Prima lezione di estetica
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Prima lezione di estetica

  1. 164 pagine
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Prima lezione di estetica

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Informazioni

Filosofia e poesia

1. «Ciò che non si può dimostrare, deve essere raccontato». Ecco la formula o il segnale d’un mutamento di paradigma (per usare la celebre espressione introdotta da Thomas Kuhn ed entrata in uso) se non d’una rotazione dell’asse filosofico: dalla sempre più diffusa estetizzazione del sapere all’identificazione della filosofia con un genere letterario fra gli altri. Esito, questo, già presente nell’idea che anche la scienza sia da contestualizzare all’interno di un più ampio orizzonte storico e linguistico, ma riconoscibile anche nella tesi che la filosofia (la filosofia della storia specialmente) non abbia valore se non come autocomprensione di scelte etico-religiose o addirittura come forma di invenzione romanzesca.
Più che una linea di tendenza, un fatto. È un fatto il tentativo diffuso di riportare a una dimensione originariamente mitopoietica non solo la filosofia, ma la stessa impresa scientifica. Così com’è un fatto che questo tentativo, pur variamente contestato, abbia potuto svilupparsi in direzioni opposte o quasi. Ma il problema resta. Ed è tutto da affrontare.
Il presunto scacco della ragione fondativa e dimostrativa ha prodotto per un verso la messa al bando della nozione di verità, ma per l’altro ha permesso di ritrovarla al suo livello più basso, al suo grado zero: dove la verità non è più verità perché è scambio comunicativo, conversazione infinita, fonte di dialogo (e così via). Ma siamo sicuri che, rinunciando alla dimostrazione, la ragione filosofica venga necessariamente a trovarsi di fronte a un’alternativa secca? Per cui delle due l’una: o la filosofia si autocensura e si costringe al silenzio, oppure si appella a un argomentare irrimediabilmente equivoco (equivoco a misura che reclama il consenso a nome della verità, ma dopo che la verità è stata negata; pretende di tener separate conoscenza e racconto, ma dopo aver fatto cadere l’una nell’altro; vuol aver valore demitizzante, ma senza aver coscienza del proprio carattere mitico e cioè non solo argomentativo, ma anche ermeneutico, simbolico, metaforico)?
Tutto dipende dalla decostruzione genealogica del problema. Se a partire da Nietzsche («il mondo è diventatato favola») o dal progetto romantico («il mondo deve diventare favola»). Nel primo caso, la verità è tolta, con la conseguenza che il sapere interpretativo e non dimostrativo finisce con l’essere risolto in affabulazione. Nel secondo caso la verità è ritrovata nel cuore della favola, e allora la favola, il racconto, la poesia diventano il luogo stesso della filosofia: e questo non significa assolutamente ridurre la filosofia a mitologia, ma semmai fare del «mito» (favola, racconto, poesia) il suo contenuto più proprio e il fondamento su cui originariamente si basa. Quella che in tal modo verrebbe a delinearsi è una via che sfugge all’alternativa di cui sopra. E piuttosto che portare dove filosofia e poesia confliggono o si sovrappongono, indica un più profondo nesso fra le due.
2. Come il «mondo vero» sia infine diventato favola, Nietzsche pretende spiegarlo tracciando in un passo cruciale del Tramonto degli idoli la «storia di un errore». Nietzsche vuol mostrare il dissolversi della «verità» – secondo verità, però, in modo veritiero. E questo significa negare la verità e nello stesso tempo confermarla, tenerne fermo il concetto. Solo provvisoriamente, però. Ossia fino a che dell’opposizione di apparenza e realtà non ne è più nulla. E quindi neppure della verità (e dell’errore). Che storia è questa, allora?
Il mondo vero non è che illusione, credenza, oggetto di fede, ma perché ciò venga in chiaro è necessario un lungo processo. Dapprima il mondo vero sembra appartenere all’uomo saggio, pio, virtuoso, ma per farsi via via sfuggente e diventare una promessa di felicità futura, un premio alla virtù o un frutto di quella forma di sacrificio e di ascesi spirituale che è l’espiazione. Poi, è la collocazione del mondo vero nell’aldilà ad apparire non più degna di fede. Tesi, questa, cui tuttavia fa da contraltare l’idea che tale mondo ultraterreno, con tutto il corteo delle promesse che contiene, valga comunque come una consolazione e come un ideale regolativo. Un’idea, appunto: cioè qualcosa d’irreale, pallido, sfumato, che ha la natura dei sogni. Non solo, ma anche irraggiungibile e inconoscibile. E se inconoscibile, come potrebbe avere ancora valore d’obbligazione? Idea che non è nient’altro che idea: inutile, vuota, da liquidare.
Dunque, è il mondo vero, è la verità che alla fine si rivela come illusione. Ma chi rivela che cosa a chi? La verità rivela sé a se stessa (e a chi se no?) come illusione, come non verità. Donde una contraddizione. Che però Nietzsche evita in due modi.
