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Il sogno del 'grande spazio'
Le politiche d'occupazione nell'Europa nazista
- 282 pagine
- Italian
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Informazioni su questo libro
Tra il 1938 e il 1945 la Germania, sotto la guida di Hitler e del regime nazionalsocialista, si rese protagonista di una politica estera di conquista di uno spazio vitale, incurante di qualsiasi diritto. Dall'Atlantico al Volga, le popolazioni coinvolte subirono una lunga scia di distruzioni e sfruttamento. In queste pagine rivive la fase più drammatica della storia europea, ricostruita attraverso le finalità, le specifiche caratteristiche delle politiche di occupazione nei singoli paesi e gli effetti che ebbero sulla popolazione. Un variegato caleidoscopio di comportamenti e intrecci non privi di ambiguità fra occupanti e occupati, spesso irriducibili allo schema resistenza/collaborazionismo.... da Repubblica
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HistoriaCategoria
Historia del siglo XXI1. Piani e progetti dell’espansionismo tedesco
Tra il 1938 e il 1945 la Germania, sotto la guida di Hitler e del regime nazionalsocialista, si rese protagonista di una politica estera espansionistica incurante di qualsiasi regola del diritto internazionale. Ne scaturì una guerra mondiale con decine di milioni di vittime – in maggioranza civili – e immense distruzioni. Una guerra che provocò la drammatica riscrittura della carta politica ed etnica del vecchio continente. L’Europa nel suo complesso ne uscì prostrata al punto di perdere la propria egemonia internazionale, lasciando il passo alle due superpotenze: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.
Nonostante sia fuor di dubbio che la Germania hitleriana fu la responsabile di questo terribile conflitto, sono ancora molti i nodi interpretativi da sciogliere. La storiografia, infatti, ha a lungo discusso sui possibili, inquietanti legami tra i progetti hitleriani e i piani e la prassi di dominio dell’impero guglielmino già a partire dalla Prima guerra mondiale: piani che – con forme e dimensioni diverse – prevedevano comunque un’espansione dell’area egemonizzata dal Reich allo scopo di garantirne il predominio su quella che allora veniva chiamata «Mitteleuropa».
In questa direzione interpretativa si sono mossi, negli anni Sessanta, lo storico tedesco Fritz Fischer e uno dei maggiori storici britannici, Alan John Percival Taylor. Nell’opera del 1961, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918 (Einaudi, Torino 1965), Fischer metteva a nudo i piani, i progetti e i sogni delle classi dirigenti tedesche nel corso della Prima guerra mondiale, accennando implicitamente alla questione della continuità con il successivo conflitto, che egli vedeva soprattutto nei progetti e nelle aspettative dei gruppi dirigenti tedeschi: grande industria, finanza, esercito.
Dello stesso anno è Le origini della Seconda guerra mondiale (Laterza, Bari 1961) di Taylor, il quale argomentava che la politica estera hitleriana non era stata qualitativamente diversa da quella perseguita dai governi tedeschi prima e dopo il 1914. Si trattava, a suo parere, di una politica che – con fondati motivi – intendeva da una parte ripristinare l’equilibrio internazionale leso dall’ingiusto trattato di pace di Versailles, e dall’altra difendere il ruolo nevralgico della Germania nel cuore del continente. Se Hitler aveva scatenato un conflitto mondiale di quelle dimensioni – sosteneva Taylor – ne erano responsabili anche le altre grandi potenze, in primis la Gran Bretagna, che avevano sottovalutato la reazione tedesca ai termini imposti dal trattato di Versailles, provocando così la folle corsa espansionistica del Führer.
Queste interpretazioni sottovalutavano la discontinuità rappresentata dal programma ideologico hitleriano, riscontrabile in nuce già nel Mein Kampf e attivamente perseguito non appena il Führer ebbe il potere in Germania. È l’ideologia a fare la reale differenza, rendendo in qualche modo non confrontabile la politica hitleriana e quella degli altri governi europei del tempo. Tuttavia, anche riconoscendo il giusto peso all’ideologia, rimangono ancora aperte numerose questioni.
