Le trasformazioni del lavoro
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Le trasformazioni del lavoro

Modelli e tendenze nel capitalismo globale

  1. 176 pagine
  2. Italian
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Le trasformazioni del lavoro

Modelli e tendenze nel capitalismo globale

Informazioni su questo libro

Come e perché sta cambiando il lavoro nel mondo? Il tipo di lavoro svolto esprime ancora un'identità sociale? Al lavoro viene riconosciuto un ruolo tuttora fondamentale nelle singole traiettorie di vita, pur segnate da percorsi occupazionali più incerti e instabili? Come si risponde, nei vari paesi e in Italia, alle maggiori richieste di produttività e soft skills?Osservando il passaggio dal 'saper fare cose' al 'saper essere creativi' nella società della conoscenza, Serafino Negrelli delinea le trasformazioni che hanno interessato il lavoro negli ultimi trent'anni e quel che potrebbe accadere nel prossimo futuro.

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Informazioni

Categoria
Sociologia

1. Il lavoro «rubato» dalla globalizzazione: lo spettro delle delocalizzazioni

La crisi ha influito sulla già largamente diffusa opinione che la globalizzazione abbia contribuito e continui a contribuire a delocalizzare in maniera massiccia i posti di lavoro verso la Cina, l’India e i vari paesi emergenti, caratterizzati da più bassi costi del lavoro. Si tratta di un’opinione alimentata soprattutto da episodi o casi con ampia risonanza mediatica, come ad esempio lo spostamento dei call center in India, favoriti oltre che dal costo inferiore del lavoro anche dalla più ampia disponibilità di operatori di lingua inglese, oppure l’invio delle radiografie dagli ospedali americani ai radiologi indiani di Bangalore che a loro volta le restituiscono sulla stessa connessione internet, con la relativa diagnosi.
Oggi, si teme l’esodo del lavoro verso Cina, India, Europa dell’Est e paesi emergenti, così come in passato lo si è temuto in altre circostanze non molto dissimili. Si può ricordare come, negli anni settanta, «Buy american» fosse uno slogan del protezionismo populista contro l’invasione dei prodotti giapponesi e del relativo modello produttivo lean. Ancora negli anni novanta, la campagna elettorale americana del candidato presidenziale indipendente Ross Perot fu basata sulla percezione di un «enorme vortice aspirante» (giant sucking sound), ovvero di una rapida fuga di posti di lavoro dagli Stati Uniti verso il più conveniente Messico. Anche in Europa si temeva che il nuovo processo di integrazione economica offrisse di fatto alle imprese la grande opportunità di «votare con i piedi» (Streeck, 1990), ovvero di spostare i posti dai paesi ad alto costo del lavoro, come la Germania, a quelli più convenienti, come la Spagna. Come pure, si temeva l’invasione di lavoratori dai paesi con minori tutele in cerca di alti salari e buone pensioni. Le ragioni del perché ciò non sia avvenuto, o sia avvenuto in maniera alquanto dilazionata e regolata, sono apparse poi evidenti anche al senso comune. L’erosione del lavoro manifatturiero nei paesi industriali più avanzati è derivata prevalentemente dalla transizione strutturale delle loro economie verso i settori del terziario, avanzato e non. Ciò non ha però impedito a questi stessi paesi di mantenere un cuore manifatturiero. Questo, innovato e trasformato per effetto di un accelerato sviluppo dell’economia della conoscenza, che ha accresciuto il contenuto immateriale degli stessi prodotti industriali cosiddetti «maturi» (si pensi all’automobile), sta offrendo tuttora un fondamentale vantaggio competitivo. I paesi emergenti vanno generalmente occupando parte di quello spazio manifatturiero di fatto abbandonato o in via di abbandono nei paesi di prima industrializzazione. Mentre le imprese che potrebbero teoricamente «votare con i piedi» rischiano di non trovare le stesse infrastrutture economiche e sociali dei paesi di origine, come sembrano peraltro dimostrare alcuni fenomeni di rilocalizzazione o comunque di riposizionamento da parte delle stesse imprese che avevano intenzione di delocalizzare.

1.1. «Big deal» o «business as usual»?

