Senza controllo
Verso l’estinzione dello Stato
La deriva verso una italianissima forma di estinzione dello Stato costituzionale di diritto ha conosciuto in più occasioni una potente accelerazione. Parlo di «deriva» e di «accelerazione» perché si tratta di una vicenda che non è esplosa all’improvviso, che conosce una lunga incubazione e verso la quale non è stata mai elaborata una adeguata strategia di contrasto, politica e culturale. Mai, però, si era manifestata con tanta nettezza, ampiezza e brutalità, mettendo in discussione l’intero impianto dello Stato repubblicano. E l’attacco è frontale, vuole colpire lo stesso patto fondativo della Repubblica: la Costituzione.
La Costituzione si conclude con un articolo che oggi esige una particolare attenzione. Dice l’articolo 139: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Questo non vuol dire, banalmente, che non si può tornare alla monarchia. Significa che il nostro sistema costituzionale presenta una serie di caratteristiche che definiscono la nostra «forma repubblicana» e che non possono essere modificate senza passare ad un regime diverso. È una linea che la Corte costituzionale ha indicato fin dal 1988, quando ha affermato con forza che vi sono «principi supremi» che non possono essere «sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale». Non è vero, dunque, quel che va confusamente ma aggressivamente dicendo il Presidente del Consiglio, quando proclama il suo diritto di imporre qualsiasi cambiamento della Costituzione.
Guardiamo alle proposte e alle iniziative. Si vuole passare da una Repubblica parlamentare a una presidenziale. Si vuole passare da un sistema di scelta dei rappresentanti a uno di investitura diretta del premier, con una personalizzazione estrema del potere che assume inevitabilmente caratteri autoritari. Si vuole passare da un sistema di mediazioni istituzionali ad uno che si organizza intorno al rapporto diretto tra capo e popolo, e così assume una innegabile natura plebiscitaria. Si vuole passare da un sistema di separazione dei poteri, di pesi e contrappesi, ad un sistema di concentrazione del potere che sostanzialmente cancella ogni forma di controllo. Si vuole passare definitivamente ad un sistema dove i circuiti istituzionali sono sostituiti da quelli della comunicazione, sì che il controllo totalitario di questi ultimi viene presentato come una necessità perché il governo possa realizzare senza inciampi il suo programma, con l’inevitabile conseguenza che chiunque usi i mezzi di comunicazione per esprimere critiche venga considerato come un oppositore illegittimo perché non accreditato dal voto popolare. In definitiva, si vuole passare ad un sistema che concentra la legittimazione politica in un solo luogo, nelle mani del premier. E in questo modo si vanificherebbero anche le garanzie delle libertà e dei diritti contenute nella prima parte della Costituzione, che ipocritamente si dice di non voler toccare.
Ho elencato sinteticamente l’insieme delle proposte perché il senso di quel che può accadere, e in parte sta già accadendo, può essere colto solo se si hanno presenti gli effetti cumulativi che si determinerebbero se andassero in porto le «riforme» di cui si sta parlando. Abbiamo di fronte un bricolage costituzionale realizzato anche attraverso la scelta in diversi sistemi stranieri di strumenti di tipo autoritario, senza tener conto di quello che, negli stessi sistemi, rappresenta contrappeso o garanzia. Il risultato sarebbe una forma di Stato e di governo che costituirebbe davvero un unicum, senza alcun possibile paragone con i modelli presenti negli altri paesi democratici.
È bene ricordare che un progetto di riforma costituzionale assai più blando di quello oggi prospettato venne respinto con un referendum, nel giugno 2006, dal 61,3% dei votanti – quindici milioni di cittadini contro nove. Non nei tempi terribili della Prima Repubblica, dunque, ma dopo cinque anni di governo berlusconiano, la Costituzione repubblicana venne massicciamente confermata da una vera consultazione popolare, non da un sondaggio. Da parte di chi invoca contro tutti e tutto la volontà del popolo, ci si poteva attendere una qualche memoria di quell’evento. Ma, evidentemente, la volontà popolare funziona a corrente alternata, e vale solo quando produce risultati congeniali ai desideri degli attuali governanti.
Altrettanto insincero è l’argomento dell’efficienza istituzionale, così spesso evocato per giustificare la richiesta di riforme radicali. Se, infatti, vi è in Italia una istituzione che ha sempre funzionato in maniera efficiente, questa è la Corte costituzionale. Parlare oggi di una sua riforma risponde ad una finalità affatto diversa, appunto quella di liberarsi di una istituzione di garanzia che ha le sue radici in una tradizione liberaldemocratica ormai consolidata, che ha indicato nella Costituzione un limite che il Parlamento non può superare con la legislazione ordinaria e, quando si tratta di principi, neppure attraverso la revisione costituzionale. All’Assemblea costituente si era ben consapevoli della necessità di frenare la «tirannia della maggioranza», di non considerare il voto con il quale i cittadini eleggono deputati e senatori come un salvacondotto, tanto che Palmiro Togliatti, legato a una idea di sovranità popolare tutta risolta nel Parlamento, definì la Corte costituzionale «una bizzarria».
