
- 116 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La storia manipolata
Informazioni su questo libro
Da Cavour a Badoglio, dai Savoia ai politici del dopoguerra, ministri, alti funzionari, segretari di partito hanno spesso cercato di manipolare la realtà storica. Un saggio illuminante e dissacrante, che svela il lato oscuro del nostro paese.
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Informazioni
Argomento
HistoryCategoria
Italian History1. I resoconti tendenziosi della storia
In ogni paese c’è stata talvolta la tentazione di dare resoconti tendenziosi della
propria storia, e con motivazioni che possono essere considerate di volta in volta
giuste oppure no. Il patriottismo, se non è portato all’eccesso, è un sentimento nobile
e legittimo. E nemmeno dovremmo condannare in modo sbrigativo e indiscriminato qualunque
tentativo di alimentare quei miti storici che aiutano a consolidare il nostro senso
di identità nazionale. Allo stesso tempo si deve pur ammettere che le leggende storiche
possono avere esiti disastrosi se prese troppo seriamente, tanto più quando sono state
manipolate o persino inventate nel deliberato tentativo di influire sulla politica
o ingannare i posteri. Nei libri di testo per la scuola elementare oppure nella stampa
popolare una certa dose di manipolazioni della storia può sembrare abbastanza innocente,
ma queste manipolazioni sommandosi possono generare nell’opinione pubblica illusioni
pericolose oppure concezioni errate relativamente alla potenza di una nazione e ai
suoi reali interessi. Nessun paese è immune dalla tentazione di portare queste esagerazioni
alle estreme conseguenze. Accade in ogni nazione che alcuni storici, invece di cercare
semplicemente di comprendere e raccontare il passato, siano condizionati da interessi
legati alla politica del momento e abbiano in mente piuttosto un qualche futuro idealizzato
per il quale cercano una giustificazione storica. In casi estremi un tale atteggiamento
può essere portato fino al punto di falsificare le prove documentali, magari assolvendo
l’operato di un tiranno per legittimare poi una politica nazionale aggressiva, oppure
per difendere la discriminazione razziale o la lotta di classe, o ancora per nascondere
la corruzione di una élite governativa.
Quando si scrive di storia si può incorrere naturalmente in inesattezze di tipo diverso:
si può trattare di inesattezze casuali o involontarie, derivate forse dal fraintendimento
di un testo, o dovute a ricerche affrettate, o ancora al fatto che chi scrive è effettivamente
all’oscuro dell’esistenza di prove che offrono una differente versione dei fatti.
Evitare del tutto errori di questo genere è difficile anche per lo storico più onesto
e scrupoloso. È pur vero poi che in qualche caso, nel quale si suppone sia stata operata
deliberatamente una falsificazione, il danno è soltanto marginale. Per citare un piccolo
esempio, viene alla mente una lettera del luglio 1860, scritta dal re Vittorio Emanuele
II a Garibaldi; il fatto che ne esistessero versioni differenti fece nascere dei sospetti
e fece supporre che qualche storico avesse voluto gettare una luce più favorevole
sulla politica del re. Un episodio controverso ben più noto riguarda l’esecuzione
sommaria di Mussolini nel 1945, descritta con resoconti assai contrastanti da persone
diverse, anche da sedicenti testimoni oculari, cosicché permangono tuttora incertezze
sul luogo e sul momento preciso in cui avvenne il fatto, come anche su chi ne fu realmente
l’esecutore. Per quanto tali dubbi e contraddizioni offrano interessanti spunti di
riflessione, hanno soltanto un’importanza minore.
Ognuno di noi sa, per esperienza personale, quanto inattendibili siano qualche volta
i ricordi e con quale imprecisione, nonostante la buona fede, ritornino alla mente.
