La guerra di Mario
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La guerra di Mario

  1. 144 pagine
  2. Italian
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La guerra di Mario

Informazioni su questo libro

Fare il partigiano voleva dire salire in montagna, dormire all'addiaccio, mangiare poco e male, girare fra i monti con uno sten appeso alla spalla in attesa che arrivassero i tedeschi a spararti addosso. La storia di un ragazzo nato nel 1925, cresciuto nell'Italia fascista, che sceglie di ribellarsi e combattere per la libertà.

«Com'era la vita quando eri giovane?» Questa è la domanda che un ragazzo pone a Mario Mirri, uno dei più influenti storici italiani. È questa frase che fa tornare in vita, quasi magicamente, un mondo che abbiamo perduto, dove la civiltà contadina era ancora centrale, i figli tanti e i beni scarsi. I ricordi si mescolano all'analisi dello storico riuscendo a dare un senso più ampio alle esperienze di un singolo. Il piccolo Balilla si trova così a fare i conti con la scoperta di un padre che ascolta di nascosto Radio Londra o con l'improvvisa sparizione del compagno di classe ebreo. Ma è la guerra a dare una svolta. La 'pugnalata alle spalle' del regime fascista alla Francia spinge il giovane Mario, con altri compagni, ad aderire clandestinamente a Giustizia e Libertà e poi alla Resistenza. Questi anni, con le sofferenze, le torture subite, la perdita degli amici ma anche il contatto con 'il mondo degli uomini', saranno centrali nella formazione etica e politica sua e di una intera generazione.

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Informazioni

eBook ISBN
9788858133859
Argomento
Storia

L’esperienza partigiana

7. Che cosa faceva durante la guerra? – 8. Che cosa l’ha spinta a diventare partigiano? E dove operava il gruppo di cui faceva parte? – 9. Da partigiano la sua vita era in pericolo? – 10. Chi è la persona più interessante che ha incontrato da partigiano? – 11. È cambiato dopo l’esperienza partigiana? – 12. Quante persone facevano parte del suo gruppo partigiano? – 13. È mai stato arrestato? – 14. Cosa accadde durante la sua prigionia? – 15. La lotta partigiana ha lasciato conseguenze fisiche? – 16. Qual era l’atteggiamento della popolazione italiana rispetto alla guerra partigiana: la maggior parte della gente comune simpatizzava con i partigiani? – 17. Il fatto che gli Alleati bombardassero l’Italia ha creato dei problemi per lo schieramento antifascista? – 18. Può raccontarmi le cose più significative dell’ultimo mese di guerra?
7. La guerra, dichiarata da Mussolini il 10 giugno 1940, è durata fino all’armistizio firmato dal governo Badoglio (dopo la fine del fascismo e l’arresto di Mussolini il 25 luglio 1943) l’8 settembre 1943.
Io frequentavo il liceo classico, a Vicenza, in quei tre anni. Ero molto bravo: i primi della classe erano un mio compagno che superava tutti in italiano e storia dell’arte, una mia compagna che superava tutti in latino e greco, ed io che superavo tutti in filosofia e matematica (non c’era un primo della classe, eravamo in tre a pari merito). Ma ormai, oltre a fare il mio dovere di studente, sentivo sempre più urgente la necessità di chiarire le mie idee politiche e di fare tutto il possibile per combattere il governo fascista. Ho detto sopra che dall’inizio della guerra mi ero sentito antitedesco e che quando Mussolini decise di entrare in guerra a fianco della Germania nazista, il mio allarme crebbe al massimo: capivo che, in caso di vittoria, Germania nazista e Italia fascista avrebbero dominato insieme l’intera Europa, imponendo ovunque regimi autoritari, oppressivi e razzisti. Per prima cosa, dunque, cominciai a pensare, e a dire, sia pure con prudenza, parlando con i compagni, che la vittoria dei due paesi in quella guerra sarebbe stata un disastro per l’Europa.
