Il Novecento
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Il Novecento

Un'introduzione

Massimo L. Salvadori

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  1. 190 pagine
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Il Novecento

Un'introduzione

Massimo L. Salvadori

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Un piccolo breviario laico per gli umani del XXI secolo. Angelo d'Orsi, "La Stampa"Dall'esplosione dei conflitti imperialistici all'età della globalizzazione, i nodi problematici del secolo scorso con le sue ambiguità e con le alternative che ha aperto all'uomo.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858118672
Argomento
History

II. La crisi della centralità dell’Europa, le guerre mondiali e la redistribuzione del potere mondiale

Che tra i grandi elementi caratterizzanti il Novecento fosse da porsi in primo piano la crisi della centralità europea e la redistribuzione del potere mondiale, lo ha colto ed espresso assai bene, tra gli altri, lo storico olandese Jan Romein, il quale ebbe a indicare questo periodo come, secondo il titolo dato a una sua opera assai nota, Il secolo dell’Asia, nel corso del quale si compì prima il «risveglio» e poi la rinascita del maggiore dei continenti3: un risveglio e una rinascita diretti contro la dominazione europea. Dall’inizio del nostro secolo egli, non a caso, prese le mosse per la sua opera storica, in quanto in Asia «il processo di nazionalizzazione e di ammodernamento ha avuto effettivamente inizio intorno al 1900»4; con la conseguenza che un cinquantennio dopo l’Asia aveva ritrovato «se stessa» e l’Occidente fu indotto a cominciare «a capire che l’Europa e l’America, nonostante la loro attuale grandezza e la tradizione di uno splendido passato, non sono più l’unico esempio, l’unico metro della ‘civiltà’»5.
Se è stato il secolo che ha visto l’Asia riacquistare il controllo del proprio destino, il Novecento è stato altresì quello che ha visto la fine del colonialismo in Africa. Qui quegli «imperi politici», che – scrive uno degli studiosi più insigni della storia africana, John D. Fage – erano stati «tanto orgogliosamente e fiduciosamente proclamati [...] nel tardo diciannovesimo secolo e agli inizi del ventesimo, come estensioni inevitabili e permanenti della civiltà europea», andarono incontro alla loro crisi irreversibile negli anni Sessanta e al crollo definitivo negli anni Settanta6. Il XX secolo è stato, inoltre, l’epoca nella quale, se per un verso si è determinato un drastico cambiamento nei rapporti tra l’Europa e il mondo da quella dominato fin dal Cinquecento, per l’altro si è compiuto un altrettanto drastico cambiamento all’interno del mondo occidentale, con l’impetuosa ascesa, a partire proprio dall’inizio del periodo da cui quest’opera prende il suo avvio, degli Stati Uniti, giunti ad affermare il loro primato economico mondiale, l’egemonia sull’America Latina e, per effetto della seconda guerra mondiale, anche il primato militare, divenuto incontrastato dopo la fine dell’Unione Sovietica.
Epoca, il Novecento, del crollo di secolari imperi, delle due guerre mondiali, di grandi rivoluzioni – le maggiori delle quali determinarono la formazione dell’Unione Sovietica e del suo impero, crollati tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi dei Novanta, e della Cina rossa –, della travolgente vicenda dei regimi fascista e nazionalsocialista, delle lotte di liberazione coloniale. Grandiosi fenomeni che hanno radicalmente mutato il volto del mondo, provocando una profonda redistribuzione del potere su scala planetaria e il sorgere di nuove forme di governo, tra le quali, per novità e portata dei loro effetti, si collocarono i totalitarismi.
Nel corso della prima metà del secolo i periodi cruciali in cui ebbero a maturare rispettivamente la crisi, il collasso e il crollo della centralità europea quale consolidatasi nel XIX secolo furono essenzialmente i seguenti: quello tra il 1898-1905 e il 1917-18; quello tra il 1917-18 e il 1939-41; quello, infine, del secondo conflitto mondiale.
La sfida alla centralità dell’Europa ebbe inizio a cavallo tra il XIX e il XX secolo, quando l’apparenza, e non solo l’apparenza, giocava ancora tutta a suo favore. Il Vecchio Continente, infatti, manteneva complessivamente una potenza industriale e militare senza pari. Ciò nondimeno, la sfida era ormai in atto. Essa venne portata, pressoché contemporaneamente, a Occidente dagli Stati Uniti e a Oriente dal Giappone; e fu sia economica sia attinente ai rapporti di forza sul piano internazionale.