Nel caso di un libro storico, qualora si sospetti la malafede, il lettore deve prendere
in considerazione l’eventualità che l’autore di un documento possa essere stato mosso dal desiderio
di ingraziarsi un potente protettore, oppure di difendere se stesso e i suoi alleati
politici dall’accusa di avere commesso scorrettezze. D’altra parte, ogniqualvolta
non vi siano indizi che suggeriscano la possibilità di una mistificazione, potrebbe
risultare difficile verificare i fatti e si deve quindi accettare la probabilità che
il loro resoconto sia disinteressato e accurato. Infatti, è raro riuscire ad appurare
se un volume di memorie oppure un diario non siano stati parzialmente riscritti prima
della pubblicazione, per ragioni politiche o semplicemente per farne un libro più
interessante e leggibile. Le modifiche, talvolta, possono riguardare solamente l’aspetto
linguistico, ad esempio per semplificare l’esposizione oppure per eliminare particolari
apparentemente non pertinenti; ma l’esperienza ci suggerisce che non di rado si tratta
di interventi più consistenti. È sempre bene ipotizzare che questo tipo di libri,
a meno che non vi siano esplicite dichiarazioni del contrario, possano essere stati
«ritoccati», in modo sostanziale o marginale, da un autore o da un curatore in grado
di sfruttare i vantaggi del giudizio retrospettivo.
2. Le omissioni
Chiunque scriva di storia è necessariamente obbligato a scegliere solo una piccola
quantità delle testimonianze disponibili, e se questo viene fatto con onestà , si tratta
di una prassi ineccepibile quanto inevitabile. La necessità di semplificare ci ricorda
tuttavia che la falsificazione si ottiene più facilmente attraverso le omissioni anziché
per esplicite affermazioni. L’interpretazione del passato implicherà sempre una semplificazione,
talvolta anche un eccesso di semplificazione (e di conseguenza la distorsione), ma
esiste comunque una garanzia nel fatto che in seguito altri storici potrebbero criticare
qualunque interpretazione non tenga conto di testimonianze pertinenti in grado di
offrire una differente versione dei fatti. Più difficili da smascherare sono gli occultamenti
compiuti non dagli storici, ma dagli attori principali dello scenario storico, nel
qual caso il controllo può risultare impossibile. Le memorie pubblicate e i diari
devono essere sempre esaminati tenendo presente questa possibilità ; e lo stesso è
vero in misura minore per le pubblicazioni ufficiali. I documenti diplomatici italiani stampati dopo il 1950 in più di cinquanta volumi hanno contribuito enormemente alla
nostra conoscenza della politica estera, ma contengono importanti dispacci spediti
ai curatori della raccolta dagli archivi privati di casa Savoia, e fintantoché gli
originali rimangono segreti non c’è alcuna possibilità per gli studiosi di controllare
l’accuratezza delle copie disponibili o di verificare i criteri in base ai quali sono
stati selezionati.
3. Gli archivi privati
Questi dubbi potrebbero sembrare eccessivi, se non fosse che sappiamo bene quante
altre pubblicazioni del secolo scorso siano inattendibili quando riguardano il capo
dello Stato. Un altro problema relativo ai documenti di quell’epoca è costituito dall’abitudine
dei ministri di trasferire sistematicamente e illegalmente i documenti ufficiali nei
loro archivi privati quando lasciavano l’incarico, col risultato che nell’archivio
pubblico ci sono lacune che forse non sarà mai possibile colmare.
È auspicabile che questa privatizzazione di documenti pubblici sia stata meno frequente
nel periodo successivo, ma per molto tempo fu quasi una regola generale. Il conte
Ottavio Thaon di Revel, quando divenne ministro della Guerra nel 1867, fu informato
da un collega che si trattava di una procedura normale e che avrebbe dovuto adottarla
anche lui per sua stessa tutela. Talvolta, questa pratica era dettata dall’esigenza
di procurarsi del materiale per scrivere le proprie memorie, o da affidare a un eventuale
biografo, ma altre volte vi era il deliberato proposito di favorire la carriera dell’ex
ministro oppure di impedire che informazioni imbarazzanti dal punto di vista politico
venissero nelle mani di un rivale che si fosse avvicendato nello stesso incarico.