Da una parte egli distingue fra mondo vero e verità: quello è oggetto della volontà (siamo noi che vogliamo che sia, anche se di fatto non è), questa invece risulta da un atteggiamento d’altro ordine. La verità, secondo Nietzsche, è frutto di un «metodo rigoroso», a fronte del quale, come si legge in Umano, troppo umano, i dogmi della religione e della metafisica non sono più credibili. Infatti la verità e la volontà che qualcosa sia vero appartengono a mondi differenti e contrapposti (come già aveva sostenuto nell’Anticristo), senza contare che «ci sono anche fatti, e non solo interpretazioni» (leggiamo nei Frammenti postumi).
Per l’altro verso Nietzsche spinge per così dire la verità oltre se stessa. Ossia là dove tutto essendo interpretazione, della verità non ne è più nulla. Così, specialmente e in modo inequivocabile, nei Frammenti postumi. La volontà di verità, dirà Nietzsche, non è che una delle forme della volontà di potenza. Ma già nel Tramonto degli idoli aveva affermato che il mondo vero e il mondo falso stanno e cadono insieme, non esitando a sbarazzarsi sia dell’uno sia dell’altro.
Strana storia, la storia della verità. Secondo Nietzsche la verità combatte nei secoli una grandiosa battaglia contro se stessa, dalla quale esce alla fine vincitrice. Salvo che la vittoria consiste nella propria autodistruzione. La verità trionfa annientando ciò che non ha più ragione di essere: la verità. Per tutto il tempo della battaglia la verità tuttavia resta in rapporto con se stessa, anzi, resta indissolubilmente legata a sé. È nel nome della verità che l’uomo prima la mette in discussione e poi la toglie di mezzo.
Da questo punto di vista Dio e la verità si corrispondono perfettamente, si equivalgono in tutto e per tutto, in fondo sono sinonimi. Ciò che vale per Dio, vale per la verità, e viceversa. Così come è nel nome di Dio che l’uomo uccide Dio, avendo fatto suo il comandamento divino che impone di rifiutare il proprio assenso a idoli indegni di fede, allo stesso modo è nel nome della verità che l’uomo la dichiara fuori corso, inattuale. Se di Dio non si potrà dire se non che « è morto» (La gaia scienza), della verità si dirà che «non è più» (Il tramonto degli idoli).
Ma l’analogia non finisce qui. Dio che è morto e la verità che non è più non sono semplicemente dei fatti di cui prendere atto, all’interno di una storia la cui trama narrativa appare finalmente disvelata, ma dei paradossi. Ed è precisamente questo elemento paradossale a mostrare il senso dell’accaduto. Quando l’uomo folle viene ad annunciare che Dio è morto, ricevendone un sorriso di scherno a fronte di quella che sembra una cosa ovvia (chi non è pronto a riconoscere che Dio è morto?), in realtà sa che il suo pensiero è ben lontano dall’essere compreso e quindi è lui, l’uomo folle, che guarda ben al di là dell’orizzonte limitato di coloro che lo deridono. Infatti si tratta non già di constatare quel che ognuno vede nel mondo secolarizzato, bensì di misurarsi con un evento inquietante e altamente drammatico: Dio ucciso dall’uomo in nome di Dio, e quindi Dio che muore in Dio, Dio che Dio stesso lascia morire.
Proprio come insegna la dogmatica cristiana. Ha scritto Heidegger commentando questo passo della Gaia scienza in un corso universitario dedicato a Hölderlin: che Dio muoia e anzi che Dio sia ucciso dall’uomo non significa che la divinità non ha più a che fare con l’esistenza dell’uomo. E come potrebbe, se è pur sempre la divinità, nella figura di Dio che lascia morire Dio, a permettergli di comprendere un evento altrimenti incomprensibile? Se è vero che l’uomo uccide Dio in nome di Dio, è vero anche che Dio muore in Dio e che è pur sempre Dio a lasciarsi morire. Perciò è a partire da Dio che la sua morte perviene alla parola e si lascia comprendere, se pure si tratta di comprensione ad opera dell’intelligenza e non piuttosto per fede. E questo significa secondo Heidegger che la divinità continua a sovrastare l’esistenza dell’uomo, in un’altra forma però, ossia non nella forma della pienezza bensì del tramonto e dell’oscuramento. Conclude Heidegger: «la rinuncia agli antichi dei e la sopportazione di questa rinuncia è la salvaguardia della loro divinità».
È ciò che accade alla verità. La verità che non è più non è puramente e semplicemente la verità sparita, dileguata, ma è la verità che sparisce, dilegua, si azzera a partire da ciò che resta della verità, a partire dal suo farsi traccia, vuoto, nulla. Di nuovo: è in nome della verità che la verità viene negata. Quale verità? La verità che non ha più ragion d’essere, la verità scomparsa, dopo che il mondo vero è stato tolto insieme con il mondo falso o apparente, ma anche la verità che sopravvive a se stessa, la verità che nega la verità, la verità in forza della quale soltanto la negazione può aver luogo.
