1.
L’essenziale è invisibile ai soldi
I sogni ammonitori sono arrivati prima che partissi. Sono saliti al volo sull’idea di questo viaggio. Loro non ci credono proprio ai semi di nuovo, quelli sparsi da questi anni difficili. Forse non li vogliono vedere. Scrutano in lungo e in largo, con i soliti occhiali marca «as usual» a cui tutti siamo affezionati, ed escludono che qualcosa di buono sia in arrivo all’orizzonte. I sogni non credono possibile un girar pagina, rispetto al passato, capace di renderci diversi, forse persino migliori di ciò che siamo stati.
Così, prima di ogni nuova partenza, mi vengono a trovare. Sono la più scatenata e creativa fabbrica di irrealtà che esista, ma da me pretendono realismo e razionalità . Pignoli e puntigliosi mi intimano di stare con i piedi per terra. Disapprovano severamente, ad esempio, quello che sto guardando in questo momento. Se potessero parlare, sentenzierebbero sussiegosi che cominciare da qui, da questo lungomare che le luci dell’alba aprono alla nuova giornata, è un errore. Peggio, è lasciarsi catturare da un miraggio. Scambiarlo con la realtà .
Come un tappo sperduto nel mare
In effetti mi sento piuttosto ridicolo nel tentare di intravedere qualcosa, anzi qualcuno, che finché non si avvicinerà sarà solo un’ombra scura sull’orizzonte; un’esile silhouette alla Giacometti appoggiata sul guscio di un kayak.
Quando comincio a cercare con lo sguardo ho l’impressione, tanto è lontano il mio obiettivo, che sia come mettere a fuoco un sughero da pesca, un tappo sopra le onde. Seguendolo tuttavia con un po’ di pazienza capisco che sta procedendo lungo una sua rotta di ritorno al porto, attraverso un mare calmissimo. Un mare che ha una gran voglia di lasciarsi l’inverno alle spalle, approdando alla bella stagione.
I minuti passano e registro il suo avvicinarsi alla riva. All’inizio, almeno due o tre volte l’ho perso di vista e perfino scambiato, ma per un attimo soltanto, con la barca di qualche pescatore che sosta, quasi immobile sulla linea dell’orizzonte, incerto se attendere ancora un poco prima di tirare su la rete o sbaraccare tutto e puntare decisamente verso questa località ligure che, col nome che porta, sembra proporsi come il posto giusto dove scrivere le prime parole di questa esplorazione.
So di dover procedere per tentativi e intuizioni lungo un itinerario soggettivo e dunque fragile e contestabile. Non ho bussola di analisi e statistiche che mi guidino, né bagaglio di esperienze e studi specialistici che mi orientino. Come al solito, sono «curioso di tutto, esperto di niente».
Il posto dove inizio ad individuare le prime parole di un abbecedario di un nuovo che forse è già qui si chiama Lavagna. Quando gli schermi e i monitor non c’erano ancora, la lavagna era già lì, e da tempo, ad accogliere parole tracciate col gesso sulla superficie scura e levigata della sua lastra di pietra. Infinite generazioni – poi, da un certo punto, non più – hanno imparato a denominare, parola per parola, le cose piccole e grandi del mondo che stava loro attorno tenendo ben stretto tra le dita un gessetto. Senza spezzarlo cercavano di guidarlo in un viaggio sempre avventuroso, e non esente da errori e da incertezze, su quella superficie scura.
Forse questo nuovo viaggio non è semplicemente qualcosa di analogo?
Corro il rischio.
Un bar dall’insegna accesa è fiduciosamente pronto ad accogliere i coraggiosi che, caffè bollente e un’addentata al taglio di focaccia di Recco stretto tra pollice e indice, salutano il nuovo giorno. Siamo in pochi ma mi meraviglierei se non fosse così.
Contavo di intravedere l’arrivo di Fabrizio lungo il tratto di mare, segnalato dalle boe, che conduce verso l’ingresso del porto. E invece, come al solito, mi ha spiazzato. Perché la sua imbarcazione, anche se procede tra le onde e pedalando può spingersi a qualche miglio da riva, non è propriamente una barca, è un kayak a pedali. Dunque Fabrizio non è tenuto ad ormeggiarlo in porto. È per questo che, ad un certo punto, mi è sparito davanti agli occhi, proprio quando riuscivo ad intravederlo distintamente. Sono scomparsi dietro uno scoglio, la barca e lui, che ormai stavo osservando in ogni dettaglio, dalla cuffia rossa in testa al giaccone nel quale è imbacuccato, più contro l’umidità che per il freddo, penso, visto che con tutto il pedalare che fa per condurre il kayak a passeggio lungo il mare c’è da stare sicuri che si riscalda a sufficienza.
È sparito perché invece di imboccare il canale ha condotto il kayak verso la spiaggia, dietro gli scogli, e lì, sceso dall’imbarcazione, l’ha portata all’asciutto, sui sassi di pietra nera. Adesso me lo trovo accanto al bancone del bar, ancora in testa la cuffia e un sorriso stampato in faccia perché, essendo vero il detto che «chi dorme non piglia pesci», succede invece che se ci si alza presto, decisamente presto, nel cuore della notte, come lui ha fatto anche questa volta, si viene premiati.
