Storia d'Italia dal 1861 al 1997
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Informazioni

Argomento
Historia

Capitolo undicesimo. Teoria e prassi del fascismo

1. La struttura organizzativa del fascismo e i suoi uomini

Una volta liberatosi, nel 1925, di tutti gli organi di opinione indipendenti, Mussolini poté dedicare gli anni immediatamente seguenti a trasformare gradualmente la natura dello Stato in senso autoritario e personale. In tutta Italia i podestà di nomina governativa soppiantarono in ogni città e villaggio i sindaci elettivi. Nel gennaio 1925 venne nominata una commissione di «diciotto Soloni», incaricata di riformare la costituzione. Nel dicembre di quello stesso anno venne data per legge una nuova configurazione giuridica alla carica di presidente del Consiglio, trasformata in quella di capo del governo, il cui titolare non era più un semplice primus inter pares ma era individualmente e direttamente responsabile verso il re soltanto. Mentre a norma dello Statuto del 1848 era il sovrano a nominare e licenziare i ministri, ora in pratica poteva farlo solo su proposta di Mussolini, e ogni questione, prima di essere sottoposta al consiglio dei ministri, doveva essere preventivamente approvata dal Duce. L’unica voce, o quasi, a levarsi contro tutto questo fu quella di Gaetano Mosca. Una legge del gennaio 1926 conferì a Mussolini la facoltà di emanare decreti con forza di legge – oltre centomila decreti-legge furono emanati sotto il fascismo, con la conseguenza di complicare l’attività amministrativa e giurisdizionale fino a renderla impossibile se fossero stati effettivamente rispettati. La persona di Mussolini fu dichiarata inviolabile, e, dopo gli attentati di Zaniboni nel 1925 e dell’irlandese Miss Gibson nel 1926, fu stabilita la pena di morte anche per il reato di semplice complotto contro la sua vita.
In base a una legge del dicembre 1928 Mussolini entrò in possesso della pienezza del potere quando il re perse la sua prerogativa di designare il presidente del Consiglio. Quando infatti venne data al Gran Consiglio del fascismo la facoltà di presentare una lista di nomi nel novero dei quali avrebbe dovuto essere scelto il successore di Mussolini, il re non fece obbiezioni. Questa trasformazione del Gran Consiglio in organo dello Stato fu una innovazione costituzionale di cui il Duce era particolarmente fiero. Il segretario del Gran Consiglio fu sempre anche segretario del partito. Mussolini soltanto aveva diritto di convocarlo e di nominarne i componenti; ne era per diritto il presidente, decideva sull’ordine del giorno e se ne servì come mezzo per controbilanciare i ministeri. Gli conferì perfino il diritto nominale di interferire nella successione al trono, dato che il principe ereditario Umberto era considerato un sostenitore piuttosto tiepido del regime. Al di là di queste attribuzioni teoriche, non risulta tuttavia che il Gran Consiglio abbia avuto molta importanza fino al giorno in cui, nel luglio 1943, quasi inavvertitamente si rivoltò contro il suo stesso creatore per rovesciarlo.
Una nuova legge elettorale del settembre 1928 modificò ancora una volta il sistema rappresentativo. I candidati sarebbero stati scelti in futuro in base a una lista redatta dai sindacati operai e padronali. Dai nomi di questa lista il Gran Consiglio avrebbe estratto i candidati da sottoporre in blocco all’approvazione o al rifiuto dell’elettorato. Soltanto nell’eventualità, in pratica irrealizzabile, che la lista così presentata venisse respinta si sarebbero tenute elezioni in cui, ipoteticamente, avrebbero potuto essere presentate liste concorrenti.