Intorno al 1900 gli Stati Uniti, pur restando un paese prevalentemente agrario, non solo diventarono la maggiore potenza industriale del mondo, ma assursero a patria trionfante del capitalismo, rinnovando a proprio favore il mito che era stato dell’Inghilterra di terra d’avanguardia nel campo della tecnologia e dell’imprenditorialità innovativa.
Di tutti i cambiamenti che si stavano verificando negli equilibri del potere mondiale tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo secolo – scrive Paul Kennedy –, non c’è dubbio che il più determinante per il futuro fosse la crescita degli Stati Uniti. [...] Gli Stati Uniti parevano avere tutti i vantaggi economici che alcune delle altre potenze possedevano in parte, ma nessuno dei loro svantaggi7.
Questa potenza economica in crescita impetuosa si espresse significativamente, in quello stesso periodo, in una nuova volontà degli statunitensi di intervenire in prima persona nei conflitti interimperialistici. Il che li portò a dare l’assalto con violenza e determinazione al traballante impero spagnolo con la guerra del 1898, che espulse quella che era stata la prima grande potenza coloniale europea da Cuba, da Portorico e dalle Filippine. E subito dopo, nel 1899, gli Stati Uniti con le note dette della «Porta aperta» rivendicarono di fronte alle potenze europee i propri diritti alla penetrazione commerciale in Cina; politica concretamente affermata con l’intervento militare contro i boxers, condotto nel 1900 a fianco delle potenze europee.
Poco dopo che gli Stati Uniti avevano inferto un colpo mortale alla residuale potenza coloniale spagnola, il Giappone, che da circa un trentennio aveva iniziato la propria modernizzazione a partire dalle grandi riforme dell’era Meiji, ne vibrò uno altrettanto significativo ma assai più clamoroso alla Russia zarista nel corso della guerra del 1904-1905. I principali effetti della assolutamente imprevista sconfitta russa furono quattro: il primo una modificazione profonda nei rapporti di forza nell’Asia sud-orientale; il secondo la crisi del regime zarista, che si manifestò clamorosamente con lo scoppio della prima di quelle rivoluzioni russe che avrebbero portato nel 1917 al crollo dell’impero con conseguenze enormi sul piano mondiale; il terzo, l’aver impresso una potentissima accelerazione al «risveglio dell’Asia» e ai nazionalismi antieuropei; il quarto, in nessun modo trascurabile, l’aver fatto crollare «miseramente» – come ebbe a notare allora un acuto osservatore italiano, Napoleone Colajanni – «la teoria, o meglio il romanzo scientifico» costituito da quell’«antropo-sociologia» razzistica che voleva la superiorità imbattibile dei bianchi8. Questi aspetti sono stati così efficacemente sottolineati da John Halliday:
La vittoria accrebbe enormemente il prestigio del Giappone in Asia. Era la prima volta nei secoli che un paese non europeo aveva battuto l’esercito di una potenza imperialista. Se la rivoluzione russa del 1905 ebbe in Giappone conseguenze politiche abbastanza scarse, la combinazione di questa rivoluzione (la lotta contro l’autocrazia) e della vittoria giapponese (l’Asia sconfigge l’Europa) ebbe effetti enormi su tutto il Terzo Mondo, dove i due aspetti si fusero politicamente e psicologicamente9.
Quelle americana e giapponese furono sfide alla centralità europea venute dall’esterno. Ma sfide della medesima importanza agli equilibri interni del Vecchio Continente, tali da avere infine implicazioni altrettanto dirompenti sulla sua capacità complessiva di mantenere il predominio mondiale, giunsero dal seno stesso dell’Europa. Si trattò dell’«assalto» portato dalla Germania – e cominciato proprio all’inizio del secolo – alle posizioni di potere di Inghilterra e Francia; delle diverse ma egualmente mortali crisi interne dell’impero zarista, minato dalla rivoluzione sociale e nazionale, dell’impero asburgico, sempre più incapace di far fronte alle tensioni tra le nazionalità, e dell’impero ottomano, impotente a fronteggiare il compito di mantenere il dominio sui suoi immensi e compositi territori. L’Europa si presentava nel primo decennio del Novecento come una vera e propria polveriera, che, non a caso, esplose nel corso della prima guerra mondiale sotto il peso congiunto dei contrasti interimperialistici, dei conflitti sociali e delle rivendicazioni rivoluzionarie vuoi delle classi vuoi delle nazionalità che si sentivano oppresse.