Se il mare non si metterà al brutto uscirà ancora, verso il tramonto, ma, intanto, la giornata se l’è assicurata. Del suo pescato – soprattutto polipi, calamari e qualche cernia e ricciola che hanno abboccato alle esche delle due canne fissate sui bordi dell’imbarcazione, comprata via internet da un costruttore canadese – fa baratto. Da un paio di anni vive così.
Pesca e scambia, traendo dal baratto parte di quello che gli serve per tirare avanti. Escluso pranzo e cena, ovviamente, ché quelli se li garantisce direttamente con ciò che gli offre il mare e con la verdura di un piccolo orto che coltiva a lato della casa dove abita. Quanto finisce sul piatto è di ottima qualità , posso testimoniarlo, visto che a pranzo ho potuto apprezzare la sua cucina.
Sciolto il nodo del mangiare, c’è da sbrogliare quello dell’abitare. Anche qui, a modo suo, lo ha risolto. Nel senso che da qualche anno ha finito di pagare affitti, cosa che, già negli scorsi anni, gli andava di traverso. A lui come a tutti, penso. Però lui ha trovato una soluzione diversa dai molti che si sono impiccati ad un mutuo per andare ad abitare in case che non sono la soluzione ma un problema: quello di abitare nel posto sbagliato, inchiodati ad un mutuo che rende impossibile, da lì in avanti, scapparsene via.
Un tetto al mare lui se lo è procurato qualche anno fa, aiutando un anziano del luogo a sistemare una vecchia abitazione di proprietà che stava andando in rovina. In cambio ha avuto in uso pressoché perpetuo quelle che erano state le stanze del custode. Una costruzione a parte, praticamente appoggiata ad una vecchia palma, generosamente vitale visti i datteri che ancora produce, svettante sul pezzo di terra a lato del sentiero che sale al monte dal mare. Con le sue mani, abili in qualsiasi lavoro artigianale, Fabrizio ha rimesso a posto tutto, mattone dopo mattone e tegola dopo tegola. Si è fatto una casina che pare l’eremo di un monaco. Al piano terra cucina e servizi, scaletta che sale al piano superiore dove l’unico locale è stato diviso in due stanze. Tutto è di pietra, legno, mattoni e mattonelle recuperate dal vecchio edificio e ripulite con pazienza. Ha intonacato i muri esterni di un vibrante rosa aragosta e le persiane di un severo blu marino. I mobili, pochi e di buon gusto, li ha restaurati lui, recuperandoli con occhio sapiente mentre dava una mano a traslocatori che svuotavano case. Dal primo piano ha la vista sul mare e, su un lato, gli fa compagnia un bosco di ulivi secolari che l’amministrazione municipale per un po’ gli ha dato in custodia. Lui ripuliva, tagliava erbacce, teneva aperti i sentieri, riparava le panchine e i tavoli dei luoghi di sosta, da cui pensionati e mamme con bambini piccoli potevano respirare aria buona tenendo d’occhio il mare appena lì sotto. Poi il Comune ha deciso di riprendersi la gestione del parco e il risultato (lo vedrò di lì a poco) non è affatto confortante.
Ma Fabrizio, pur dispiaciuto, è abituato ai cambiamenti, agli alti e bassi, alle svolte improvvise e alle inversioni a ‘U’, che poi quasi sempre non sono davvero tali. Perché, se inquadrate nel modo giusto, sono correzioni di rotta per meglio andare verso l’orizzonte prescelto.
Dagli Appennini alle onde
Al mare ci è venuto dagli Appennini. Dunque dagli Appennini alle onde, scherzano gli amici. Quello che fingono di non capire è che il suo non è stato un bizzarro e improvviso cambiamento di scenario. Piuttosto è stato lo stringere d’appresso una cosa più rilevante del panorama dove si va a vivere. Qualcosa che non si può vedere con gli occhi. Per riuscire a spiegarla va scritta – su quell’immaginaria lavagna di cui si diceva prima – la parola giusta: essenzialità .
Fabrizio, da qualche anno, ha deciso che la ricerca dell’essenzialità , in ogni cosa, lo fa star bene. Lo aiuta a dar senso al suo vivere. Sconfigge le paure che, come succede a tutti, lo incalzano.
Dunque lui, da uomo coerente, ha deciso di puntare a una vita essenziale.
E per capire di cosa si sta parlando è meglio raccontare i fatti. Dopo aver studiato agraria, Fabrizio ha lavorato un po’ come tecnico nei consorzi agrari, collaborando con il padre, e quindi, in cerca di indipendenza economica, visto che si era fatto anche una certa esperienza come fotografo, è approdato a Cologno Monzese, negli studi Mediaset.
A pensarlo lì, adesso, sembra incredibile. Eppure ci ha lavorato e per qualche tempo, non tantissimo ma neppure poco, ha timbrato il cartellino, condiviso giornate con i colleghi, affittato casa in un condominio. Poi un giorno ha capito che non era la vita che voleva fare e che doveva scappare via, al più presto.