Lo spettro dei posti di lavoro persi a causa delle delocalizzazioni sembra peraltro aver suscitato forti timori non solo tra ampi settori dell’opinione pubblica, ma anche tra esperti e studiosi. Tra gli economisti, ad esempio, il dibattito più acceso è stato avviato da Blinder (2006, 2008, 2009) con la sua provocatoria stima di 30-40 milioni di posti di lavoro americani potenzialmente offshorable, vale a dire circa un quarto della forza lavoro. A questa stima è giunto dopo aver scorporato i personally dagli impersonally delivered services, considerando questi ultimi particolarmente soggetti alla competizione dell’offerta di lavoro globale, che con l’ingresso della Cina, dell’India e dei paesi emergenti è praticamente raddoppiata, minacciando sia i posti di lavoro che i salari dell’Occidente. Blinder ha cercato di far presente che tali previsioni erano frutto di un esercizio di natura puramente teorica, con effetti eventualmente dilazionati nel tempo, che non dovevano quindi indurre ad atteggiamenti protezionisti. Era però inevitabile che attorno a tali cifre crescessero schieramenti contrapposti e ci fossero reazioni forti soprattutto da parte degli economisti più inclini a considerare il fenomeno come business as usual.
A conclusioni diametralmente opposte rispetto a Blinder sono giunti infatti Greenwald e Kahn (2009), i quali hanno calcolato che negli stessi settori manifatturieri i posti di lavoro persi negli Stati Uniti nel periodo 2000-2006 sono dovuti essenzialmente all’incremento di produttività, per due terzi, e solo per un terzo alla globalizzazione. Questi autori osservano che, in tale periodo, i consumi dei settori manifatturieri (aggiustati rispetto all’inflazione) sono cresciuti del 25%, mentre la produzione è cresciuta del 10%, con un eccesso quindi di importazioni del 15% (quota della globalizzazione). Nello stesso periodo l’occupazione è calata del 18%, determinando quindi una differenza tra consumi e addetti del 43%, dovuta appunto per il 15% alla globalizzazione (35%) e per il 28% all’incremento della produttività (65%). Va peraltro evidenziato che questi posti di lavoro persi nei settori manifatturieri sono stati ampiamente compensati dalla crescita dell’occupazione nei settori dei servizi, almeno fino a prima della crisi finanziaria del 2008. L’occupazione totale americana è infatti cresciuta di ben l’80% tra il 1970, quando contava poco più di 78 milioni di addetti, e il 2005, quando è arrivata a circa 142 milioni, con una quota ben oltre i quattro quinti nei settori dei servizi. Secondo questi stessi autori, proprio questo trend e il fatto che la maggior parte di tali servizi siano prodotti e consumati a livello locale (dalla sanità all’istruzione, ai servizi alle persone, alle imprese e ai territori, ai servizi legali, utilities, telecomunicazioni e molti altri) rappresentano fattori oggettivi che renderanno sempre più contenuto il fenomeno delle delocalizzazioni e dei loro effetti negativi sull’occupazione. Al riguardo, sostengono che ciò sarà sempre più vero per i paesi con tali elevate quote di addetti nei settori dei servizi (Stati Uniti, Regno Unito, Olanda, Danimarca), mentre i paesi che mantengono tuttora livelli occupazionali più elevati nei settori manifatturieri (Germania, Francia, Giappone, Italia) potrebbero essere interessati da maggiori perdite di posti di lavoro, pur non necessariamente per effetto della globalizzazione. Questa analisi sembra in parte corrispondere ai cambiamenti della qualità del lavoro influenzati dai rispettivi modelli di capitalismo, come si vedrà meglio nei prossimi capitoli, ma l’ipotesi riferita al secondo gruppo di paesi andrebbe corretta con un’analisi più dettagliata dei processi di ristrutturazione e delle differenti capacità di risposta dei territori e degli attori locali (vedi sotto).
Tra i sostenitori dell’idea che le delocalizzazioni siano di fatto da considerare come business as usual si pone soprattutto Bhagwati (2009) che, nell’accusare Blinder di portare acqua al mulino degli oppositori al libero commercio, fa notare che negli scambi internazionali ci sono sempre stati vincenti e perdenti, ma che per tutti i posti e servizi di call center e low skilled delocalizzati nei paesi poveri ce ne saranno molti di più nei paesi ricchi che impegneranno personale altamente qualificato nelle professioni intellettuali più pregiate (architetti, avvocati, medici, specialisti della finanza, ecc.). In generale molti economisti, pur registrando la crescita del fenomeno delle delocalizzazioni per effetto della globalizzazione, non lo considerano quindi una causa della perdita dei posti di lavoro così rilevante come lo può essere invece l’innovazione tecnologica1. Soprattutto non lo ritengono una novità tanto diversa da altre forme di scambi internazionali e in quanto tale da ricondurre alle leggi di vantaggio comparato (Miller, Benjamin, North, 2008).
Tali schieramenti hanno però contribuito a oscurare il messaggio forse più importante del contributo di Blinder che, nel valutare i processi di delocalizzazione come big deal, intendeva soprattutto far presente la necessità non tanto di risposte protezionistiche quanto di adeguate politiche pubbliche per i lavoratori più vulnerabili. Anche se al riguardo le proposte dello stesso Blinder sono rimaste alquanto modeste e generiche.

