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Presentazioni
Incipit
Sono quasi le sei di un mercoledì pomeriggio qualunque. È meglio che mi sbrighi: l’asilo della Pulce chiude tra poco, e oggi tocca a me recuperarla all’uscita. La Signora delle Lettere è andata a prenderla ieri, io avevo una riunione importante, e oggi è lei a doversi fermare di più in ufficio.
Non ho finito il lavoro in cui sono immerso da stamattina, e la scadenza è domani, ma cosa posso fare? Pazienza, mi ci rimetterò ancora dopo cena: la Pulce va a dormire presto, e la Signora delle Lettere capirà . In fondo, è ordinaria amministrazione: siamo un papà e una mamma che lavorano a tempo pieno, entrambi con delle responsabilità , e senza nonni a portata di mano di cui approfittare all’ultimo minuto.
La giornata della Pulce all’asilo ha l’aria di essere andata bene. Dal colore della maglia (era bianca stamattina, ha chiaramente delle strisce blu stasera) devono aver fatto della pittura.
«Guarda, papà , abbiamo appeso le foto dei mestieri – mi indica tutta fiera –, qui ci sei tu col tuo buffo casco, e qui c’è la mamma!».
Qualche giorno fa le maestre dell’asilo ci hanno chiesto di trovare due foto di noi genitori impegnati nei nostri rispettivi mestieri, e di appiccicarle insieme in un collage da appendere vicino a ogni armadietto. Su quello della Pulce in alto campeggia la foto della Signora, assorta dietro al suo computer portatile, mentre scrive. Una freccetta di cartoncino giallo indica: «giornalista». Subito sotto, un po’ di sghimbescio, ci sono io. Sorrido, ho un casco da cantiere bianco in testa e sto in piedi su un’impalcatura, davanti a un macchinone che non ha nulla da invidiare a un’astronave. Quello che non si può vedere dall’inquadratura è che la foto è stata scattata a circa cento metri sotto terra, in una caverna che contiene un esemplare di tecnologia unico al mondo, che pochi hanno avuto la fortuna di vedere dal vivo. La mia freccetta gialla dice semplicemente: «fisico», perché è quello che sono, e perché nel collage non c’era abbastanza spazio per specificare «delle particelle». Non che ai bambini dell’asilo la differenza importi molto, probabilmente.
Dieci minuti dopo, mentre rientriamo a casa in automobile, dal suo seggiolino la Pulce domanda innocente: «Papà , tu che cosa fai di lavoro?».
Già , che cosa faccio di lavoro? È da quando mi sono laureato, e mi guadagno da vivere andando alla ricerca di particelle dai nomi esotici, che mi sento ripetere la stessa domanda. Cosa faccio di lavoro? Il fisico delle particelle, sarebbe la risposta ovvia, se solo queste tre parole avessero per tutti il significato evidente che hanno per me. Ma conosco gli sguardi persi degli adulti al suono di queste parole: ci sono voluti anni per spiegarlo alla Signora delle Lettere, che pure mi conosce da quando la fisica ancora la studiavo soltanto. Figuriamoci se può bastare a una bambina di cinque anni, in piena fase di «e perché?» e di «e cos’è?».
«Papà è uno scienziato».
«E cos’è uno scienziato?» (ecco, appunto!).
«Uno scienziato è una persona curiosa che studia come funziona il mondo».
«E come funziona il mondo, papà ?» chiede al volo la Pulce, con la logica implacabile che solo una cinquenne sa avere.
«Come funziona il mondo?», ripeto io, aggrappandomi al volante e prendendo tempo.
Anche se conoscessi la risposta – e non la conosco, o la conosco soltanto in modo molto parziale –, come faccio a dipingerti il quadro di quello che capiamo dell’universo in cui ci siamo ritrovati a vivere? A te, Pulce, che hai cinque anni, sogni a occhi aperti un mondo di principesse e fate, e ancora non sai allacciarti le scarpe?
«Il mondo è grande e complicato – finisco per dire, non particolarmente sicuro di dove andrò a parare –, e se lo guardi tutto intero sembra difficile capire come funziona».
E d’improvviso le cose mi sembrano chiare: «Ma se ne prendi un pezzettino per volta – continuo –, se ne guardi solo un angolino sufficientemente piccolo, allora puoi trovare delle regole semplici, delle ripetizioni, delle cose piccole che si comportano sempre nello stesso modo, e che puoi provare a spiegare e a capire. E quando, mano a mano, le metti tutte insieme, alla fine anche quello che sembrava grande e complicato appare più chiaro».
«Come un puzzle, papà ?».
Proprio come un puzzle, di quelli che ti piacciono tanto. Mica di quelli con pochi pezzi, quelli che si finiscono in un attimo perché ogni tassello ha un disegno sufficientemente grande che si capisce al volo dove va piazzato. Quelli sono per i bebè, dici fiera, adesso a te piacciono i puzzle in cui non si capisce a colpo d’occhio dove va un pezzo: sarà una piega della gonna di Cenerentola, o del vestito della fata?