Gran camminatore, abituato nel tempo libero ad andare per vallate e crinali, gli è sembrato più che naturale cercare la soluzione nell’Appennino, in quella specie di spina dorsale fatta di boschi silenziosi e di paesini dimenticati che corre lungo tutta l’Italia, dalla pianura padana sino allo stretto di Messina.
Ha lasciato la sicurezza di uno stipendio e di un posto che avrebbero potuto tenerlo in ostaggio sino alla pensione; si è inventato un’altra vita e un altro lavoro. Nell’Appennino, appunto. Per oltre dieci anni, sino alla soglia dei cinquanta, è andato avanti così: si sceglieva un pezzo di Appennino, ci trovava una casa e vi si installava. Detto così, di corsa, significa poco: chi lo ha conosciuto già allora ricorda come ogni abitazione dove ha piantato le tende fosse diversa da quelle precedenti e, al tempo stesso, avesse qualcosa che la univa a tutte le altre. Quelle venute prima e quelle che sarebbero arrivate dopo.
Ognuna prendeva posto in un album ideale dove aveva già la sua pagina pronta ad aspettarla, con una storia che doveva ancora compiersi del tutto ma che tuttavia, appena lui arrivava nei paraggi, cominciava a mettersi in moto.
Ogni volta c’era l’imbattersi in una casa, sì, abbandonata in qualche luogo sperduto, ma che parlava. C’era la ricerca di chi accampava ancora diritti sulla costruzione e poi l’incontro con i proprietari che di solito avveniva dopo una specie di mosca cieca più complicata, surreale, spiazzante della più imprevedibile caccia al tesoro. Qualche esempio? Eredi di emigrati in Argentina rientrati all’improvviso, quasi avessero un appuntamento fissato da tempo con qualcuno che si sarebbe preso cura di quelle quattro mura da cui erano partiti i loro nonni. Oppure vecchie signorine finite in città e che però, in una vecchia torre avvoltolata dalla rosa canina e protetta da un secolare castagno, avevano lasciato momenti della loro infanzia: ed erano felici di affidarla a qualcuno che prometteva di averne cura senza cacciare via i vecchi ricordi. In qualche caso spuntavano pazzarielli che quando Fabrizio finalmente li raggiungeva e mostrava le foto della casa che chiedeva loro di affittargli lo guardavano con benevolenza e gratitudine, folgorati da attacchi di felicità e di quiete. Come se, all’improvviso, scoprissero che la loro follia era un niente rispetto a quella con cui quel giovanotto magro e alto e con gli occhi chiari stava camminando a braccetto.
Una volta trovato dove abitare e sistemata qualche stanza alla meglio, eccolo affrontare ogni giornata esattamente come aveva deciso dovesse essere. Con la macchina fotografica a tracolla e il blocco degli appunti in tasca, percorreva crinali e cime, vallate e paesi abbandonati che gli stavano attorno. Un anno, un anno e mezzo. Il tempo sufficiente, di solito, per tirar fuori strepitosi volumi fotografici che poi stampava e vendeva in proprio, puntando soprattutto sulle sagre estive giù nelle vallate e su serate di presentazione che lo portavano in un’infinità di posti dove, ogni volta, lo stimavano e apprezzavano.
La sua traiettoria è partita dall’estremo occidente, ai confini della Francia, e il suo progetto era di percorrere tutti gli Appennini, anno dopo anno, vallata dopo vallata. E di raccontarli con altrettanti libri. Ma, arrivato quasi al confine tra la Liguria e la Toscana, è accaduto qualcosa che lo ha convinto a cambiare vita.
Sarà stato che, a furia di camminare lungo quei crinali, ci si abitua al mare che fa compagnia appena lì sotto. Si assapora il salmastro e si respira al ritmo di quel mondo liquido che, a differenza delle rocce e delle montagne, non sta fermo un attimo. «Quando sono fuori in mare, sul mio kayak, anche se è notte o fa freddo, non ho mai pensieri tristi o le paure di un tempo. Quello che penso e quello che sto vivendo in quel momento non sono più distaccati, in contraddizione o ostili. Sono una sola cosa».
Un filo che tutto tiene
Forse l’essenzialità è la capacità di avere, dentro di sé, un unico sentire. Di stare dentro una vita che pare attraversata da un filo teso che tiene assieme tutto. Un filo persino più resistente di quello che reggeva l’esca alla quale, lo scorso novembre, gli si è agganciato un tonno di una ventina di chili. E questo proprio mentre il sole stava scendendo deciso sull’orizzonte e a Fabrizio pareva il momento di pedalare con il kayak verso casa.
Il rischio – mi dice rievocando quell’avventura, dopo che abbiamo pranzato, davanti a una tazza di caffè fumante – era quello di finire in un disastroso e per niente comico replay di Il vecchio e il mare di Hemingway.
Perché il tonno, una volta capito che liberarsi non poteva e che...