Il FAI: prima di nascere e oggi
Leggo in La lunga guerra per l’ambiente – una riedizione del 2016 di scritti di Elena Croce – che il Comitato per la difesa culturale del Mezzogiorno «intratteneva [...] l’attenzione su problemi di fondo che erano stati un po’ accantonati [...] Da un lato, cioè, la necessità di promuovere qualcosa di affine al National Trust – che nel corso del Novecento è venuto ad assumere la proprietà e la cura di tenere aperta al pubblico la maggior parte delle case storiche e dei parchi privati della Gran Bretagna; e, in tutt’altro ordine di problemi, la necessità di promuovere la conoscenza dell’architettura di landscape»...
Scriveva la Croce: «Del National Trust era venuto a parlare per la prima volta a Roma John Francis Rathbone (segretario del Trust fra il 1950 e il 1968). Fu, in effetti, il Comitato per la difesa culturale del Mezzogiorno a promuovere nel 1968 un primo tentativo italiano di fondare un istituto analogo al National Trust. Si ritenne che l’unica città capace di dare impulso a una iniziativa del genere, che incontrava il più tipico ‘scetticismo italiano’ [...], sarebbe stata Milano. L’aiuto e l’esempio pratico che il Comitato... ha avuto da amici inglesi appassionati ed esperti conoscitori d’arte, storia e natura meridionale, è incalcolabile».
Sorgono a questo punto tre problemi.
Primo problema Il tentativo di costituire un equivalente italiano del National Trust del suddetto Comitato sembra coincidere con la fondazione «Italia da salvare. Alessandro Manzoni», datata anch’essa al 1968. Il titolo riprende la mostra fatta da Bazzoni per Italia Nostra Italia da salvare (1967-1968) e sembra rispondere a questo interrogativo: dopo la denuncia, altra denuncia o qualcos’altro? I nomi collegabili all’iniziativa sono Elena Croce, Giulia Maria Crespi e Renato Bazzoni. Piero Bassetti svolge una funzione organizzatrice e nel 1971 trova un presidente di prestigio in Stefano Siglienti, che però in quello stesso anno muore. La fondazione vive per circa un anno e mezzo e poi malamente sopravvive fino alla seconda metà degli anni Settanta. La fondazione si propone, sul modello del National Trust, l’acquisto o la gestione di tre siti: non basta protestare, bisogna fare (informazioni datemi da Alberto Saibene). Giulia Maria Crespi e Renato Bazzoni fonderanno poi, nel 1975, il FAI, legalmente riconosciuto solo l’anno dopo. A una delle riunioni dell’«Italia da salvare» Giulia Maria Crespi ricorda la presenza di Howard (vedi oltre). È quindi probabile che il 1968 sia stato un anno decisivo: per la conferenza tenuta a Roma da Rathbone, per l’aiuto e l’esempio pratico degli amici inglesi di Elena Croce e per il tentativo fatto a Milano della fallita fondazione «Italia da salvare». Bisogna aggiungere che in quegli anni Renato Bazzoni si recava frequentemente in Inghilterra e visitava i siti del National Trust, per cui condivideva pienamente l’ammirazione di Elena Croce per il modello inglese.
Secondo problema Viene da domandarsi chi potessero essere gli amici inglesi che Elena Croce allora frequentava e che avevano aiutato gli italiani su «problemi di fondo un po’ accantonati», problemi che le associazioni allora in essere non affrontavano, a partire da Italia Nostra che aveva un’altra missione. A pp. 198-199 della raccolta di scritti della Croce compaiono i nomi di Hubert Howard (della famiglia dei duchi di Norfolk) e di Lelia Caetani Howard, sua moglie, ultima erede della celebre famiglia romana, legati entrambi a un «patrimonio di beni storici e ambientali fra i più eminenti del Lazio: Ninfa, Sermoneta e il palazzo dell’Ammannati in via delle Botteghe Oscure».
Mi ha scritto Benedetta Craveri, figlia di Elena Croce: «Tra gli anglosassoni a cui fa riferimento la mamma mi sono ricordata di Giorgina Masson, autrice di una bella guida di Roma (1965) [...]. Poi c’era anche assai probabilmente Molton Gendel, a cui ora chiedo ragguagli». Mi auguro che questa inchiesta non s’interrompa.
Terzo problema. Come mai il FAI doveva essere creato a Milano e non a Roma e al difuori di Italia Nostra? Giulia Maria Crespi mi ha raccontato che nell’ambiente romano dell’Italia Nostra di allora non si sentiva bene accolta salvo che da Elena Croce, e ha poi aggiunto che a Italia Nostra un’esperienza sul modello del National Trust non interessava.