Gli studenti, allora come anche oggi, avevano l’abitudine di uscire il pomeriggio, dopo aver fatto i compiti, ritrovandosi tutti insieme in qualche luogo: a Pisa, una volta, il Lungarno vicino al Ponte di Mezzo; allora, a Vicenza, all’incrocio delle due strade principali, davanti alla libreria più grande e fornita della città, e frequentata anche da qualche studente universitario. Due di questi, avendo intuito il mio atteggiamento nei confronti della guerra e dei governi nazista e fascista, strinsero con me una più stretta amicizia; prendemmo l’abitudine di frequentarci assiduamente, ora con l’uno ora con l’altro, passeggiando insieme per discutere di politica. Contrari alla guerra, pensavamo che con la sconfitta del nostro paese sarebbe caduto anche il fascismo e si sarebbe aperta la possibilità di ricostruire l’Italia in forme più ragionevoli.
Certamente, per prima cosa, pensavo che in quell’Italia futura occorresse godere di libertà: libertà di parola, per comunicare l’un l’altro, pubblicamente, ciascuno le proprie idee, e discutere pubblicamente fra cittadini, perché fossero poi essi, in base alle idee migliori emerse dalla discussione, a decidere che cosa doveva fare il governo (un governo che fosse espressione della volontà consapevole dei cittadini). Arrivai, insomma, a immaginare un sistema politico liberale e democratico. E tuttavia questo punto di vista non mi sembrò sufficiente. Avevo sempre conosciuto operai di fabbrica, avevo fatto amicizia con diversi di loro, e con loro avevo parlato dei loro problemi: non mi avevano mai detto di desiderare la libertà, non avrebbero saputo cosa farne. Erano preoccupati delle proprie condizioni economiche, di non riuscire spesso ad assicurare alle famiglie e ai figli condizioni di vita meno precarie. Era di maggiore benessere economico che avevano bisogno, di una politica governativa capace di aggredire i problemi sociali e di ottenere miglioramenti delle condizioni di vita non solo dei lavoratori ma di tutti gli appartenenti ai ceti più poveri. A loro interessava non tanto la libertà, quanto la giustizia sociale; condannavano le eccessive disuguaglianze del nostro paese e desideravano che si promuovesse una maggiore eguaglianza sociale.
Quei due studenti universitari, ai quali comunicavo via via queste mie riflessioni, concordavano su questa linea, sulla necessità non solo di libertà, ma anche di maggiore giustizia sociale; con l’uno e con l’altro ci si trovò sempre più in sintonia, tanto che (eravamo ancora alla mia prima liceo, nel 1940-41) mi confidarono con grande segretezza che la soluzione era già stata individuata: mi rivelarono di far parte, entrambi, di un movimento antifascista clandestino che si chiamava Movimento Liberalsocialista; era stato fondato da poco, nel 1939, e mi fecero leggere il loro programma. Mi trovai subito d’accordo e decisi di aderire anch’io. Mi indicarono anche un giovane professore che abitava in centro, Antonio Giuriolo (il capitano Toni, di cui parlerà Luigi Meneghello in I piccoli maestri), come l’organizzatore clandestino del Movimento Liberalsocialista, non solo a Vicenza, ma anche nel Veneto. Giuriolo era noto alla polizia fascista come antifascista, perché, dopo la laurea, aveva rifiutato di iscriversi al Partito Fascista e per questo non poteva insegnare nelle scuole di Stato; per fortuna i cattolici vicentini avevano aperto una piccola scuola privata per far studiare gli alunni bocciati al liceo e prepararli all’esame di maturità, e questa scuola accettò di affidare un po’ di ore di insegnamento anche a Giuriolo. In più, egli dava lezioni private a casa sua, ma era poca cosa perché non erano molte le famiglie che si fidavano di mandare i propri figli a casa di un professore molto bravo e molto colto, ma tenuto d’occhio dalla polizia, che si metteva a sorvegliare anche chiunque entrasse in contatto con lui.