Questi esempi mostrano, se ancora ce ne fosse bisogno, non solo la pericolosa strumentalità delle proposte in circolazione, ma la scomparsa della cultura costituzionale. Basta riflettere un momento sulla pretestuosità degli attacchi alla «politicità» della Corte costituzionale, con argomenti e conteggi che ignorano gli stessi dati di fatto. Il Presidente del Consiglio ha parlato di «undici giudici di sinistra nominati dagli ultimi tre Presidenti della Repubblica», dimostrando così di non aver mai letto l’articolo 135 della Costituzione, che fissa in cinque il numero dei componenti della Corte di nomina presidenziale; e di non sapere che, comunque, Napolitano ne ha nominato uno solo, certamente non ascrivibile alla sinistra, che nessuno di quelli scelti da Scalfaro fa più parte della Corte e che almeno uno di quelli nominati da Ciampi ha votato a favore del Lodo Alfano. È una contabilità necessaria per chiarire quale sia la realtà, ma è estremamente mortificante, perché riduce i giudici della Corte a pedine mosse dall’esterno. Ignoranza e manipolazioni a parte, l’argomento della politicità della Corte serve per rimettere in campo la tesi secondo la quale dovunque vi sia direttamente o indirettamente politica deve valere l’allineamento alla maggioranza del momento.
Questo è, appunto, un argomento distruttivo della logica costituzionale. Se l’unica misura è l’investitura popolare, se questa scioglie i governanti persino dal rispetto delle leggi, se tutte le istituzioni devono allinearsi, se la funzione di garanzia diventa «eversiva», a che cosa serve la Costituzione? Siamo ormai a questo punto, dobbiamo renderci conto che nelle ultime settimane è stato varcato un confine estremo, che una reazione continua e consistente è indispensabile per evitare il punto di non ritorno. Spero che questa traumatica esperienza faccia rinsavire quanti, a destra e a sinistra, da molto tempo hanno colpevolmente perduto il senso profondo del valore della Costituzione e, dentro e fuori da commissioni bicamerali, la hanno ritenuta un documento giuridico come gli altri, che poteva essere piegato a fini congiunturali, spogliandola così di quel significato simbolico nel quale pure risiede la sua forza. Per questo, all’inizio, parlavo di una deriva che viene da lontano.
Ma Berlusconi annuncia una strategia difensiva che aumenterebbe il degrado costituzionale. Non soltanto ha proclamato l’attacco finale ai giudici. Ha parlato di una difesa non solo in sede giudiziaria, ma anche e forse soprattutto attraverso i mezzi d’informazione. Alcune altre domande, allora. Ha mai avuto sentore dell’esistenza di un Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive, firmato il 21 maggio del 2009 anche dal dottor Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset? Vorrà dare un’occhiata a quel che vi è scritto, in particolare a quel che riguarda il rispetto del «principio del contraddittorio»? Poiché ha annunciato di voler rivelare di quale «pasta» siano fatti i suoi contraddittori, si rende conto che si tratterebbe di giudici che, per rispetto delle regole della loro professione, non potrebbero farlo inseguendolo in questo o quel talk show? Consapevole di tutto ciò, e dell’alta funzione pubblica che ricopre, non dovrebbe rinunciare a questo suo proposito, affidandosi alla difesa tecnica e limitando le sue personali difese alla sola presenza nelle aule di giustizia?
Povero Parlamento
Che effetto fa vivere in un paese dove il Presidente del Consiglio dichiara di voler chiudere il Parlamento? Non lasciamoci rassicurare da chi dice che questa proposta «cadrà nel vuoto». Non banalizziamo, non derubrichiamo a battuta occasionale un’affermazione così pesante, secondo un costume invalso da un po’ di tempo e che ha portato al degrado del linguaggio e della politica. Le parole aggressive della Lega sono state un potente veicolo di promozione degli spiriti razzisti. Lo stillicidio delle dichiarazioni di Berlusconi contribuisce a distruggere gli anticorpi che consentono ad un sistema di rimanere democratico. Soprattutto, non isoliamo queste affermazioni del Presidente del Consiglio da un contesto ormai caratterizzato da un quotidiano attacco alla Costituzione.
Si vogliono mettere le mani sulla prima parte della Costituzione, proprio quella che, a parole, si dice di voler tenere fuori da ogni proposito di riforma. La legge all’esame del Senato sul testamento biologico viola la libertà personale e l’autodeterminazione delle persone, che la Corte costituzionale, con una sentenza della fine del 2008, ha dichiarato essere un «diritto fondamentale». Si mettono in discussione la libertà d’espressione e il diritto dei cittadini ad essere informati con la legge sulle intercettazioni telefoniche. Si nega il diritto alla salute come elemento essenziale della moderna cittadinanza quando si propone che i medici possano denunciare un immigrato irregolare la cui unica colpa è la richiesta di cure. Si privatizza la sicurezza pubblica legittimando le ronde, con una pericolosa abdicazione dello Stato a una delle funzioni che ne giustificano l’esistenza. Si avanzano proposte censorie che riguardano Internet. Si erodono le garanzie della privacy per improprie ragioni di efficienza.