Ci si deve chiedere se Hitler avesse un programma chiaro e lineare e, in caso positivo, se esso venne attuato secondo una progressione precisa – dalla revisione del trattato di Versailles all’espansione nell’Europa centrale, alla guerra ideologica contro l’Unione Sovietica, fino ai (vaghi) progetti di dominio mondiale –, oppure se non sia più corretto individuare delle cesure fra le varie tappe programmatiche, dovute all’opportunistica capacità di Hitler di adattarsi alle circostanze.
E ancora: è necessario chiedersi se il programma hitleriano si limitasse all’ambito europeo oppure abbracciasse l’intero globo; se fosse più centrale il piano di eliminazione degli ebrei o, invece, la lotta contro il bolscevismo.
Alcuni studiosi hanno sostenuto che il programma hitleriano non fosse che un’utopia. Solo assumendo ciò si spiegherebbe l’intrinseca tendenza del regime a essere perennemente in movimento: l’incessante «fuga in avanti» non sarebbe che la maschera per lacerazioni e contraddizioni interne. Altri ancora hanno dipinto Hitler come un opportunista, pronto ad adattare i suoi programmi alle possibilità del momento. Da questo punto di vista, egli, con le sue azioni, non avrebbe fatto altro che perseguire l’obiettivo di consolidare il proprio potere personale.
Cercare di rispondere a ciascuna di queste domande sarebbe compito assai arduo. Mi limiterò a ricostruire i punti salienti del programma politico hitleriano e le tappe cruciali della sua azione politica fino allo scoppio della guerra.
Ciò che mi pare assodato è che – nonostante la presenza di una pluralità di agenzie e di gruppi, di partito e di Stato (forze armate), ma anche privati (potenti interessi economici) che pretendevano di occuparsi di politica estera – le decisioni più importanti Hitler le prese personalmente, spesso contro il parere dei suoi consiglieri. Ciò vale soprattutto per la durata della guerra. Per sciogliere questi nodi interpretativi è opportuno partire da una sommaria analisi della sua visione della politica estera. Per Hitler, la politica estera rappresentava il cuore dell’azione dello Stato e perciò aveva completamente subordinato a essa la politica interna: «La politica è il compimento della lotta per l’esistenza di una nazione», scriveva il futuro dittatore, aggiungendo che «il pane che è necessario a un popolo è condizionato dallo spazio vitale a sua disposizione».
La sua visione del mondo era basata sulla lotta eterna fra i popoli per accaparrarsi la terra, lo «spazio vitale» (Lebensraum) e le ferree leggi della natura premiano il più forte. Nel 1942 dichiarò: «La terra è come un boccale che passa da un commensale all’altro e tende a finire sempre nelle mani del più forte». Ancora: «La natura non conosce il vigliacco, il debole [...] conosce soltanto colui che difende saldamente il proprio territorio, che vende cara la propria pelle».
In virtù della superiore qualità razziale del popolo germanico, lo spazio vitale di cui esso disponeva era insufficiente. Il popolo germanico doveva mostrasi degno di quella «superiorità» altrimenti assolutamente astratta. Come Hitler ebbe a dichiarare: «Se il popolo tedesco a un certo punto non sarà abbastanza forte e pronto al sacrificio, per dare il sangue in difesa della propria esistenza, allora che venga sconfitto ed eliminato da un altro popolo, più forte». Un concetto che, come amaro bilancio, Hitler avrebbe ribadito nel testamento politico dettato alla vigilia del suicidio nel bunker di Berlino: così come esistevano popoli più forti e meno forti, allo stesso modo ciascun popolo era ordinato al suo interno secondo una gerarchia razziale: dai più forti destinati a comandare fino a quelle vite «indegne di essere vissute» – come vennero definiti dalla propaganda i malati terminali, gli handicappati, i malati di mente che nel 1939-1941 sarebbero stati sottoposti ad eutanasia.