Per questo noi aderenti al Movimento Liberalsocialista non si doveva entrare in contatto, per nessuna ragione, con Giuriolo; solo i due studenti universitari lo incontravano e gli parlavano di nascosto, non andando a casa sua ma fissando degli appuntamenti di sera, al buio, in qualche angolo remoto della città. Di quei due studenti, uno, Enrico Niccolini, teneva i contatti con Perugia, dove Aldo Capitini, uno dei primi organizzatori del Movimento Liberalsocialista, viveva appartato, da quando era stato allontanato dalla Scuola Normale di Pisa (di cui era il segretario) perché non aveva voluto iscriversi al Partito Fascista. L’altro, Licisco Magagnato (chiamato Franco in I piccoli maestri), teneva i contatti a Firenze con gli allievi di Calamandrei, Tristano Codignola ed Enzo Enriques Agnoletti, che dirigevano la casa editrice La Nuova Italia. Erano questi due studenti che portavano a Giuriolo i materiali (foglietti di propaganda, opuscoli stampati clandestinamente) da diffondere a Vicenza e discutevano con lui su come usarli e farli circolare per mezzo di noi aderenti al Movimento Liberalsocialista. A questo punto, il primo problema era quello di vedere cosa si poteva fare. Nacque di qui la mia idea di proporre a un gruppo di miei compagni di classe di fare, ogni tanto, gite in bicicletta per uscire dalla città e andare in campagna; quando si era lontani, in un luogo solitario, ci si fermava in un prato, sedendoci per terra, in circolo: io riferivo di un libro che avevo letto, da cui ricavavo idee di libertà e giustizia sociale, e se ne discuteva fra compagni. Era un’efficace propaganda antifascista e liberalsocialista.
Passavo, intanto, in seconda liceo (1941-42). Agli inizi del 1942 arrivò, sempre per via clandestina, la notizia che era stato costituito un vero e proprio partito, il Partito d’Azione, che aveva fatto suo il motto «Giustizia e Libertà» e i cui dirigenti chiedevano la confluenza degli aderenti al Movimento Liberalsocialista. Noi liberalsocialisti vicentini ne discutemmo un po’; Giuriolo era il più incerto di tutti, perché aveva l’impressione che il nuovo partito non valorizzasse abbastanza quell’orientamento socialista che era proprio dei liberalsocialisti. Alla fine decidemmo di aderire, rimanendo però impegnati fra noi, nell’idea che l’ideale della giustizia sociale (il contenuto socialista del liberalsocialismo) non dovesse mai essere sottovalutato pur dentro il principio della libertà: ordinamenti liberali e democratici dovevano essere intesi non come sufficienti in sé, ma solo come il contenitore di iniziative politiche concrete, tendenti via via a diminuire le disuguaglianze e ad incrementare la giustizia sociale.
Intanto, continuavo a pensare che occorreva fare qualcosa di più concreto; nella primavera del 1942 mi parve possibile una qualche iniziativa in classe. Bisogna tener presente un particolare: nel 1941 Hitler, all’improvviso, aveva attaccato l’Unione Sovietica; i russi, in rotta, continuavano a ritirarsi e i tedeschi erano dilagati in tutto il territorio sovietico, raggiungendo durante l’inverno le città di Leningrado, Mosca, Stalingrado e circondandole. Nel freddissimo inverno russo, i sovietici riuscirono a resistere in queste loro città; intanto, gli Stati Uniti di Roosevelt decidevano di entrare in guerra anch’essi, proclamando la necessità di combattere contro i nazisti e i fascisti per riportare libertà e democrazia «in tutto il mondo» e anche, per quanto possibile, la «libertà dal bisogno» (che corrispondeva un po’ alla nostra idea di giustizia sociale).