Non era mai accaduto che il nostro sistema politico vivesse quotidianamente ai margini della legalità costituzionale, che si dubitasse della costituzionalità di tutte le leggi di qualche peso in discussione alle Camere. Si altera così il funzionamento del sistema istituzionale, e si trasferisce l’intero compito di garantirne il corretto funzionamento ai «due custodi», il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale, di cui si accentuano le responsabilità e la politicità. E si dimentica che proprio la cultura costituzionale segna la politica e la civiltà di un paese.
Distogliamo per un momento lo sguardo dalle nostre lacrimevoli vicende, e rivolgiamolo agli Stati Uniti. Barack Obama non sta soltanto liberando il suo paese da inammissibili vincoli, come quelli sul divieto del finanziamento pubblico alla ricerca sulle cellule staminali embrionali, mostrando come sia possibile e necessaria una politica lungimirante e svincolata da ipoteche fondamentaliste. In un documento indirizzato a tutti i responsabili dell’amministrazione federale, Obama ha scritto che, «esercitando la mia responsabilità nel decidere se una legge sia incostituzionale, agirò con prudenza e misura, basandomi unicamente su interpretazioni della Costituzione che siano solidamente fondate». Qui è evidente l’imperativo di allontanarsi dalle pratiche lesive dei diritti dell’amministrazione Bush, proprio per ricostituire quegli anticorpi democratici la cui distruzione stava minando la coesione interna e la stessa credibilità degli Stati Uniti.
Quale distanza, quale abisso ci separano da questa volontà di ridare la bussola costituzionale al funzionamento dell’intero sistema politico, e quale deriva ci sta travolgendo proprio perché stiamo abbandonando quella bussola. Grande, allora, diviene la responsabilità della cultura che si cimenta con il tema della Costituzione, e con il modo in cui oggi si deve guardare ad essa.
Le reazioni, gli atteggiamenti sono diversi. Si è diffidenti verso una difesa della Costituzione che sembra fine a se stessa, che non tiene nel giusto conto la dimensione della politica. Giusta preoccupazione a condizione, però, che la sacrosanta invocazione di una politica non più latitante abbia quei solidi fondamenti che, per le ragioni appena accennate, debbono essere trovati proprio nei principi costituzionali. Oggi più che mai abbiamo bisogno di una politica «costituzionale».
Della legittimità stessa di questa politica si dubita quando si mette in evidenza che proprio la prima parte della Costituzione, quella delle libertà e dei diritti, è segnata da un inaccettabile statalismo, dall’accentuazione di una funzione protettiva delle istituzioni pubbliche che apre la porta alle tentazioni stataliste. È singolare, o rivelatore, il fatto che questo atteggiamento ritorni giusto nel momento in cui i guasti enormi della economia deregolata hanno fatto emergere una imperiosa richiesta di regole. Disturba, ad esempio, il fatto che si adoperi la parola «tutela» quando ci si riferisce al compito della Repubblica in materia di salute. Riattraversiamo nuovamente l’Atlantico e approdiamo ancora una volta negli Stati Uniti dove, proprio in materia di salute, si è verificato un gigantesco fallimento del mercato, che ha combinato la crescita dei costi con l’esclusione dalle garanzie di un quinto della popolazione americana (con conseguenze al momento drammatiche, visto che la disoccupazione porta con sé anche la perdita dell’assicurazione per la salute, agganciata com’è al contratto di lavoro). Non è un caso che la riforma del sistema sanitario sia stata un punto chiave del programma del nuovo Presidente. Dovremmo abbandonare gli approdi sicuri di cui disponiamo per veleggiare verso i lidi di un qualche liberismo?
Si torna, poi, a ripetere che la nostra Costituzione dovrebbe essere modificata perché non dà spazio adeguato al riconoscimento del mercato. Ma è davvero qui l’ostacolo alle politiche economiche? Che cosa dovrebbero dire, allora, i tedeschi? Nella loro Costituzione si parla di una proprietà che impone obblighi e il cui «uso deve al tempo stesso servire al bene della collettività», e si conserva una norma che prevede la «socializzazione» dei mezzi di produzione. La verità è che rimane forte il fastidio per un contesto che vuole il mercato rispettoso dei diritti fondamentali. Non dimentichiamo che, in un paese segnato dalle morti sul lavoro e che poggia sullo sfruttamento del precariato e del lavoro nero, si è arrivati a proporre l’abrogazione dell’articolo 41 dell...