Insomma, i problemi di fondo abbandonati, di cui racconta Elena Croce, hanno cominciato ad essere affrontati finalmente dal FAI con la concretezza del modello britannico e dello spirito milanese, tramite la proprietà dei monumenti, la loro conservazione e la loro valorizzazione e gestione, le quali hanno consentito alla società civile di sperimentare le migliori pratiche per promuovere e conservare «la rappresentazione materiale e visibile della Patria», per dirla con Benedetto Croce.
Qualche tempo fa sono stato invitato a Pescasseroli, dove nel Palazzo Sipari si è tenuto un convegno sui parchi dell’Abruzzo. Non solo si deve a Croce, che in quella casa è nato, la prima legge sul paesaggio, ma a un suo nipote Erminio Sipari si deve la fondazione del Parco Nazionale d’Abruzzo. Ecco quindi la casa madre della salvaguardia del paesaggio italiano ed ecco membri di una classe dirigente quanto mai lungimiranti, di cui ambiremmo essere i fattivi eredi. La lezione è che pochissime persone possono fare tantissimo e che moltissime persone, sul loro esempio, possono risollevare anche una nazione caduta in ginocchio.
Ma torniamo alle origini del FAI, considerandole dal punto di vista della fondatrice come le racconta in Il mio filo rosso (2015). Giulia Maria Crespi desiderava compensare la bruttezza di una sua malattia e della perdita del «Corriere della Sera» con un’azione bellissima: creare nella zona sud di Milano un enorme bosco con prati aperti a tutti. Ne parla a Renato Bazzoni, che incontrava al Consiglio di Italia Nostra, il quale risponde che ci deve pensare. Poi le suggerisce di portare in Italia il famoso National Trust inglese (che allora contava 500mila iscritti) e di lasciar perdere il bosco.
Giulia Maria rimane interdetta: due mondi diversissimi quello inglese e quello italiano... Finché nel 1974, al bosco della Badia, Giulia Maria incontra Elena Croce, che ha conosciuto a Italia Nostra e nel suo «mitico» salotto, la quale le intima: «Basta tergiversare, tu devi fondare il National Trust in Italia, è un compito a cui non puoi sottrarti. È un dovere. Questo è quanto da te chiede il destino». Resa totale. L’indomito Bazzoni trova il nome: «Fondo Ambiente Italiano».
Pare di capire che Elena Croce fosse abbastanza sola a Roma nel suo interesse per il Trust, maturato grazie alla conferenza di Rathbone, all’amico inglese Howard e all’insistenza di Bazzoni, che del National Trust aveva diretta conoscenza. Dopo il fallimento della Fondazione «Italia da salvare», l’idea di imitare il Trust sarebbe caduta per sempre nel dimenticatoio se a Giulia Maria Crespi non fosse venuta in mente l’idea di creare un grande bosco a Milano. È stata quell’idea, contrastata da Bazzoni e dalla Croce, a riportare a galla il modello inglese da importare in Italia e di qui poi è nato il FAI. Fortuna ha voluto che Giulia Maria Crespi accettasse la proposta di Bazzoni e della Croce, ché senza di lei il FAI non sarebbe nato.
Il mio filo rosso prosegue con l’appassionante avventura che va dalla prima riunione del Consiglio nella soffitta di corso Venezia nell’aprile del 1975 – Giulia Maria Crespi, che generosamente sostiene anche economicamente la partenza, Renato Bazzoni, Franco Russoli e Alberto Predieri – fino ai giorni nostri: quarant’anni di storia. Il simbolo viene disegnato dal grande grafico milanese Pino Tovaglia (morto nel 1977). Arrivano le prime proprietà, a cominciare dal monastero di Torba (donato da Giulia Maria, come poi il restauro del castello di Masino); ma è soltanto una decina d’anni dopo, quando la principessa Orietta Doria offre San Fruttuoso (1983-1985) – si potrebbe aggiungere, con la mostra National Trust/FAI (1984-1985) – che Giulia Maria finalmente si convince della validità del FAI per l’Italia e ne difenderà sino in fondo il ruolo sussidiario, il quale la Costituzione vuole che le istituzioni favoriscano (art. 118).