Contemporaneamente, in quell’inverno russo terribilmente freddo, coperto di neve, i sovietici erano passati all’offensiva sotto Mosca e avevano ottenuto un successo, facendo indietreggiare i tedeschi ed allontanando così l’assedio dalla loro città. L’intervento in guerra degli Stati Uniti indusse molti a pensare che fosse iniziata una inversione di tendenza nella guerra; non era facile immaginare che gli Stati Uniti potessero perdere la guerra con la Germania, mentre il successo della controffensiva sovietica sotto Mosca lasciava sperare che la fase della continua avanzata tedesca su tutti i fronti fosse ormai terminata. Cominciò a diffondersi anche in Italia la sensazione che nazisti e fascisti fossero destinati, ormai, a perdere la guerra. Fu allora che alcuni antifascisti decisero che era l’ora di scendere in campo e organizzarsi. Come ho detto, dalla primavera del 1942 si cominciò a parlare del Partito d’Azione (fu il primo partito a organizzarsi; venne più tardi, verso il 1943, la Democrazia Cristiana e un primo gruppo socialista, ma il Partito Socialista riuscirono a costituirlo solo nell’estate del 1943).
Anche in virtù di questo clima, pensai che si potesse tentare una manifestazione di tutta la classe. Ogni anno il 21 aprile, «Natale di Roma» (festa introdotta dai fascisti, dopo aver abolito l’ormai tradizionale festività del 1° maggio), in tutte le classi di tutte le scuole d’Italia gli studenti erano chiamati a svolgere un tema su un argomento, unico per tutte le scuole d’Italia, comunicato dal ministero. Dissi ai miei compagni se non erano stufi di dover fare ogni anno quel tema, tanto più che non ci veniva richiesto un discorso critico, con ragionamenti a favore o contro, ma si pretendeva da noi solo un seguito di frasi retoriche sulla romanità, sui destini imperiali del nostro paese, sul fascismo che aveva riportato l’Italia a compiere finalmente il suo destino, con la fondazione dell’Impero; e proposi, per il giorno del 21 aprile, di non andare a scuola per non dover svolgere quel tema. Detti l’appuntamento ai miei compagni all’inizio dello stradone che porta a Monte Berico per salire di lì fino in cima al colle, al Santuario, e concederci una bella passeggiata a piedi in una soleggiata mattina di primavera.
Ci trovammo ai piedi di Monte Berico, quella mattina del 21 aprile, in un buon numero di maschi della mia classe. Di quelli che non erano venuti, solo tre – di famiglia fascista e fascisti convinti essi stessi – si erano recati a scuola (uno era Renato Casarotto, il più bravo in italiano e storia dell’arte). Altri avevano deciso di rimanere a casa, dandosi malati. Con i maschi, dunque, era stato un successo; e le ragazze? All’appuntamento ai piedi del monte ne vennero solo due, le più spregiudicate: una era l’Antonia, che in classe era seduta sul banco davanti al nostro, mio e di Enrico Melen (l’Antonia ed Enrico sono anch’essi personaggi di I piccoli maestri; l’Antonia è la Simonetta, la ragazza di Meneghello). Tutte le altre erano andate disciplinatamente a scuola; a quei tempi era inimmaginabile che delle ragazze, invece di recarsi a scuola, decidessero di fare una passeggiata insieme ai compagni maschi (quelle che riuscirono a parlare con i genitori di questo strano appuntamento, convincendoli a tenerle a casa e giustificarle poi per malattia, furono pochissime). Le ragazze, dunque, andarono a scuola; ma quando fu loro dettato il tema da svolgere quell’anno, rimasero tutte lì, ferme, braccia conserte, e una volta trascorso il tempo per scrivere il componimento consegnarono il foglio bianco! Bravissime! Perché noi maschi, che eravamo risultati assenti, ci facemmo fare dai nostri genitori la giustificazione, che il preside accettò (anche se aveva ben capito il senso di quella manifestazione), ma le ragazze no, non avevano giustificazione, e in pagella presero un brutto voto in condotta (proprio loro che, tradizionalmente, erano le più disciplinate a scuola e avevano sempre il massimo in condotta, cioè 10).