Papà di lavoro taglia a fettine il mondo, in pezzetti sempre più piccoli, per cercare di capire con quali regole si incastrano tra di loro, e come fanno a comporre tutte queste meraviglie che ci circondano: gli alberi, i gatti, la mamma, il sole. E per tagliare a fettine il mondo, per capire come funziona, papà usa dei macchinoni grandi e complicati, perché più sottile è la fetta da tagliare, più minuscolo è il dettaglio da osservare, più grande deve essere il coltello, più potente il cannocchiale. Quell’astronave che c’è alle mie spalle, nella foto sull’armadietto dell’asilo, è il mio coltello, il mio cannocchiale. Mio e di altre migliaia di fisici delle particelle che lavorano con me, perché, per cercare di spiegare come funziona il mondo, aiuta non essere da soli.
Papà fa il fisico delle particelle, e, nonostante gli sguardi persi che hanno accolto questa risposta negli anni, pensa di poterti spiegare che cosa vuole dire. Non perché sia semplice, ma perché i nani come te non si fermano alla prima domanda, e ogni risposta attira sistematicamente un nuovo «perché?». E questa curiosità , Pulce, è l’unico vero modo per provare a capire.
«Papà , quando arriviamo a casa facciamo un puzzle, mentre aspettiamo la mamma?», chiede la Pulce, dichiarando per oggi chiuso l’argomento.
«Certamente!».
«Ma uno con tanti pezzi, però, non uno dei bebè».
Un fisico delle particelle
Sono un fisico delle particelle. Suona bene, vero? Un po’ come «sono un astronauta», anche se un astronauta tutti sanno cos’è. Magari non nel dettaglio, ma un’idea generale anche il meno avvezzo ai progressi dell’esplorazione spaziale ce l’ha: c’entrano una qualche astronave o razzo, una tuta, l’assenza di gravità , lo spazio, le stelle.
Per i fisici delle particelle, invece, la reazione, generalmente, è prossima al vuoto pneumatico. Nella migliore delle ipotesi, la fisica è un ricordo lontano dei banchi di scuola, collegato a palline che scivolano su piani inclinati, pendoli, liquidi, vapori e tubi, motori a scoppio improbabili, e circuiti elettrici di dubbia utilità . Il tutto condito di solito da una discreta quantità di noia, complice la presenza apparentemente inevitabile di – orrore! – formule matematiche. Come potrebbe passare per la testa a qualcuno di voler fare della fisica il proprio mestiere? È un’ottima domanda, a cui, però, non so rispondere.
Non so rispondere, perché non ho idea di cosa passi per la testa di tutti coloro che decidono di studiare fisica all’università , e poi di studiarne ancora durante il dottorato di ricerca, specializzandosi in quella branca particolare della fisica che chiamiamo «delle particelle», per poi intraprendere la strada della ricerca come professione. Al massimo posso raccontarvi che cosa è passato per la testa a me. I fisici (più o meno delle particelle), infatti, sanno bene che estrapolare teorie globali da singole osservazioni è una pratica rischiosa, dalla quale in genere si astengono, a meno di non avere ottime ragioni. Ne riparleremo più avanti, promesso.
Oggi sono un fisico delle particelle, ma non posso certo dire di aver sempre saputo che lo sarei diventato. Alle elementari avevo ben chiaro in mente che cosa fosse un astronauta, ma naturalmente non avevo idea di che cosa fosse un fisico, tantomeno delle particelle. La scienza mi attraeva come un’impresa straordinaria, grandiosa e affascinante, ma devo ammettere che la differenza tra quello che avrei imparato più tardi a chiamare la «ricerca pura» e l’«applicazione tecnologica» non mi era affatto chiara.
La scienza, poi, non è mai stata la mia unica passione. Anzi. Negli anni delle scuole superiori, tra letture avide e impegno sociale, ho accarezzato con convinzione l’idea di diventare prima uno storico, poi un filosofo, ma anche un fotografo, un musicista, un educatore, un illustratore, un cuoco. Una delle conseguenze di questa variegata curiosità è che la schiera di miei amici che fisici assolutamente non sono è molto nutrita, e ho conosciuto e frequentato molti cuochi, filosofi, educatori, illustratori o musicisti. A un certo punto, ho anche conosciuto un’esperta di storia contemporanea prestata al giornalismo, la Signora delle Lettere, che sarebbe diventata qualche anno dopo la mia Signora delle Lettere. Insomma, sono circondato da non-fisici (mi permettete di chiamarli così?), cosa che rende la mia quotidianità piuttosto interessante. Perché, che ci crediate o meno, nonostante abbiano scelto una carriera fondata su palline che rotolano, pendoli e vapore e tubi, i fisici sono solitamente in grado di interagire con il mondo che li circonda senza eccessiva difficoltà , e persino di accoppiarsi e procreare.
Come sono arrivato a scegliere la fisica, dunque? Ci sono un paio di motivazioni fondamentali, che si sono nutrite a vicenda. Come tutti gli uomini che dalla notte dei tempi hanno camminato sulla superficie terrestre, fin da bambino ho alzato il naso per ammirare il cielo notturno, lasciandomi schiacciare e allo stesso tempo ispirare da questa immensità maestosa e insieme terribile. Le domande nella mia testa erano quelle di sempre: chi siamo? Dove andiamo? Che senso ha tutto questo? Domande alle quali, però, se n’è presto aggiunta un’altra: esiste un modo di capire quello che ci circonda, di leggerlo in profondità , di spiegarlo?
