La mutazione antiegualitaria
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La mutazione antiegualitaria

Intervista sullo stato della democrazia

  1. 176 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La mutazione antiegualitaria

Intervista sullo stato della democrazia

Informazioni su questo libro

La nostra democrazia sta subendo un processo di mutazione molecolare di cui non riusciamo ancora a cogliere la direzione. Nel suo aspetto più visibile la mutazione è politica ed economica. Riguarda la composizione sociale della cittadinanza, il rapporto tra le classi e il governo dell'economia pubblica e si manifesta come una mutazione in senso antiegualitario. Nel suo aspetto meno visibile la mutazione è culturale e ideale e si presenta come appropriazione identitaria della libertà e dell'eguaglianza dei diritti civili. Se volgiamo poi lo sguardo alla sfera della vita privata, ai cambiamenti intellettuali, sociali e politici, scopriamo che esiste una maggiore distanza tra le persone in relazione alle opportunità che hanno di acquisire beni effettivi e simbolici.Siamo forse alla vigilia di un cambiamento epocale dei paradigmi sociali e politici?

Domande frequenti

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Informazioni

III. Il declino dell’universalismo

D. Lei colloca la grande mutazione nel quadro del declino dell’universalismo. L’idea che gli esseri umani, per il fatto stesso di condividere il medesimo destino, siano accomunati nella stessa condizione, risale all’antichità. Se ne trovano tracce anche in Cicerone. Può aiutarci a ripercorrere il cammino dell’universalismo nella filosofia occidentale?
R. L’universalismo come filosofia morale ha un’origine antica, ellenistica e cristiana. Nella Republica Cicerone parla di una natura umana dotata di una comune capacità di formulare giudizi morali e comprendere il senso di giustizia. Nel Discorso della Montagna, il sermone pronunciato da Gesù davanti ai suoi discepoli e alla folla, si parla di una comune condizione umana di sofferenza, sostegno e perdono: sentimenti naturali che ci avvicinano a chi è distante da noi, dal nostro mondo, dai nostri affetti e interessi. Nella filosofia umanistica e poi moderna queste idee convergono nell’immagine della società come concordia-discordia, una visione che postula, al di là delle differenze, una comune simpatia tra gli esseri umani e tutte le creature.
Nella tradizione ellenistica, stoica ed epicurea, che ispira l’umanesimo e, successivamente, la filosofia dei moralisti francesi seicenteschi, da Blaise Pascal a Montaigne, troviamo una concezione del mondo umano che vive di una doppia natura: quella universale, che corrisponde alla capacità di sentimenti primari e di formulazione di giudizi morali, e quella particolare, legata al mondo di credenze, costumi e istituzioni che le società creano e che la permanenza nel tempo fa sembrare naturali.
Questa visione universalista trova una sistemazione compiuta nel pensiero illuminista. Gli scritti di David Hume, Adam Smith, Jean-Jacques Rousseau e Immanuel Kant, o dello stesso «conservatore» Edmund Burke, ci parlano dell’umanità come una specie che – o per sentire naturale, o perché dotata di categorie e schemi di ragionamento che strutturano le inferenze e trascendono le specifiche conoscenze – è in grado di comunicare nonostante le differenze profonde che il contesto storico e culturale ha sedimentato.
Non è necessario interpretare l’universalismo come un comando morale che parla il linguaggio del dovere astratto. Lo si può intendere come un veicolo per la comunicazione: un sentire condiviso che consente di capirci anche se non comprendiamo tutti i linguaggi e non conosciamo tutte le culture. In Per una pace perpetua Kant ha dato a questa tradizione di pensiero una coraggiosa traduzione giuridica e morale che ha mantenuto intatta la sua rilevanza.
D. Giustificando la libertà individuale e la sua realizzazione nello stato di diritto?
R. Sì. Dall’idea della doppia natura umana, Kant giunge al riconoscimento della nostra propensione a vivere in società e nello stesso tempo a trascenderla, sia quando aspiriamo alla formazione della nostra autonomia morale, sia quando valichiamo per le ragioni più disparate i confini dello stato e della nostra cultura. Questa tensione positiva tra sociale e individuale trova una riflessione nell’idea di diritto cosmopolitico: una prerogativa di libertà nella sicurezza della vita e del rispetto della persona che Kant assegna a ogni individuo e che gli stati costituzionali, egli sosteneva, devono riconoscere e rispettare.