Illustrando questo disegno di legge, Mussolini dichiarò al senato che il suffragio universale non era che una finzione convenzionale; e che lo Statuto era morto e sepolto, non perché fosse stato abolito, ma perché l’Italia era ora profondamente diversa da quella del 1848. I senatori che erano lì a sentire discorsi di questo genere erano ancora per la maggior parte i liberali nominati da Giolitti e Orlando, ma una controrisoluzione proposta da Ruffini ottenne soltanto quarantasei firme. Albertini coraggiosamente osservò che erano stati i popoli liberi a vincere la guerra mondiale, mentre quelli governati da regimi più o meno dispotici erano stati sconfitti o erano stati eliminati dalla lotta prim’ancora del suo termine. Aggiunse di essere superstite di un liberalismo che, anche se sconfitto, non poteva accettare il disonore; e che pertanto, memore del giuramento prestato nel prendere possesso del suo ufficio di senatore, sentiva in quell’ora il dovere di riaffermare la sua fede incrollabile in quei princìpi che il disegno di legge in questione negava.
Centinaia di nuovi senatori sommersero ben presto questi superstiti di un’età antidiluviana; e, poiché diventò di rigore che in alcune occasioni tutto l’alto consesso portasse le uniformi fasciste e gridasse gli slogan e gli inni rituali, i liberali preferirono di solito tenersi lontani dal senato.
A conclusione delle elezioni del 1929, venne ufficialmente dichiarato che 136.000 voti erano andati contro la lista unica governativa, ma questa cifra potrebbe essere stata una pura invenzione. Le successive elezioni del marzo 1934 diedero soltanto quindicimila voti contrari, nonostante che, secondo i dati ufficiali, avesse votato il 95% dell’elettorato. Si tratta di cifre sospette e improbabili, visto il numero di poliziotti distribuiti sul territorio per reprimere qualsiasi manifestazione di dissenso. Plebisciti di questo genere erano una espressione artificiosa dell’opinione pubblica e stanno semplicemente a indicare quanto in circostanze simili fosse facile manipolare le elezioni in modo da ottenere i risultati voluti.
Ciò non vuol dire tuttavia che Mussolini non rappresentasse la volontà del paese. C’era molta opposizione, ma questa non poteva farsi sentire, e là dove la gente ricercava la prosperità e la sicurezza più che la democrazia, il Duce usava la sua innegabile abilità nella propaganda per persuaderli di essere in grado di offrire entrambi questi beni. La dittatura plebiscitaria fu una veridica, anche se distorta, manifestazione di democrazia. Altri uomini politici avevano già scoperto nel corso della storia che libertà ed eguaglianza potevano essere antitetiche anziché complementari, e che, abilmente dirette, le masse possono servire a rendere ancor più autocratico un dittatore. Gli argomenti a favore del Leviatano diventavano spesso tanto più attraenti quanto più la situazione internazionale diveniva difficile e i problemi di governo complessi. Le libertà interne potevano sembrare troppo costose se le si facevano apparire come portatrici di divisioni, lungaggini, e forse di inefficienza. E fu così che Mussolini poté instaurare quella che egli chiamava una democrazia autoritaria e centralizzata e parlare in tono sprezzante del cadavere in putrefazione della libertà con l’approvazione di gran parte del paese.
Il principale organo della rivoluzione era il Partito fascista, e accanto a ogni istituzione esistente dello Stato sorse un insieme di istituti paralleli dipendenti dal partito: la milizia fascista accanto all’esercito, il saluto romano accanto al saluto militare, il tribunale speciale di partito accanto agli organi della magistratura ordinaria, e il federale accanto al prefetto. C’era pure palazzo Venezia che, da quando Mussolini ne fece nel 1929 la sua residenza di lavoro, sopraffece il Quirinale e divenne centro di clientelismo e di sottogoverno; mentre l’inno fascista, Giovinezza, cominciò ben presto a prendere, con grande disappunto del re, il posto della Marcia reale. Al vertice, il Duce del fascismo era contemporaneamente il capo del governo, e queste due cariche vennero in breve volgere di tempo a identificarsi l’una con l’altra. Il partito stava identificandosi a poco a poco con lo Stato. La legge fascista divenne la sola legge effettiva. La trasformazione della milizia in un corpo regolare delle forze armate trasferì un onere finanziario quanto mai rilevante dai sostenitori del partito ai contribuenti. Nello stemma dello Stato faceva ora bella mostra di sé il simbolo del partito, il fascio littorio. Il segretario del partito finì con l’acquistare rango di ministro e con il prendere parte alle sedute del gabinetto; egli divenne altresì membro di diritto del Consiglio nazionale di difesa e del Consiglio superiore della pubblica istruzione; e arrivò ad avere la precedenza sugli ambasciatori e sui generali nelle cerimonie ufficiali e nelle funzioni di corte.