L’«assalto al potere mondiale» messo in atto dalla Germania guglielmina fece da miccia alla grande esplosione. Esso, diretto principalmente contro l’Inghilterra, fulcro delle alleanze antigermaniche, si diresse del pari contro la Francia e il decadente impero russo. Alla base vi fu un elemento che doveva costituire una delle chiavi fondamentali della storia europea e mondiale della prima metà del secolo: il fatto che – come ha scritto David S. Landes – in Europa «il primato industriale passò nei decenni finali del XIX secolo dall’Inghilterra alla Germania». Un aspetto – prosegue – «che interessa non solo allo studioso dello sviluppo economico, ma allo storico generale che voglia comprendere il corso della politica internazionale dopo il 1870»: infatti
la rapida espansione industriale della Germania unificata fu l’evento più importante del cinquantennio che precedette la prima guerra mondiale: più importante anche della crescita paragonabile degli Stati Uniti, per il semplice fatto che la Germania era coinvolta nell’intreccio del sistema di potenza europeo, e in questo periodo le sorti del mondo erano nelle mani dell’Europa10.
La Germania che all’inizio del secolo prese a contrastare decisamente il potere della Gran Bretagna e, in subordine, quello di Francia e Russia, presentava una peculiarità straordinaria e unica nel panorama europeo e con possibili analogie solo con il Giappone fuori d’Europa: quella di combinare un’accelerata modernizzazione economica capitalistico-borghese con uno Stato saldamente in mano al blocco dominante formato da monarchia-aristocrazia-alta burocrazia-casta militare, le quali controllavano, subordinandole ai loro disegni strategici, sia la borghesia sia le masse lavoratrici. Industrialismo, autoritarismo politico, militarismo formavano una ferrea alleanza. «Questo rapporto tra economia e politica – sottolinea Fritz Fischer – divenne ancora più stretto all’inizio del Novecento»11. La Germania inaugurava il secolo, dunque, animata da uno straordinario dinamismo, cementato da uno sviluppo economico accelerato e dalla solidità del più forte apparato statale e militare del mondo, che era caratterizzato nella sua struttura dagli effetti prodotti dal fallimento storico subito dal liberalismo in seguito alla vittoria della linea di Bismarck. Un aspetto, questo, che meglio di ogni altro aveva messo in luce quel geniale studioso che fu l’americano Thorstein Veblen. Il quale, nel suo studio del 1915 La Germania imperiale e la rivoluzione industriale, ha osservato che da un lato quel paese aveva «conservato da un recente e arretrato passato uno stato di tipo dinastico, insieme ad un modello di istituzioni particolari e ad una mentalità popolare adatti ad un controllo coercitivo, centralizzato ed irresponsabile e al perseguimento del dominio dinastico» e dall’altro «la società tedesca unita» aveva assorbito «dai suoi vicini (industrialmente) più progrediti lo stadio più recente e altamente efficiente della tecnica – del tutto discordante dal suo modello istituzionale ma altamente produttivo, e capace pertanto di offrire un largo margine a disposizione per i fini dello stato dinastico»12.
Si può dire che questa impronta originale della struttura della Germania guglielmina abbia fatto sentire i suoi effetti, attraverso potenti ondate sussultorie e profondissimi mutamenti socio-politici, dal periodo iniziale dell’assalto tedesco al potere mondiale ai primi del Novecento fino al suo definitivo fallimento nel 1945.
Mentre nel primo decennio del secolo la Germania appariva come il paese in cui la via non «liberal-borghese» alla modernizzazione otteneva un successo che non è retorico definire strepitoso, in Russia le contraddizioni generate da una modernizzazione statalistico-burocratico-autoritaria finirono per determinare un totale collasso del sistema interno, le cui ripercussioni si fecero sentire su scala enorme in Europa e nel mondo.
L’impero zarista, investito tra Ottocento e Novecento dalla quarta grande ondata di industrializzazione (la stessa che investì anche Italia e Giappone), fece rapidi progressi dilatando notevolmente l’area delle comunicazioni e la produzione industriale, che intorno al 1900 occupava circa 2 milioni e mezzo di operai. Ma la modernizzazione ebbe quale conseguenza non già di dar maggior forza al sistema sociale e politico, bensì di sottoporlo a tensioni ingovernabili destinate a farlo rapidamente esplodere. L’industrializzazione era intensa, ma pur sempre limitata; e si inseriva in una campagna di gran lunga dominante e complessivamente arretratissima. Il capitale era in prevalenza statale o straniero, e la borghesia imprenditoriale nazionale molto debole. La questione agraria e la questione operaia, ciascuna con le sue specificità, premevano irrisolte e minacciose, senza che il potere zarista e le classi alte mostrassero alcuna capacità e neppure volontà di farvi fronte, anche perché ritenevano che un corso riformistico avrebbe decisamente...

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