Nell’idea di diritto cosmopolitico troviamo riflessa la nostra condizione universale di individui che devono operare e creare il loro mondo, cosa che può voler dire viaggiare o spostarsi; e però anche di individui che operano e ricercano crescendo in culture diverse e luoghi differenti. Da questa condizione può sorgere il rischio di discriminazione. E dunque il diritto cosmopolitico non protegge individui astratti, ma persone che sono concretamente diverse: e anche «visibilmente» diverse e straniere.
Proclamando la priorità dei diritti individuali, il cosmopolitismo ha la sua sede più naturale nella sfera della giustizia; aspira ad assoggettare la politica alla morale e al diritto attraverso la trasformazione del potere politico da uso arbitrario della forza al suo uso legittimo attraverso la legge. Gli arbitri naturali sono, in questo contesto, le corti di giustizia, piuttosto che i parlamenti o i governi. Secondo Kant, i diritti civili cosmopolitici non appartengono alla sfera del bene e del potere. Non sono oggetto di filantropia, dunque, e riguardano la politica nella misura in cui la giustizia è attuata da stati costituzionali. I quali limitano la loro giurisdizione in modo da rendere la superficie del globo relativamente aperta alle scelte delle persone di muoversi, viaggiare, conoscere, e affinché il loro spostarsi non comporti rinunciare alla loro specificità, cultura e religione.
Come i diritti fondamentali alla vita, alla libertà e alla proprietà, i diritti civili cosmopolitici sono rivendicati in nome di un bene che è morale: vale a dire la singola persona. Secondo Kant si tratta «di un diritto di visita spettante a tutti gli uomini, quello cioè di offrirsi alla socievolezza in virtù del diritto al possesso comune della superficie della Terra».
Questi diritti sono concepiti come una rivendicazione contro il potere costituito; non sono «diritti politici» poiché non assegnano agli individui il potere della voce nelle e sulle questioni pubbliche. Perché siano rispettati, è necessario che tutti gli stati li incorporino nei loro codici, trasformandoli in articoli di diritto pubblico positivo. Ciò può consentire agli individui di rivendicarli e, se necessario, di appellarsi alle corti di giustizia per tutelarli. Proprio come nel caso della dichiarazione dei diritti all’interno delle costituzioni nazionali, i diritti civili cosmopolitici sono una limitazione del potere politico. Sono dunque rispettati a condizione che i governi diventino essi stessi limitati o costituzionali.
Il modello kantiano di pace perpetua ha un carattere «negativo» nel senso che il suo scopo è di impedire agli stati di esercitare la loro sovranità contro il principio morale dei diritti individuali. Se Kant non ha proposto un governo mondiale è perché il suo fine non era di superare gli stati, ma indurli a cooperare e dunque ad accettare restrizioni del loro potere e a costituzionalizzare il loro comportamento non solo rispetto ai loro sudditi ma a tutti gli individui. Da ciò deriva la sua conclusione che se tutti gli stati si attenessero alla condizione della legittimità per mezzo del consenso (cioè se tutti diventassero repubblicani o costituzionali), sarebbero disposti con più facilità a rispettare i diritti civili cosmopolitici.
D. È facile quindi capire perché la pace fosse per Kant un imperativo.
R. Il rischio permanente della guerra, secondo Kant, è responsabile dell’autocrazia, e in particolare di un incremento della forza e di politiche di emergenza che tendono quasi fatalmente a violare la libertà e i diritti in nome della sicurezza. In uno scenario in cui la vita è minacciata, la difesa della sicurezza può giustificare l’adozione di mezzi eccezionali nell’uso della forza. Il bios vince sul nomos.
D. L’adozione di una legislazione d’emergenza da parte del governo degli Stati Uniti dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 sembra confermare il paradigma kantiano secondo il quale la sicurezza nazionale è un prerequisito essenziale dei diritti civili cosmopoliti.
R. Pace e libertà – sosteneva Bobbio – o stanno insieme, o insieme decadono. Questa visione universalista non è stata sepolta con la nascita delle nazioni e la reazione romantica contro l’Illuminismo; semmai è stata riformulata e arricchita alla luce del riconoscimento della specificità delle culture e delle nazioni. In effetti si può parlare di una trasmutazione dal cosmopolitismo individualista in un cosmopolitismo delle nazioni: questo doppio binario dell’ideale universalista è alla base culturale del progetto di Unione Europea.