Nel partito vi era una tendenza a una sempre maggiore centralizzazione; e durante tutto il 1923 continuò una purga degli elementi direttivi provinciali a mano a mano che le organizzazioni fasciste locali venivano più rigorosamente subordinate a Roma. Varie volte, prima del 1925, i «ras» locali si erano ribellati e avevano addirittura sconfessato il loro capo, ma ciò non accadde più fino al 1943. Dal 1926 in poi il Gran Consiglio non fu più eletto dal congresso annuale del partito, ma fu nominato dall’alto: i superuomini si eleggono da soli, dichiarò Mussolini. Il Gran Consiglio aveva poi il potere di scegliere il segretario del partito, e quest’ultimo nominava i segretari provinciali che insieme formavano il consiglio nazionale fascista. I segretari provinciali a loro volta nominavano i funzionari minori dei fasci locali.
Il numero degli iscritti al partito variò sensibilmente da periodo a periodo, in quanto si oscillava stranamente fra il volerlo considerare come un’organizzazione di massa oppure come una élite. La tessera fascista era di solito un requisito indispensabile per un gran numero di impieghi. Ma a volte venivano decretate purghe piuttosto ampie, quando il partito era considerato troppo poco malleabile o dilaniato dalle fazioni. Il suo nucleo duro era costituito dai fascisti «della prima ora», dai «sansepolcristi», che avevano dato vita al movimento del 1919 e che spesso continuavano a dargli tono. Costoro ottennero speciali privilegi e vantaggi economici, come pure tutti i fascisti «antemarcia» (autentici o presunti); e questo contribuì a perpetuare gli elementi facinorosi al vertice della nuova classe dirigente dell’Italia.
Erano pochi i leader del partito che fossero più che mediocri. Nella maggior parte erano ignoranti, avidi, e incompetenti; si contendevano i posti spargendo voci calunniose contro i rivali, oppure si tenevano alto reciprocamente il morale organizzando gli uni per gli altri manifestazioni di massa «spontanee». Con l’eccezione forse di D’Annunzio e Marconi, non c’era alcun italiano vivente per il quale Mussolini provasse ammirazione. Quando più tardi egli si lamentò del fatto che i dirigenti del partito lo avevano abbandonato, l’unica risposta appropriata avrebbe dovuto essere che aveva avuto i subordinati che si meritava e che egli stesso del resto aveva promosso ai ranghi più elevati. In effetti, Mussolini alimentava deliberatamente le loro rivalità e le loro divergenze d’opinioni: Ciano contro Balbo, Farinacci contro Federzoni, Graziani contro Badoglio, la milizia contro l’esercito, la polizia contro i gerarchi di partito. Spesso egli sostituiva quasi tutti i ministri e i dirigenti di partito in una volta con radicali «cambi della guardia», e si vantò pubblicamente del fatto che amava annunciare questi cambiamenti senza neppure sentire in precedenza coloro che intendeva promuovere o destituire. Era questa una illuminante manifestazione di quello che sarebbe diventato noto come ducismo.
I segretari di partito andarono incontro nella maggior parte a un rapido avvicendamento, in quanto si voleva evitare che uno qualsiasi di loro potesse acquistare un’influenza eccessiva o crearsi un seguito personale. Nel 1923 Michele Bianchi fu sostituito da Sansanelli, e questi nel 1924 da Giunta. Nel 1925-1926 la carica fu ricoperta da Farinacci, uno degli elementi rozzi e brutali della gerarchia fascista, anticlericale e (quando gli convenne) antisemita. Il suo successore, Augusto Turati, fu infine accusato di immoralità e sospettato di essere affetto da una malattia mentale, e finì confinato a Rodi. Seguirono poi Giuriati, Starace, Muti e Serena; di questi soltanto Starace rimase in carica abbastanza a lungo per poter esercitare una notevole influenza – un «cretino», diceva Mussolini, «ma un cretino obbediente». Nel 1941, infine, venne nominato con Vidussoni un segretario del partito poco più che ventenne, del quale nessuno sapeva nulla salvo che era stato bocciato agli esami e che si era guadagnato una medaglia al valore. Dopo di lui venne Scorza, un altro sanguinario capo delle prime bande fasciste.
