballestrero, presidente dei vescovi italiani, raccontava che il papa, di fronte alle folle polacche al santuario di Cze˛stochowa, nel difficile viaggio del 1979, gli disse: «Questo, io vorrei per la nostra bella Italia». E il cardinale ripeteva inorridito: «Ci vuole far diventare tutti polacchi!». Il progressismo cattolico, rilevante allora, si preoccupava dell’affermazione forte dell’identità cattolica da parte del papa. Laterza nel 1986 pubblicò un libro di Zizola, dal titolo La restaurazione di papa Wojtyla3.
Ai laici apparve integralista, incapace delle fini distinzioni tra spirituale e temporale (come Paolo VI sulla scia di Maritain). Al referendum abrogativo per la legge sull’aborto, nel 1981, si gettò nella lotta, apparendo al balcone di San Pietro, per parlare chiaro e forte. Come avrebbe sempre fatto su aborto, vita, famiglia, dedicando pure un’enciclica a questi temi. Per Sciascia, nell’86, è «un potente di antica potenza. Tanto antica da apparire anacronistica»4.
Bisogna ricordare come fu eletto il 16 ottobre 1978 (nessun cardinale sapeva che quel giorno era l’anniversario della razzia tedesca degli ebrei di Roma). Nel 1978, la Chiesa era in crisi, scossa dalla contestazione, dopo il Concilio e il ’68. Aveva incarnato per secoli l’autorità della tradizione. Dalla Rivoluzione francese, il cattolicesimo si era opposto con intransigenza alla modernità liberale, laica, nazionalista, comunista. Storia di movimento cattolico attorno al papa, storia di fede, pietà di popolo, azione sociale. La strategia intransigente conosceva accostamenti, concordati, ma restava convinta che la Chiesa non dovesse farsi dettare l’agenda dal mondo e dalla modernità. Aveva lottato per non essere suddita dei principi antichi, non voleva esserlo ora della regina senza volto del nuovo tempo: la modernità.
Il Vaticano II (1962-1965) aveva però posto le basi per una Chiesa rinnovata nella modernità pluralista, con gli altri cristiani e le religioni: Chiesa del dialogo e dell’evangelizzazione, ma con la sua identità. Aveva approfondito la visione teologica, avviato una liturgia non più in latino, con uno spazio maggiore alla Bibbia. Paolo VI, genio politico italiano («co-fondatore» della Dc con De Gasperi), promosse la riforma della Curia (internazionalizzata e non più italiana) e della Chiesa, articolata in soggetti nazionali (le conferenze dei vescovi), per rilanciare, in una società secolarizzata, un cattolicesimo dalle radici antiche ma con un volto contemporaneo. Si sperava in una feconda primavera con il Concilio, ma la Chiesa si trovò nella tempesta.
Era conculcata ad Est dalla secolarizzazione persecutoria del comunismo. A Occidente, si delineava un duro futuro prospettato dall’assioma della storia condiviso da tutti: più modernità significa meno religione. Quindi riduzione o annientamento del cattolicesimo. Bisognava cambiare! Un movimento cattolico diffuso contestava il gradualismo di Paolo VI. La Chiesa era troppo vecchia per questo mondo! Il Concilio non spingeva a smantellare la struttura piramidale, unitaria a livello mondiale? Scoppiava una pacifica ma intensa rivoluzione di base. L’area tradizionalista invece critica...