L’unità antropologica degli esseri umani è un ideale e un valore che attraversa gli scritti dei pensatori moderni ai quali è debitrice la nostra tradizione politica liberale e democratica. Permea certamente gli scritti di Smith e di Rousseau, i quali, pur nella diversità della loro filosofia morale e delle loro proposte politiche, ritenevano che le società fossero legittime o giuste se organizzate in modo tale da essere liberate dall’assoggettamento di alcuni al potere di altri, creando anche le condizioni per avvicinare persone e popoli, o quanto meno facendone vicini pacifici.
Questo è vero soprattutto nel caso di Smith, la cui opposizione nei confronti dei monopoli e la convinzione che il mercato avrebbe emancipato la società e gli individui da domini irrazionali, guerrafondai e ingiusti, nasceva dalla premessa che la divisione del lavoro rendeva le competenze specifiche di ciascuno meglio funzionali al benessere generale. Lo scambio dettato dall’interesse diventava un motore per il perfezionamento degli ingegni e delle società, portando anche i più poveri, coloro che avevano solo le braccia per vivere, a liberarsi dalla condanna naturale a una vita di miseria e schiavitù, a rivendicare salari più alti, e infine a organizzarsi per dar voce alle proprie richieste.
Nella Ricchezza delle nazioni si trova la prima robusta formulazione della lotta tra le classi e della relazione tra potere politico ed economico. È Smith a scrivere, prima di Marx, che i detentori del capitale avrebbero usato il loro potere d’influenza per convincere magistrati e governi a proteggere i loro interessi contro quelli dei salariati; che il potere dello stato è mobilitato al servizio della classe più forte.
La società – avrebbe aggiunto pochi anni dopo Rousseau – è fondata su interessi contrastanti e per questo deve essere governata dalla legge in modo che le ragioni dell’utile s’incontrino con quelle della giustizia. In altre parole, il bisogno di associarsi e l’impossibilità di vivere indipendenti e isolati devono diventare per gli individui un’opportunità per creare un ordine artificiale nel quale ciascuno possa vivere con eguale dignità insieme agli altri, senza soccombere al volere arbitrario di nessuno, ma ubbidendo alle leggi che essi contribuiscono a fare.
L’eguaglianza legale, sempre secondo Rousseau, diventa la condizione indispensabile senza la quale la libertà resta privilegio di pochi, è associata al potere e si allontana dal diritto, perdendo i requisiti della legge per acquistare quelli della nuda forza e del sopruso. Personalmente mi riconosco in questa idea della funzione emancipatrice della politica. Dalla quale è possibile far sprigionare l’idea di diritto cosmopolitico come progetto di cooperazione tra i popoli, un’idea che è stata perfezionata nel Diciannovesimo e soprattutto nel Ventesimo secolo.
D. In che modo è avvenuto questo perfezionamento del diritto cosmopolitico? Non è forse vero che il Ventesimo secolo è stato marcato dai nazionalismi?
R. La visione conosciuta come cosmopolitismo è una famiglia composita di antico lignaggio, tanto quanto l’universalismo, di cui è una declinazione pratica. Ha avuto un radicamento nel pensiero politico liberale e nell’individualismo dei diritti. Ma le sue diramazioni sono diverse e possono essere in tensione tra loro. Il suo ramo liberale-umanistico nasce dalla filosofia ellenistica, in particolare dallo stoicismo e dalla dottrina moderna dei diritti naturali. Il suo ramo liberal-economico è più recente e discende dall’ideale dell’emancipazione della società civile dai ceppi del feudalismo e dell’assolutismo statale.
Malgrado le differenze, entrambe queste tradizioni ritengono che la sovranità nazionale sia un ostacolo perché interferisce con le scelte individuali attraverso il potere coercitivo della legge, frenando, invece di agevolare, gli scambi dei beni e il libero movimento degli individui. La nazione ha eretto barriere culturali mentre la sovranità statale, sulla quale si è incardinata, ha diviso il globo con innumerevoli steccati e recinti. Ma proprio a partire dal riconoscimento del principio di autodeterminazione delle nazioni si è assistito alla crescita di una terza corrente del cosmopolitismo: quella che possiamo definire democratica o politica, per la quale la nazione può e dovrebbe diventare il tramite per un nuovo ordine internazionale.
D. Perché lo chiama «cosmopolitismo democratico»?