I figli di Mussolini vivevano all’ombra del padre. Bruno dirigeva una linea aerea con l’America del Sud e Vittorio tentò di mettersi a capo dell’industria cinematografica. La loro sorella Edda aveva un carattere più risoluto. Il fratello minore di Mussolini, Arnaldo, era un uomo dotato in qualche misura di coscienza e di spirito religioso, e fu una delle poche persone che riuscì a conservare l’affetto e la fiducia del Duce. Il suo compito principale fu di dirigere «Il Popolo d’Italia».
Verso gli altri capi fascisti Mussolini nutriva sempre una certa diffidenza e qualche volta con ragione. Emilio De Bono aveva cinquantasei anni nel 1922; era un mediocre generale dell’esercito, che contribuì ad organizzare la milizia, e che Mussolini fece giustiziare nel 1944. Italo Balbo aveva solo ventisei anni nel 1922, era cioè di tredici anni più giovane del Duce. Il più schietto e coraggioso dei fascisti, era sempre un frondista con ambizioni proprie, ed era sospettato di far la corte al principe Umberto nella speranza di succedere un giorno nel potere supremo. Mussolini aveva un certo timore di Balbo, ed era del pari invidioso della sua giovinezza. Alla fine questo potenziale rivale fu abbattuto nel 1940 dalle batterie contraeree italiane, probabilmente per errore. Più anziano dei precedenti era Cesare De Vecchi, una figura davvero ridicola, creato conte di Val Cismon, poetastro e pseudo-accademico, oggetto costante di scherno da parte dei suoi colleghi, il quale nel 1943 contribuì a rovesciare Mussolini. Dino Grandi era un altro giovane fascista della prima ora, brutale e insensibile comandante di squadre d’azione. Lui pure nutriva l’ambizione di succedere un giorno a Mussolini o di sostituirlo. Il suo principale compito ufficiale fu quello di riempire il ministero degli Esteri di funzionari di partito, e più tardi fu inviato ambasciatore a Londra. Grandi era un diplomatico competente, ma fu sempre ossequioso e servile verso Mussolini, finché nel luglio 1943 non abbandonò anche lui la nave in procinto di affondare.
La nuova generazione era rappresentata da Galeazzo Ciano, il cui padre aveva accumulato una fortuna a capo del ministero delle Comunicazioni. L’ascesa del giovane Ciano fu rapida, e nel 1936 diventò ministro degli Esteri all’età di trentaquattro anni. Figurava bene a paragone dei suoi colleghi, capace di sopperire con la scaltrezza e anche con una certa intelligenza alla mancanza di cultura; ma era corrotto e debole, estremamente superficiale, pigro, frivolo e senza carattere. A quanto si diceva, era generoso nel distribuire i fondi segreti ai suoi amici dell’alta società romana. Essi trovavano in lui praticamente l’unico fra i di...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Capitolo primo. L’Italia prima del 1861
  3. Capitolo secondo. La situazione politica ed economica intorno al 1861
  4. Capitolo terzo. Il primo decennio (1861-1871)
  5. Capitolo quarto. La nazione si afferma (1870-1882)
  6. Capitolo quinto. L’agitato periodo crispino (1880-1893)
  7. Capitolo sesto. Sconfitta coloniale e reazione politica (1893-1900)
  8. Capitolo settimo Giolitti e le riforme liberali (1900-1911)
  9. Capitolo ottavo. I prodromi della guerra
  10. Capitolo nono. La guerra e il dopoguerra (1915-1922)
  11. Capitolo decimo. La rivoluzione di Mussolini (1922-1925)
  12. Capitolo undicesimo. Teoria e prassi del fascismo
  13. Capitolo dodicesimo. Declino e caduta di un impero romano
  14. Capitolo tredicesimo. La trasformazione dell’Italia (1943-1969)
  15. Capitolo quattordicesimo. La democrazia italiana in crisi
  16. Capitolo quindicesimo. Una soluzione provvisoria (1996-1997)
  17. Appendice