1.2. Politiche di corto respiro e processi di anticipazione strategica

Se anche esperti e studiosi sono così divisi sugli effetti delle delocalizzazioni, a maggior ragione si può comprendere come pur singoli casi ed episodi abbiano portato a una ben più diffusa opinione dei posti di lavoro che se ne vanno in Cina, India o altrove. Tale opinione potrebbe anzi essere stata rafforzata dal contesto di capitalismo globale caratterizzato da crisi e ristrutturazioni che hanno interessato imprese e organizzazioni negli ultimi trent’anni (vedi capitolo 3) e che comprensibilmente possono aver determinato una più confusa percezione del fenomeno delle delocalizzazioni. Questo non è sempre stato inteso infatti nella sua reale portata e accezione di offshoring, ma è stato spesso confuso con gli effetti di altri processi, quali appunto le ristrutturazioni, le riorganizzazioni o la razionalizzazione della catena di fornitura. Al riguardo, sembra utile la precisazione di Blinder (2009: 20): un posto di lavoro è outsourced quando è collocato all’esterno dell’impresa, in un’altra impresa, indifferentemente nello stesso paese o in un altro; l’offshoring di un posto di lavoro avviene invece quando è spostato al di fuori del paese, anche se nell’ambito della stessa impresa (multinazionale)2.
Non desta quindi meraviglia che, a fronte di cifre e concetti così indefiniti, il fenomeno delle delocalizzazioni resti di natura elusiva anche a livello istituzionale, tra gli operatori e i rappresentanti politici che, in ambito nazionale o ai vertici dell’Unione europea, si sono posti il difficile e importante compito di gestire il problema per renderne meno gravi le conseguenze per i lavoratori interessati.
Nel dicembre 2005, per porre freno a quella che sembrava essere una progressiva e inarrestabile erosione di posti di lavoro a causa delle delocalizzazioni, il Consiglio dell’Unione europea ha approvato la costituzione di un fondo di 500 milioni di euro annui da destinare ai lavoratori vittime dei licenziamenti dovuti ai processi di offshoring, ovvero di ricollocazione di unità di impresa al di fuori dell’Unione europea3. Scopo principale era di fatto quello di favorire il reinserimento professionale di coloro che potevano perdere il lavoro a causa della globalizzazione. Pur essendo stata scartata in un primo tempo dagli stati membri, tale proposta venne ripresa dal presidente della Commissione Manuel Barroso in seguito alle critiche mosse all’immobilismo dell’Unione europea, in particolare dal presidente francese Jacques Chirac, in occasione dei licenziamenti annunciati dalla Hewlett-Packard. Si tratta di un fondo differente da quelli già previsti, quali ad esempio il Fondo sociale europeo, in quanto orientato a un aiuto di carattere individuale, del tutto mirato e limitato nel tempo. Esso è infatti finalizzato alla formazione e alla ricollocazione soprattutto dei lavoratori anziani disponibili a rientrare nel mercato del lavoro, anche con un salario inferiore.
L’analisi del regolamento istitutivo è importante per diversi ordini di ragioni. Innanzitutto la stessa denominazione, «Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione» (FEG), tradisce la sua natura ambigua o comunque alquanto generica, come confermato dall’oggetto dell’intervento che riguarda le perdite di posti di lavoro originate da «trasformazioni profonde della struttura degli scambi commerciali internazionali» segnalate non solo dalla delocalizzazione economica verso paesi terzi (non quindi verso i paesi dell’Unione) ma anche, in termini più estesi, da un aumento sostanziale delle importazioni nell’Unione o da una flessione rapida del mercato europeo del settore colpito4.
Il documento, nella parte di definizione quantitativa del fenomeno, prevede l’intervento solo quando le perdite di posti di lavoro siano pari almeno a mille licenziamenti su un periodo di quattro mesi in un’impresa e presso i suoi fornitori o produttori, oppure su un periodo di nove mesi in zone limitrofe. Dal dibattito che ha riguardato tale proposta sono emersi, per la prima volta, alcuni dati sui possibili effetti delle delocalizzazioni in termini di perdite dei posti di lavoro. In tale occasione la Commissione ha reso infatti noto il numero dei lavoratori potenzialmente beneficiari di tale fondo, tra i 35 e i 50 mila all’anno.
Il numero di beneficiari reali del fondo è stato però di gran lunga inferiore, come pure l’ammontare della spesa. Dal 2007 ai primi mesi del 2012, gli interventi di politica attiva (assistenza per il reinserimento nel lavoro, corsi di formazione, riqualificazione e sviluppo professionale, misure per l’occupazione e altri tipi di incentivi) hanno interessato circa 90 mila lavoratori licenziati (soprattutto nei settori dell’automobile, delle telecomunicazioni, dell’informatica, del tessile e degli elettrodomestici), per una spesa totale di 435 milioni di euro. Anche nei due anni di maggior crisi, 2009 e 2010, i lavoratori interessati sono stati rispettivamente 26.332 e 26.867, quindi ben al di sotto della soglia prevista, e nel 2010 sono stati spesi 83,5 milioni di euro, ovvero il 16,7% delle risorse rese disponibili per l’anno5. Nel 2011, i lavoratori interessati sono scesi a 16.481, contribuendo a rendere il fenomeno delle ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Dalla classe dei produttori ai nuovi mondi del lavoro
  2. 1. Il lavoro «rubato» dalla globalizzazione: lo spettro delle delocalizzazioni
  3. 2. Il lavoro «rubato» dalla globalizzazione: la necessaria temuta immigrazione straniera
  4. 3. Il lavoro che resta: tra ristrutturazioni e innovazioni
  5. 4. Dal «saper fare» cose al «saper essere» creativi nel lavoro
  6. 5. L’erosione dello status occupazionale
  7. 6. Le condizioni di lavoro sotto pressione
  8. Conclusioni. Le trasformazioni del lavoro tra economia e politica
  9. Bibliografia