I. Una ricognizione dall’alto
Rivolta al passato dal ciglio del presente, avida di comprendere il perché del proprio tempo e delle cose umane nelle res gestae d’altri, anche la storia dell’esperienza cristiana, delle istituzioni e delle dottrine che ne emanano, è tenuta tesa da due forze contrapposte. Anch’essa, come ogni altra storia, ha sentito la sirena che voleva farla diventare giudice d’un tribunale tutto speciale, a lei intitolato: un tribunale tutto moderno che le consegnerebbe l’uomo, imputato del mancato bene e del male procurato, e che – proprio come accadeva a Dio nella teodicea, secondo Odo Marquard – non potrebbe che arrendersi ad assolverlo davanti all’abilità con cui egli sa appellarsi alla nequizia dei tempi, alla superficialità del suo intelletto, alla fragilità della sua ‘natura’ oppure al torcersi in bene di ciò che bene non fu. D’altro canto la storia della vita cristiana ha dovuto anche misurarsi con la richiesta di fungere da garante di una ideologia delle origini, di un mitico passato, a volte primitivo a volte concentrato in una più vicina stagione, al quale pretende di tornare sia chi invoca su quella base uno scatto riformatore sia chi impugna l’identità fra sé e un passato chiamato in causa per giustificare assetti di potere.
La storiografia europea e il posto del cristianesimo
Nella sua declinazione disciplinare tutta moderna di cui Reinhart Koselleck ha sviscerato le origini, la comprensione storico-critica di ciò che accade nel tempo a causa e all’interno dell’esperienza cristiana s’è collocata in molteplici modi nel paesaggio culturale europeo. Per capire storicamente ciò che i cristiani sono effettivamente stati, generazione dopo generazione, dentro una durata o uno spazio politico, con gli strumenti e i limiti propri di questo sapere critico, i sistemi di ricerca d’Occidente hanno prodotto modelli tra loro più distanti di quanto non siano i risultati di conoscenza ai quali hanno poi saputo giungere.
La grande cultura universitaria tedesca elabora già nella prima metà dell’Ottocento una risposta destinata a durare nel tempo: il bisogno di conoscenza sulla vita religiosa va affidato alla storia ‘della Chiesa’, che a partire dalle fonti, come ogni altra storia, conosce un oggetto. Ma tal oggetto d’indagine – la Chiesa, per l’appunto – la storiografia non lo identifica da sé: lo riceve dalla teologia. E a quest’ultima, attraverso la verificabile acribia delle proprie istituzioni confessionali, spetta il compito di perimetrare ciò che si deve studiare, con un metodo che non per questo si concede sconti o accomodamenti e la cui qualità è quella dei Merkle, dei Lortz, degli Jedin, dei Kretschmar.
La ricerca che parla francese imbocca una via diversa e la batte in fitto dialogo con la teologia rinnovata che fiorisce fra gli anni Trenta e gli anni Ottanta del Novecento: la storia ‘religiosa’ applica alla vita cristiana nel tempo i rigorosi principi di un metodo generale conscio delle proprie impotenze e lascia che l’oggetto si proponga da sé allo studioso che sa trovare – da Marc Bloch a Henri-Irénée Marrou lo scavo su questo punto non è parte infima del discorso – nel proprio mestiere un frammento di quell’alta lezione di libertà che viene dallo studio del passato. Su questa traccia si può andare molto oltre la storia delle istituzioni e arrivare, secondo il titolo di un celebre volume collettaneo curato da Jean Delumeau nel 1981, a ridosso della «storia vissuta del popolo cristiano», per applicare a una prospettiva d’autoevidente importanza la sistematicità un tempo riservata alla storia dei papi. E lo sviluppo diacronico del rapporto con il moderno, insegna uno storico del calibro di Émile Poulat, può essere accostato – espressione altrove incomprensibile o sospetta – en sociologue: guardando cioè al modo in cui gli orientamenti del magistero agiscono effettivamente dentro società che a un tale emittente attribuiscono autonomamente un valore. È un percorso che nel 2000 Roger Aubert, canonico e storico belga di prima grandezza su cui torneremo, sintetizza in una specie di dictum: come non esistono due matematiche, una cattolica e una agnostica, così non ci sono due storie; c’è invece un’unica ricerca di conoscenza che misura effetti, intenzioni – combattendo su un confine ondulato e comunque resistente allo sguardo critico – perché ciò che sta nei precordi della coscienza è inaccessibile.