Ci sono molte strade possibili per provare a rispondere a quest’ultima domanda, tutte – oserei dire – dotate di una loro dignità , sebbene non tutte ugualmente adeguate. La teologia, la filosofia, l’arte, e ovviamente la scienza, in qualche modo cercano ognuna di rispondere a una versione leggermente diversa della domanda «come funziona il mondo?», più o meno legata ai primi interrogativi sul senso delle cose. Io ho avuto la fortuna di assaggiare diverse di queste discipline, prima di scegliere la fisica, facendola diventare la mia passione e il mio mestiere.
Questa degustazione mi ha chiarito un aspetto importante: ogni disciplina parla una lingua diversa, e le specificità di questa lingua definiscono i confini delle domande a cui la disciplina può provare a rispondere. Il metodo della scienza, declinato nella forma della matematica, rappresenta una lingua speciale, l’unica in grado di discriminare tra le opinioni, di decidere chi abbia ragione e chi torto, trasformando un’ipotesi tra tante in sapere condiviso e accettato da tutti. Vi pare poco? A me è sembrata una qualità di una potenza talmente straordinaria da spingermi a imparare a parlare proprio la lingua della scienza.
Ecco dunque le mie ragioni: volevo tentare di spiegare l’universo nel quale mi ero ritrovato a vivere; avevo la convinzione che la scienza fosse lo strumento più affilato per farlo; e la fisica mi sembrava la disciplina capace di scavare più in fondo, fosse questo fondo nascosto nell’infinitamente piccolo o nell’immensamente grande, cercando in entrambi gli infiniti le ragioni prime (o ultime) del mondo che ci circonda.
Alla fine della scuola superiore mi era poi apparso piuttosto chiaro che non tutte quelle lingue cui accennavo prima erano semplici da parlare. Alcune in particolare erano molto più complesse da imparare di altre, e rappresentavano, da sole, una vera e propria disciplina. Per chiarirci: la fisica parla la lingua della matematica, non tanto perché la matematica sia bella ed elegante (anche se lo è, ma questa è un’altra storia), quanto perché la matematica, come voce del metodo scientifico, si è rivelata la lingua ideale per descrivere il comportamento dei fenomeni naturali, per predirne l’andamento, per scavarne i misteri e raccontarne l’intimità . E, a differenza di altre lingue più vicine a quelle che parliamo comunemente, non ci sono molti modi per imparare la matematica, a meno di studiarla, possibilmente a tempo pieno.
Ma se la fisica ha un suo proprio linguaggio, e se bisogna impararlo per poterla praticare e capire, significa allora che se ne può parlare solo tra iniziati, come si trattasse di una disciplina esoterica? Provate a chiederlo alla Signora delle Lettere.
La Signora delle Lettere
Il sole è tramontato da un pezzo, fa buio e dalla finestra si sentono frinire i grilli. La Pulce è andata a dormire da poco, e mentre la Signora delle Lettere ed io finiamo di mettere a posto i resti della cena, pregustiamo quella minuscola fettina di tempo tra adulti che possiamo dedicarci, prima di crollare anche noi stremati dalla giornata, con poca più resistenza della cinquenne.
«Allora, come è andata la giornata?», chiedo io alla Signora.
«Faticosa – fa lei mettendo un bicchiere in lavastoviglie –. Stamattina mi è toccato riscrivere quattro volte un articolo che continuava a non piacere al direttore».
La Signora delle Lettere è una vera artigiana della parola. Ogni abbinamento tra soggetto, aggettivo, avverbio e verbo in quello che lei scrive deve essere perfetto, risuonare di senso e gusto ed emozione, senza esagerare e senza tralasciare nulla. La Signora legge come altri respirano, e scrive come stesse dipingendo. La cosa a volte non piace al suo direttore, che preferisce una certa immediatezza arida, spesso anche troppo disinvolta per i gusti e l’abituale rigore della Signora. Come molti nel suo mestiere, la Signora ha fatto studi classici, seguiti da altri studi classici, e conditi nel frattempo da molte letture classiche, e da altrettante meno classiche, e poi moderne, contemporanee, futuriste. Il momento culmine della formazione scientifica della Signora delle Lettere, istante che lei afferma di aver apprezzato di più nella sua carriera scolastica, sono state le lezioni di chimica del terzo anno di liceo (delle quali però ricorda poco o niente, anche se non bisogna dirglielo); la sua competenza matematica è regredita alle quattro operazioni, più qualche percentuale (ma soltanto quando è obbligata); la fisica è un ricordo sbiadito, l’immagine confusa di una misera e noiosissima ora alla settimana il quarto anno delle superiori, compressa tra versioni di greco e autori medioevali. A onore del vero, la Signora delle Lettere non è fiera della sua cultura scientifica zoppicante. Questa consapevolezz...