Il generale Alfonso La Marmora, allorché divenne presidente del Consiglio, nel 1864,
trovò gli archivi del ministero degli Esteri nel più completo disordine e si accorse
che erano misteriosamente scomparsi i testi firmati di importanti trattati con Francia
e Germania. Con suo personale imbarazzo, poi, scoprì anche che una relazione strettamente
confidenziale del 1849, nella quale egli suggeriva di bombardare Genova con l’artiglieria,
era finita in qualche modo nelle mani di un privato cittadino. Che queste lacune fossero
casuali o che si trattasse di mancanze meno innocenti, esse documentano dunque una
pratica abituale che in qualche caso indebolì l’efficacia dell’azione del governo.
Francesco Crispi, anch’egli presidente del Consiglio in un momento molto difficile
per la gestione della politica estera, scoprì nel 1888 che il ministero degli Esteri
non riusciva a trovare traccia di diversi accordi segreti stipulati nei precedenti
venticinque anni. Questo significa che non soltanto la pubblica opinione, ma persino
molti ministri venivano lasciati all’oscuro degli impegni vincolanti in politica estera,
i quali obbligavano lo Stato italiano a intervenire in eventuali situazioni di emergenza
che si fossero verificate in futuro.
Forse Crispi esagerava descrivendo questa scoperta, o forse era stato male informato
dai suoi collaboratori. Rimane tuttavia il fatto che pochissimi fra i parlamentari
disponevano di qualcosa che non fossero cognizioni piuttosto vaghe in merito agli
accordi militari con la Germania; tale disinformazione coinvolgeva persino alcuni
dei ministri più direttamente interessati, i quali invece avrebbero dovuto essere
perfettamente al corrente degli obblighi che comportavano tali impegni, fra cui vi
era anche quello di mandare un esercito italiano a combattere contro la Francia lungo
il Reno. In particolare, il testo assai importante della Triplice Alleanza, che univa
l’Italia alla Germania e all’Austria, venne a conoscenza del Parlamento solo nel 1915,
quando, a più di trent’anni dalla firma, Gaetano Salvemini ne scoprì una copia tra le carte private del generale Carlo Felice di Robilant.
Addirittura qualcuno fra i responsabili dei dicasteri interessati ne era stato tenuto
all’oscuro, sebbene questo trattato impegnasse l’Italia a combattere in caso di attacco
alla Germania o all’Austria: è evidente che questa ignoranza impedì una preparazione
militare adeguata a impegni politici così vincolanti. Stupisce ancor di più il fatto
che, nel 1915, il presidente del Consiglio Antonio Salandra non si curò affatto di
consultare gli altri ministri o i comandanti dell’esercito prima di cambiar bandiera
per combattere contro i tedeschi. Solo con grandi difficoltà si riuscì a mantenere
segreto questo nuovo impegno e a nascondere l’imbarazzante constatazione che, per
alcuni giorni, l’Italia era rimasta vincolata dagli obblighi sanciti, a schie- rarsi
simultaneamente con entrambi i contendenti nella guerra che stava per iniziare.
4. La segretezza per la «raison d’état»
In ogni paese si invoca naturalmente la raison d’état per giustificare un certo grado di segretezza, ma un governo privo del freno fornito dal Parlamento e dalla stampa può essere tentato di anteporre gli interessi di partito a...
Indice dei contenuti
- 1. I resoconti tendenziosi della storia
- 2. Le omissioni
- 3. Gli archivi privati
- 4. La segretezza per la «raison d’état»
- 5. Nel 1992 entrano in scena i magistrati
- 6. Le amnistie e altre contraffazioni
- 7. La corrispondenza Churchill-Mussolini
- 8. La propaganda fascista
- 9. Mussolini manda al macerodocumenti ufficiali
- 10. L’uso del gas in Etiopia
- 11. Le fortune private dei gerarchi fascisti
- 12. La denigrazione degli inglesi
- 13. I diari di personalità eminenti
- 14. I falsi prima e dopo il fascismo
- 15. Le falsificazioni di Giolitti
- 16. Altre manipolazioni degli storici
- 17. Mazzini e Garibaldi fra le vittime
- 18. L’archivio personale di Cavour
- 19. Gli archivi della famiglia Savoia
- 20. Gli errori di Badoglio
- 21. «Magna est veritas et praevalebit»