Le autorità fasciste si preoccuparono molto di questa inquietudine che si era diffusa nei licei, anche se non potevano fare molto, perché il problema riguardava il preside e i professori (ma come si è visto, preside e professori avevano cercato di chiudere un occhio). Le autorità decisero, allora, di invitare gli studenti del nostro liceo ad una discussione, un pomeriggio, nella sede del Partito Fascista. Era la prima volta che i fascisti si mostravano aperti al confronto, sicché andammo in molti (al solito, tutti maschi) della mia classe (seconda liceo); con noi venne anche un buon numero dei ragazzi della terza, con i quali avevamo stretto forti legami di amicizia (tra questi, primo di tutti, Bene Galla, Bene in I piccoli maestri). In una sala della sede del Partito Fascista ci fu presentato Gigi Meneghello, che aveva vinto qualche tempo prima i Littoriali per la sezione Dottrina del Fascismo, e quel giorno, come Littore, si assunse il compito di leggere e commentare il testo di La Dottrina del Fascismo (come è noto, la prima parte era stata scritta, ma non firmata, da Giovanni Gentile, e la seconda parte da Benito Mussolini; stampata in un agile opuscolo, portava come autore dell’intero testo Benito Mussolini).
Meneghello leggeva e commentava; non era una discussione, e noi cominciammo a protestare, e poi a fare domande a cui Meneghello rispondeva sempre con molta rigidità: soprattutto chiedevamo spiegazione dei motti tipici del fascismo, che i fascisti scrivevano in grande, anche su molti muri delle case («Credere, obbedire, combattere»; «È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende»; «Libro e moschetto», e così via). Ad un certo punto io chiesi spiegazione del motto: «Il Duce ha sempre ragione», che mi pareva inaccettabile. Quando Meneghello cominciò a rispondere per dimostrare che, invece, anche questo motto andava bene, io, arrabbiato, lo interruppi alzando la voce: «Ma neppure il Papa ha sempre ragione, perché ha ragione solo nei casi in cui parla ex cathedra». Immediatamente, dietro di me, Boso Roi, della terza liceo (la famiglia Roi era un’antica famiglia nobile vicentina, con cui era stato imparentato anche Fogazzaro), si alzò in piedi e disse forte: «Andiamo via!». E si avviò all’uscita intonando La Marsigliese; e tutti noi lo seguimmo, in un piccolo corteo, cantando «Allons enfants de la Patrie...». Da quel giorno prendemmo l’abitudine, quando uscivamo nel tardo pomeriggio per ritrovarci in centro, di passare in mezzo alla gente che passeggiava sul marciapiede fischiettando sommessamente, in modo che sentissero, l’inno nazionale francese.
Di lì a poco, un piccolo gruppo di noi decise di prendere una iniziativa ancora più clamorosa: la sera del 9 giugno 1942 decidemmo di uscire sul tardi, al buio (nonostante il coprifuoco), divisi in due squadre (Licisco Magagnato, Francesco Ferrari ed io, l’una; Bene Galla, Enrico Melen e mio fratello Corrado, di appena quindici anni, l’altra); con barattoli di vernice nera e pennello, la nostra, barattoli di inchiostro rosso e pennello, l’altra, riuscimmo a scrivere sui muri di molte case, soprattutto delle strade che portavano alle scuole e sui muri di cinta delle fabbriche in periferia, «ΛΛ la guerra». Così, la mattina del 10 giugno, anniversario del discorso con cui Mussolini aveva proclamato l’entrata in guerra, gli studenti che andavano a scuola, come gli operai che arrivavano alle fabbriche per presentarsi al lavoro, poterono leggere sui muri questa bella scritta! Le autorità inviarono subito una squadra di imbianchini, che entro la mattinata fece sparire tutto; ma nel frattempo in molti le avevano lette e lo scandalo era scoppiato.