R. Perché è figlio dell’idea regolativa di un’Europa pacifica, fatta di nazioni politicamente autonome e rette da governi costituzionali o repubblicani. Come idea di pace nella diversità e nella libertà, l’ispirazione che sta alla base di questo cosmopolitismo è stata ripresa a partire dall’Illuminismo dagli intellettuali europei, eredi dell’ideale umanistico di concordia che fu tra gli altri di Erasmo da Rotterdam. È quindi diventato un progetto politico che ha ispirato le rivoluzioni democratiche del 1848-49 e si è infine rinnovato dopo la Seconda guerra mondiale. Ha collegato il cosmopolitismo dei diritti individuali di Kant all’universalismo democratico del marchese di Condorcet e infine all’idea di una «legge dei popoli» di Giuseppe Mazzini. In tempi più recenti, l’Unione Europea ha cercato di attualizzarlo, facendo del nostro continente il laboratorio politico di un ordine mondiale di cooperazione democratica basato sui diritti e sulla legge, che vuol essere alternativo a progetti egemonici e imperiali.
D. Soffermiamoci per favore sulla figura di Mazzini e il suo ruolo in questo dibattito.
R. Non è stato soltanto il padre spirituale dell’unità italiana, ma anche il teorico lungimirante dell’autodeterminazione dei popoli, il portatore di un messaggio, da un lato di emancipazione, dall’altro di unione globale di popoli liberi; una visione che raccoglieva l’insegnamento universalistico dell’Illuminismo, nonostante la sua persistente opposizione alla filosofia settecentesca, che egli identificava con l’individualismo astratto, l’egoismo degli interessi e il liberalismo utilitarista.
Mazzini fu l’ispiratore, molto rispettato nel suo tempo, della causa dell’emancipazione nazionale dal dominio dispotico e coloniale. Fu un figura di grande rilievo internazionale e un leader di riferimento per molte nazioni. «Nazione sta per eguaglianza e democrazia», scrisse nel 1835 prima dell’esilio a Londra: soltanto a questa condizione essa è «comunità di pensiero e di destino». Credeva, sulle orme di Rousseau, che in assenza di una legge che tratta tutti egualmente non esistono né popoli né nazioni, ma soltanto caste e classi opposte e nemiche, ineguaglianza e oppressione. Può esserci tutt’al più una moltitudine di portatori di interessi legati dalla convenienza e dal calcolo di utilità, senza alcun vincolo morale di solidarietà. La nazione, come la intendeva Mazzini, è l’antitesi del principio aristocratico, così come il principio di associazione è l’antitesi dell’individualismo atomistico: possiamo dire che la nazione come associazione politica di cittadini liberi ed eguali è il linguaggio universale dell’umanità, parlato nella lingua di ciascun popolo.
D. Ritiene che, di tutte le descrizioni della nazione che ci ha lasciato Mazzini, questa sia la più promettente?
R. Senza dubbio, perché è ricca di implicazioni normative e politiche che trascendono l’epoca, la storia personale e la stessa ideologia di Mazzini, e la collocano all’interno della tradizione kantiana in senso ampio, nonostante la sua insistente critica dell’individualismo e del cosmopolitismo settecenteschi. Del resto non dobbiamo dimenticare che tanto Kant quanto Mazzini condividevano l’idea repubblicana, benché fondassero la repubblica su premesse diverse: il primo su basi contrattualistiche e principi normativi, il secondo su una volontà collettiva sovrana. Kant cercava nel diritto le ragioni per limitare il potere politico, Mazzini riteneva che senza la volontà autodeterminante del popolo non fossero possibili né il diritto, né la costituzione. Il primo faceva affidamento sulla norma e la non premeditata funzione dell’antropologia che spingeva gli uomini a trovare soluzioni convenienti a bisogni e interessi; il secondo confidava invece nella costruzione voluta, organizzata per via di consenso attraverso la partecipazione politica. Kant e Mazzini testimoniano delle due strade, una legalistica e l’altra volontaristica, percorse dal repubblicanesimo moderno.
D. Torniamo al cosmopolitismo democratico: lo vede come una risposta politica alla globalizzazione?
R. Diversamente dalla sua versione liberal-economica, esso non concepisce la globalizzazione come un fenomeno che si autoregola naturalmente. In quanto «idea regolativa», il cosmopolitismo democratico rappresenta la riluttanza della politica ad arrendersi di fronte alla cosiddetta «spontaneità» della competizione economica e alla «naturalità» delle leggi del mercato. Esso riafferma il potere degli individui associati e dei popoli di governare la propria vita.
Così, malgrado la sua adesione all’eredità utopistica della pace perpetua, l’aspirazione a riaffermare il valore della politica pone il cosmopolitismo democratico a metà strada fra ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. I. Una grande mutazione genetica
  3. II. Debolezza della democrazia?
  4. III. Il declino dell’universalismo
  5. IV. I «pochi» e i «molti»
  6. V. Secessione dalla democrazia
  7. VI. Differenze e politica identitaria
  8. Gli autori