Dunque, obiettivo prioritario di colui che governerà la Germania sarà quello di restituire al popolo germanico lo spazio vitale che gli è necessario. E la guerra ne sarà il mezzo. Questo aspetto della Weltanschauung hitleriana era tutt’altro che originale: esso si ricollegava al nazionalismo biologico diffuso nell’Europa del primo Novecento, nonché alla scuola della geopolitica, che legava indissolubilmente territorio e forza di un popolo.
In quale direzione la Germania avrebbe dovuto spingere il proprio espansionismo? Certamente non in quella del ripristino dei confini esistenti nel 1914. E tantomeno Hitler era attirato dalla prospettiva di un impero coloniale.
L’espansione dello spazio vitale non poteva che andare perciò verso Oriente: «Se oggi [era il 1926] parliamo di nuovi territori in Europa, allora non possiamo che pensare in primo luogo alla Russia e agli Stati marginali ad essa sottomessi». In quegli spazi immensi, dotati di risorse apparentemente infinite, che Hitler – nella sua grossolana visione – considerava quasi disabitati, la Germania nazionalsocialista avrebbe trovato uno sfogo decisivo. La Russia sarebbe diventata quello che l’India era stata per l’Inghilterra: «Grazie all’Ucraina torneremo a diventare un paese esportatore di grano per tutt’Europa [...]. Agli ucraini forniremo fazzoletti, collane di vetro come gioielli e quant’altro solitamente piace a un popolo coloniale».
Qui – come altrove – possiamo cogliere una profonda contraddizione interna alla visione hitleriana. Per un verso, i popoli slavi (tra i quali Hitler non faceva distinzioni) gli apparivano deboli perché culturalmente e razzialmente inferiori; dall’altro, però, egli li identificava con il mortale pericolo rappresentato dal «giudeo-bolscevismo». Fu la paura nei confronti del pericolo giudeo-bolscevico che lo indusse, alla fine del 1940, ad affrettare i tempi dell’aggressione contro l’Unione Sovietica, emanando direttive per un trattamento di una crudeltà senza precedenti nei confronti del nemico.
Fin qui il programma ideologico, racchiuso nel Mein Kampf, che pochi lessero, nell’inedito Secondo libro e in estenuanti monologhi di fronte alla ristretta cerchia dei fedelissimi. Alcuni elementi filtrarono però anche verso l’esterno, soprattutto negli anni (1930-1933) durante i quali il partito hitleriano riuscì a conquistare il consenso di milioni di tedeschi (e tedesche), assurgendo già nelle elezioni del luglio 1932 al rango di partito di maggioranza relativa, con il 37,3% dei voti. Traspariva dai discorsi di Hitler la promessa di una politica estera decisa, che avrebbe spazzato via le incertezze del passato e ricollocato la Germania nel rango di grande potenza. Tale promessa venne poi da lui ribadita in termini semplici e accattivanti di fronte a masse sempre più numerose di seguaci. Ma non solo. Nevralgico fu anche l’apparato propagandistico della NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori tedeschi) che, in modo moderno e capillare, contribuì alla sua straordinaria ascesa elettorale nonostante quegli anni di crisi economica e politica. Una promessa di riscatto, dunque, che attirava le masse dei ceti medi urbani e rurali, allarmati dalla crisi e dalla minaccia della rivoluzione comunista, ma che faceva breccia anche nella classe operaia. E che piaceva anche alle classi dirigenti, costrette negli anni repubblicani a una coabitazione con i sindacati e i partiti operai (quello socialdemocratico e quello cattolico del Centro).
Pochi giorni dopo aver ricevuto l’investitura di cancelliere, il 3 febbraio 1933, Hitler promise ai generali una politica volta a promuovere nella gioventù un rinnovato spirito militare, una lotta senza quartiere contro le imposizioni del trattato di Versailles, una politica estera aggressiva e l’impegno alla ricostruzione dell’esercito come strumento per restituire alla Germania il suo ruolo internazionale.