La pragmatica della ricerca britannica e americana del secondo Novecento ha tagliato altrimenti la pietra grezza della nostra questione: dato che il cristianesimo fa parte del paesaggio storico reale delle epoche e delle esistenze, si dovrà fare i conti col cristianesimo ogni qual volta si vorrà ritrarre la grande scena di una epoca, come faranno Walter Ullmann o Henry Chadwick; e ogni qual volta ci si sforzerà di capire una vita al singolare, come faranno Roland Bainton o Peter Brown e via dicendo. Fare i conti col cristianesimo per ciò che esso è: con le sue dottrine, il suo diritto, le sue complessità e i conflitti fra i modi di rappresentarsi proprio e altrui, senza sconti. La specializzazione su oggetti così peculiari per linguaggio, forme, istituzioni, come quelli relativi alla tradizione cristiana sarà dunque non solo tollerata, ma valorizzata allo stesso modo in cui s’incrementa ogni specializzazione settoriale sulla diplomazia, l’economia, il genere, l’alimentazione, la numismatica, l’esercito e così via: giacché, senza i propri specialismi, la storia generale scivola fatalmente in quadri ideologici o in miniature manualistiche.
La peculiarità italiana
In questo panorama, che si potrebbe prolungare su altri ambiti culturali, la vicenda italiana ha qualcosa di peculiare. Dalle università del regno spariscono nel 1873 le facoltà di teologia che in qualche parte d’Italia erano state affidate alle autorità religiose durante l’unificazione: vengono travolte dalla legge Correnti del 26 gennaio di quell’anno, ma più profondamente dalla convergenza fra anticlericali e clericali che la accoglie. Gli uni convinti così di spuntare il detestato influsso della cultura ecclesiastica nel regno. Gli altri felici, in nome d’una cultura intransigente, di preservare da contaminazioni il clero, di cui già lamentano il calo quantitativo e qualitativo, e convinti di poterlo formare meglio nei propri seminari o nelle istituzioni romane divenute nel tempo pontificie.
Ma la storia di questi saperi storico-religiosi nella cultura italiana non finisce qui. Infatti nel 1931 non la ‘scristianizzazione’, che da decenni il magistero cattolico combatte con le armi della condanna, ma il papa in persona decide di tagliare con l’enciclica Deus scientiarum Dominus le facoltà teologiche delle regioni conciliari dell’Italia e ne lascia attive, fuori Roma, solo una a Milano e una a Napoli. Dal canto suo la cultura universitaria, che aveva letto la religiosità dentro la storia della ‘nazione’ e preparato la romanizzazione della fisionomia del cattolicesimo di cui s’impossesserà il fascismo, sigillerà presto le residue fessure: l’insegnamento di storia del cristianesimo di cui alla Sapienza era titolare Ernesto Buonaiuti, il prete scomunicato per modernismo, verrà emarginato dal fascismo, mentre tutto quel settore si troverà fagocitato dall’idealismo o dal gemellismo.
Resta così su piazza la retorica clericaleggiante che si vanta di usare la fede per stirare le troppe pieghe della storia ecclesiastica e ne elogia sorti se non magnifiche, comunque provvidenziali, svelta nel far raddrizzare al Padre Eterno tutto ciò che era solo difficile da spiegare o troppo variato per rientrare in una apologetica di bassa lega: una retorica, insomma, estranea alla grande tradizione dell’erudizione ecclesiastica che aveva passato e futuro – da Gaetano Moroni a Giovan Battista De Rossi, da Francesco Lanzoni ad Angelo Mercati, da Angelo Giuseppe Roncalli a Leone Tondelli – e il cui revival sarà il sogno non innocente d’un Giuseppe De Luca. Nelle università di Stato, frattanto, si forma una generazione nuova – quella dei Momigliano e dei Ruffini, dei Morghen e dei Cantimori, per intenderci – che affina il senso interiore della libertà studiando ciò che è religioso e si misura con l’insufficienza delle neutralità di un’ideologia positivista del sapere e con l’idea di una conoscenza della realtà per ‘enti’, specie per quella parte che va dal Risorgimento in poi. Nella storia generale, e in ispecie in quella che deve spiegare la parte avuta dai credenti protestanti o cattolici italiani nella formazione e negli inizi dello Stato unitario, prevalgono infatti visioni della rottura e nuovi provvidenzialismi antipapali: se ne adonta non qualche gesuita, ma il Karl Marx del 1851, irritato da quella borghesia mazziniana che «conosce soltanto le città con la loro aristocrazia liberale e i loro citoyens éclairés», mentre «i bisogni materiali della popolazione rurale italiana [...] sono naturalmente troppo triviali per i suoi celestiali manifesti cosmopolitici-neocattolici-ideologici».
La cornice concettuale
Su come chiamare la cosa di cui si vorrebbe parlare non c’è un consenso consapevole e meditato nell’Italia studiosa, che affida quei tempi così prossimi alla filosofia della storia, più che alla storia propriamente detta. La porzione di società e cultura, di visioni del mondo e conflitti, d’autorità e fedeli, d’istituzioni e stili, di mentalità e devozioni, di costume e pietà, di filosofie e dottrine, di politiche e partiti, di organizzazioni e associazioni che percorre le stagioni della vicenda nazionale, è volentieri detta ‘la Chiesa’, in qualche caso ‘il cristianesimo’, il cattolicesimo o ‘il cattolicismo’ (così si intitolerà l’edizione italiana del celebre lavoro di Henri De Lubac) o ancora (con un’espressione che varrebbe un lib...