Intanto, fra l’estate e l’autunno del 1942, iniziarono ad arrivare anche da noi, a Vicenza, fogli, foglietti, manifestini a stampa del Partito d’Azione (c’era, ogni tanto, qualcuno che arrivava clandestinamente da Milano per portarci un po’ di questi materiali); e così cominciammo ad uscire la sera tardi al buio, sempre sfidando il coprifuoco, per infilare questi fogli e foglietti nella buca delle lettere delle case o anche facendoli passare sotto la porta. Ma l’iniziativa più importante la prendemmo nella primavera del 1943: va detto che dall’autunno del 1940 al liceo non andavamo più, il sabato, in divisa da Avanguardisti; il nostro preside si accontentava che indossassimo la camicia nera ben visibile sotto la giacca (chiaro segno che, con la guerra, il consenso al regime andava diminuendo e anche presidi e professori non pretendevano più grandi manifestazioni di fedeltà). Enrico Melen ed io, ad un certo punto, proponemmo di andare a scuola il sabato vestiti come gli altri giorni, senza mettere la camicia nera sotto la giacca; e furono molti i nostri compagni (la maggioranza dei maschi) che aderirono al nostro invito. Scoppiò lo scandalo: fummo convocati in presidenza. Il preside era il professor Mazzocco, di greco e latino, un iracondo; era stato ferito al cranio nella Prima guerra mondiale e pertanto portava una calotta d’argento che sostituiva una parte delle ossa craniche; squadrista della prima ora e tuttora fascista rigido; ce l’aveva in generale con gli studenti contro i quali inveiva continuamente, urlando: «schiene sottratte al sano lavoro dei campi». Quel giorno ci investì accusandoci di essere «bolscevichi». A sentirci chiamare così, ci sentimmo offesi ed Enrico ebbe il coraggio di rispondere: il preside poteva dire contro di noi tutto quello che credeva, ma, per favore, non ci chiamasse «bolscevichi», respingevamo quell’accusa. In ogni caso, a parte quella sfuriata, quel nostro gesto non ebbe conseguenze: il consiglio dei professori, cui competeva prendere eventuali provvedimenti disciplinari, non si accorse di quello che era successo, o meglio, fece finta di non essersene accorto (tutti ormai capivano che la guerra era persa e il destino del fascismo era segnato: gli eserciti tedeschi, ad est, erano in rotta davanti all’esercito sovietico che avanzava rapidamente, e sulle coste del Mediterraneo inglesi e americani stavano ricacciando le truppe italiane che si stavano ritirando verso la Tunisia).
Era, dunque, la primavera del 1943, quando il segretario provinciale del Partito d’Azione, il professor Dal Pra (mio insegnante di storia e filosofia), decise di iniziare a far stampare un giornale del partito, intitolandolo «Italia libera». Trovò uno stampatore coraggioso, a Sandrigo (un comune della provincia di Vicenza), che si prestò a stampare clandestinamente questo giornale (di quattro pagine); per sfuggire ai controlli della polizia decise di stampare di notte, con l’accordo che la mattina presto, prima dell’apertura dell’officina e dell’inizio dell’attività lavorativa regolare, si provvedesse a ritirare tutte le copie stampate in modo che non ne rimanesse traccia in officina. Toccò a Bruno Magagnato (il fratello di Licisco) e a me partire da Vicenza in bicicletta prestissimo, alle sei, appena finito il coprifuoco, ciascuno con una grossa borsa fissata alla canna della bicicletta. Arrivavamo entro le sette a Sandrigo, e lo stampatore ci riempiva quelle cartelle di pacchi di «Italia libera»; con queste in canna, Bruno ed io tornavamo pedalando rapidamente a Vicenza, con la speranza di non...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. La guerra di Mario
  3. La vita prima e dopo il fascismo
  4. L’esperienza partigiana
  5. Dopo la guerra
  6. Conclusione