Quanto agli interessi economici, influenti gruppi industriali e bancari si affidarono a Hitler per un duplice ordine di motivi: il primo è che egli rappresentava una rottura drastica con l’odiato sistema repubblicano; il secondo è che egli prometteva di riconquistare per la Germania posizioni egemoniche su scala continentale. Nonostante – come è stato oggi riconosciuto – Hitler non fosse un «agente» del grande capitale monopolistico tedesco, non possono venire sottaciuti i legami d’interesse che si costituirono a partire dal 1932/33 e che si rinsaldarono (con grandi profitti per l’economia) sin quasi alla fine della guerra. Basti pensare al profluvio di documenti programmatici e di iniziative concrete messi in campo dai potentati economici prima del 1933, i quali miravano alla realizzazione di un «grande spazio economico germanico». Era presente in essi il rigetto dei principi del liberalismo economico, giudicati un imbroglio architettato da chi già deteneva un potere economico sopranazionale, come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. A questo proposito, un esempio particolarmente interessante è il Mitteleuropäischer Wirtschaftstag, potente lobby che anche negli anni del regime avrebbe giocato un ruolo importante soprattutto nell’infiltrazione dell’area danubiano-balcanica. Teorici di parte industriale e sostenitori del nazionalsocialismo ragionavano in termini di «grandi blocchi economici» contrapposti fra di loro. La Germania, ritenevano, aveva le potenzialità per dare vita a un blocco continentale, mitteleuropeo. È su questo terreno che si mosse fra il 1933 e il 1936-1937 il ministro dell’Economia, Hjalmar Schacht: egli mirava a stringere legami commerciali, economici e poi politici con i paesi dell’area danubiano-balcanica, con i quali – anche in caso di conflitto – il Reich avrebbe potuto mantenere i contatti. È proprio da questa politica economica che trassero vantaggio potentati economici del calibro di Krupp o del gigante della chimica IG Farben.
Sostenuto da un diffuso consenso popolare, nei primi anni del regime Hitler concentrò la sua attenzione sulla lotta senza compromessi contro il trattato di Versailles. Muovendosi con estrema spregiudicatezza, pur se attento a non suscitare reazioni internazionali troppo negative, Hitler nell’ottobre 1933 decise l’uscita della Germania dalla Società delle Nazioni. Un atto controbilanciato da una serie di accordi con i paesi vicini e potenzialmente ostili: il prolungamento del patto d’amicizia con l’Unione Sovietica (5 maggio 1933); il Concordato con la Santa Sede (20 luglio 1933); il patto d’amicizia con la Polonia (26 gennaio 1934). In questo senso va letta anche la decisione presa nei primi mesi dell’anno seguente di reintrodurre la leva obbligatoria, avviando così il riarmo della Germania.
D’altro canto, il Führer cercò di non rompere definitivamente con Londra – ne è una dimostrazione la stipula (giugno 1935) di un accordo sulle dimensioni delle flotte –, salvo poi stringere un patto politico e militare con il Giappone e l’Italia (Patto Anticomintern del novembre 1936), che apriva scenari preoccupanti per il governo britannico soprattutto sullo scacchiere asiatico. Peraltro, alla destabilizzazione del fragile equilibrio internazionale contribuì – non meno di Hitler – Mussolini, la cui politica bellica (Etiopia, Spagna) finì per spingerlo verso un’alleanza soffocante con la Germania hitleriana.
Sensibile alle esigenze della propaganda, Hitler sapientemente alternava questi atti minacciosi con pubbliche enunciazioni della sua volontà di pace. Così nel maggio 1935, dopo aver denunciato le restrizioni militari imposte dal trattato di pace, egli presentò al Reichstag un piano fondato su principi wilsoniani. Tale politica di «accelerazioni e frenate» creò imbarazzo alle diplomazie di Londra e Parigi, che furono indotte erroneamente a ritenere che il capo della Germania fosse disponibile a trattare: è questo il nucleo della cosiddetta politica dell’appeasement, che da una parte tradisce la miopia delle due potenze chiamate dalla vittoria del 1918 a difendere lo status quo internazionale, dall’altra esprime il logoramento subìto da quella terribile prova.