Alla voce di Italia Nostra che protesta si era aggiunta la prassi del FAI che intraprende. Giulia Maria Crespi e Renato Bazzoni provenivano infatti da Italia Nostra, da una costola della quale è nato il FAI, ma essi operavano soprattutto nell’Italia Nostra di Milano, che dalla città industriale traeva concretezza e imprenditorialità. Mi ha scritto in proposito Marco Magnifico:
All’inizio degli anni Settanta la sezione di Milano di Italia Nostra era straordinariamente vivace ed era, in un certo senso, quello che oggi chiamiamo un «incubatore» di nuove idee e proposte. La sede di via Silvio Pellico brulicava di riunioni e sfornava progetti che tendevano ad allargare la consueta e brillante attività di «monitoraggio attivo», tipica dell’Associazione. Nel consiglio della Sede di Milano sedevano tra gli altri Renato Bazzoni, Giulia Maria Crespi, Pier Fausto Bagatti Valsecchi, Dadi Sanna e, dal 1974, anche il ventenne Marco Magnifico che, essendo studente di Storia dell’Arte, guidava i suoi primi viaggi culturali per i soci milanesi. Tutti e cinque entreranno nel FAI; i primi quattro fin dalla nascita, Magnifico dieci anni dopo. Bazzoni, Crespi e Bagatti erano anche membri del Consiglio Nazionale, ma era a Milano che davano il loro meglio. Renato Bazzoni aveva dato alla luce già da qualche anno la mitica mostra Italia da salvare e la rivedeva, continuamente aggiornandola; Giulia Maria Crespi gestiva con piglio militare il settore scuola della sezione, che organizzava corsi e visite destinate all’aggiornamento di centinaia d’insegnanti milanesi sui temi della protezione del patrimonio; tutti e due, poi, erano pesantemente coinvolti nell’avveniristico progetto di «Un bosco in città» che, guidato dal consigliere avvocato Pier Giuseppe Torrani, mirava a farsi dare in concessione dal Comune di Milano un’area verde abbandonata di oltre 100 ettari in via Novara per farne un grande bosco da destinare alle scuole e al tempo libero dei cittadini, oltreché un centro didattico che ha nella cascina San Romano il suo fulcro. Il progetto, avveniristico per l’Italia e ancor più per Italia Nostra, si realizzò nel 1974. Oggi, dopo oltre quarant’anni, il bosco in città è una realtà consolidata che dà lustro a Milano e il parco, con la piantumazione di migliaia di piante, la creazione di sentieri, laghetti e radure, è uno dei più belli e vasti della città ed è ancora un vanto della sezione milanese dell’Associazione.
Alla sezione di Milano l’originario ruolo di «voce civile» contro i danni perpetrati a monumenti e paesaggio non bastava più; la concretezza milanese chiedeva qualcosa di più e il «bosco in città» fu l’effetto straordinario di questa esigenza. È in questo «laboratorio», con questi attori e grazie a queste esperienze, che nasce e matura il FAI, che da allora sempre riconosce di essere «figlio» di questa Italia Nostra.
I «problemi di fondo rimasti accantonati» della Croce erano diventati per il FAI un fine statutario.
Il 9 gennaio del 1975 Elena Croce scriveva alla Crespi, cogliendo l’essenza della questione:
È difficile spiegare certi fatti puramente intuitivi, ma sono sempre stata convinta che il fare cominciando modestamente, individualmente, è l’unico esorcismo contro il «non fare» che è sempre stata la terribile legge di questi scorsi anni, e vuole continuare ancora a esserlo: e mai come in questo momento rompere questo incantesimo negativo è importante... Insomma dopo tanta polemica solo l’azione concreta a mio parere può rompere lo scetticismo generale. Non però la polemica. Non ti ho mai detto con quanta ammirazione abbia seguito le tue battaglie, e come ora sia divertente vedere come la gente si accorga in ritardo che l’energia individuale è un fatto piuttosto raro135.
L’incantesimo negativo, che alla polemica sostituisce l’azione concreta degli individui, si rompe pertanto prima del FAI, con la sorellina abortita «Italia da salvare», nata nel 1968. La svolta nella mentalità che al «non fare» e al protestare sostituisce prima di tutto il «fare» compie pertanto oramai mezzo secolo.
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Sono stato nominato presidente del FAI il 19 febbraio del 2013. Avevo lavorato fino ad allora nello Stato – prima nell’università, insegnando Archeologia classica, e poi nel ministero come presidente del Consiglio superiore. Lavorare per una Fondazione no profit rappresentava per me una novità. Ho accettato la proposta ricordando fini e opere delle due presidenti che mi hanno preceduto: la fondatrice Giulia Maria Crespi, presidente per 34 anni, e Ilaria Borletti Buitoni, presidente per tre anni, sapendo anche di potermi avvalere della migliore direzione che potessi immaginare, quella composta da Marco Magnifico, vicepresidente esecutivo scelto da Giulia Maria Crespi, e da Angelo Maramai, direttore generale scelto da Ilaria Borletti. Ricordo l’impressione che mi fece osservare dall’alto l’intera struttura al lavoro alla Cavallerizza ...