Nel marzo del 1938, dopo aver riannesso la Saar con un plebiscito che rappresentò uno dei momenti più alti del consenso che i tedeschi riservarono al Führer (il sì per il ricongiungimento ottenne 445.000 voti, contro 48.000) e posto fine alla smilitarizzazione della Renania imposta alla Germania dai vincitori, le mire tedesche si diressero verso l’Austria.
Qui si innesta un secondo e più profondo livello della politica espansionistica hitleriana, connesso a motivi etnico-nazionali. È importante ricordare che fin dal Medioevo vi erano state migrazioni di popolazioni germaniche soprattutto verso l’Europa orientale. Tali comunità, di maggiori o minori dimensioni, abitavano sparse in quella parte del continente: dal Baltico alla Romania, fino al Volga. Ora, poiché uno degli assunti della Weltanschauung hitleriana era rappresentato dalla necessità di consolidare il popolo (o razza: i due concetti venivano da lui usati in modo quasi intercambiabile) su un territorio, ne conseguiva la sua idea di riportare entro i confini del Reich tutte queste comunità, o comunque di farsi paladino dei loro interessi. L’annessione dell’Austria rientrava in questo quadro, anche se Hitler non aveva alcuna intenzione agli inizi del 1938 di realizzarla. Furono le pressioni dei suoi fedelissimi, in primo luogo di Göring, e le inaspettate dimostrazioni di entusiasmo di gran parte della popolazione e della classe dirigente che gli presero la mano.
Il caso dell’Anschluss dell’Austria non è l’unico che dimostra come nel programma hitleriano si inserissero di volta in volta variabili dettate da specifiche congiunture; un altro esempio è quello dell’intervento a sostegno del generale Franco in Spagna. Hitler però presentava la sua azione politica, soprattutto in campo internazionale, come lineare e coerente. Nel febbraio del 1939 dichiarava: «Tutte queste decisioni non sono affatto pensieri, che nel momento in cui si sono formati sono stati concretizzati, ma si tratta di piani forgiati da lungo tempo la cui realizzazione io ho deciso nel momento preciso in cui ritenni che le circostanze generali fossero davvero favorevoli».
L’Anschluss costituisce a tutti gli effetti un’annessione territoriale di uno Stato sovrano, anche se formalmente fu il governo di Vienna, sulla base di una legge approvata dal parlamento, a chiederla. Essa venne successivamente sancita con un plebiscito che rafforzò Hitler, all’interno e all’esterno: il 99,7% degli aventi diritto espresse al 99,6% un voto favorevole al fatto compiuto. Il paese venne ridenominato Marca orientale (Ostmark), a sottolinearne il pieno inserimento entro il Reich germanico in funzione di baluardo e di ponte verso l’Europa orientale e sud-orientale.
Anche il volgersi di Hitler alla Cecoslovacchia fu conseguenza della commistione fra i due livelli della sua politica estera. Da un lato, infatti, la Cecoslovacchia era una nazione moderna e ricca, pilastro dell’ordine sancito dai vincitori a Versailles, nonché alleata militare della Francia. Dall’altro, all’interno dei confini di questa repubblica democratica esisteva un conflitto etnico fra la popolazione tedesca, maggioritaria nella regione occidentale dei Sudeti (oltre tre milioni di persone), e il governo di Praga, fautore di una politica centralistica. In questa condizione, avviare una politica estera radicale in grado di colpire un avversario così ostico significava liberarsi di coloro che diffidavano di Hitler e del suo dinamismo. All’inizio del 1938 venne perciò attuata, in modo concertato, una purga drastica nei vertici diplomatici, militari e politici. Sbarazzatosi dei generali Blombe...
Indice dei contenuti
- Premessa
- 1. Piani e progetti dell’espansionismo tedesco
- 2. Forme e tipologie delle occupazioni
- 3. Lo sfruttamento economico dell’Europa occupata
- 4. Stato razziale e spostamenti di popolazioni
- 5. Collaborazione e collaborazionismo
- 6. La resistenza
- Appendice documentaria
- Bibliografia essenziale
- Cartine