Un paradosso spinto fino al limite estremo? Certamente. Ma anche il solo che renda conto della parabola che collega Verità e menzogna in senso extramorale ai Frammenti postumi e sta interamente nel segno della formula: «Sognare sapendo di sognare». Dove in questione è non soltanto il superamento dell’opposizione (tipicamente metafisica, direbbe Nietzsche) di vero e falso, realtà e apparenza, essere e non essere, ma anche l’accesso a una dimensione ontologica che sia effettivamente «oltre», e nella quale ci si muova liberamente en artiste, sia pure un artista che non ha più bisogno dell’arte, poiché arte e vita sono tutt’uno e lo sono in virtù di una mitopoiesi infinita (il grande stile) che ha finalmente trovato il suo principio (la volontà di potenza).
Il sogno è questa dimensione. E lo è nella prospettiva di un nichilismo che vuol essere programmatico e positivo e non meramente reattivo rispetto al tramonto e alla dissoluzione della verità. La vita, dice Nietzsche, non cessa di perdere di attrattiva, di intensità, di problematicità, nel momento in cui la verità incontra il nulla. Al contrario. Purché si impari a sognare sapendo di sognare. Che il sogno abbia il suo fondamento nel nulla, non lo rende meno bello, meno degno di essere sognato. E che poi il sogno ricada nel nulla, questo è nichilismo: nichilismo attivo, nichilismo positivo. Lo è in quanto la verità ormai non può essere declinata che al passato: Dio è morto, il mondo è diventato favola.
3. «Il mondo deve essere romanticizzato. Così si ritrova il senso originario...». È una delle affermazioni più celebri di Novalis, alle origini del romanticismo tedesco. Secondo Novalis la verità deve essere declinata al futuro. Solo cadendo nello specchio della favola, il mondo sprigionerà quella verità altrimenti destinata a restare nascosta.
Anche per Novalis favola e sogno in fondo sono la stessa cosa. Come si legge in uno dei frammenti postumi, di cui resta un corpus imponente (facciamo riferimento alla traduzione italiana a cura di F. Desideri e G. Moretti): «Ogni fiaba non è che il sogno di quel mondo natale che è dovunque e in nessun luogo. Le potenze superiori che sono in noi, e che un giorno, come Geni, realizzeranno il nostro volere, sono ora Muse che ci ristorano con dolci ricordi lungo questo faticoso cammino». Il sogno viene proiettato nel futuro, ad attualizzare ciò che è già da sempre nel profondo e a esaudire ciò che qui e ora può essere soltanto desiderato, mentre la favola non è che un’anticipazione e una prefigurazione del sogno.
Ciò che nel sogno si realizzerà (attraverso quei principi che lavorano sotterraneamente ma efficacemente detti i Geni), nella favola viene annunciato (dalle Muse) grazie al fatto che, come il sogno, la favola attinge alla fonte «che è dovunque e non è in nessun luogo». La fonte del senso, la fonte della verità. La quale fonte può bensì essere identificata con il nulla, a misura che non rinvia né alla realtà, la realtà oggettivamente data da qualche parte, né all’irrealtà, l’irrealtà di cui si può dire soltanto che non è. Ma può essere identificata con il nulla in quanto il nulla è infondatezza, abisso, scaturigine inesauribile. Da lì vengono i messaggeri, veri e propri angeli, del futuro. E cioè, sia le cifre simboliche, che attingono all’eterno, ma solo in forma metaforica, ossia poeticamente, e infatti loro tramite sono le Muse. Sia gli eventi escatologici, che daranno compimento ai contenuti stessi del nostro volere, non più sul piano fantastico, bensì dell’esperienza, e infatti ne sono garanti i Geni, che non sono figure mitiche ma realtà spirituali.
Dunque, favola e sogno concorrono alla manifestazione della verità, però implicando un’effettiva trascendenza del senso. Vale a dire: il mondo non è favola, non è sogno. Semmai lo sarà, anzi, dovrà esserlo. Lo sarà quando l’immemoriale ridestato alla memoria e tratto fuori dalla latenza, grazie alla favola, ricongiungerà il mondo all’origine, nel sogno realizzato, diventato reale.
Allora «sognare e non sognare» sarà tutt’uno. «Sognare e non sognare nello stesso tempo – è sintetizzata l’operazione del genio – mediante la quale entrambe le cose si rafforzano reciprocamente». E quindi, sognare sapendo di sognare? Sì e no. Sì, poiché chi sogna, e nello stesso tempo non sogna affatto, evidentemente sa di sognare. No, poiché questo «sapere» non ricade affatto nel sogno, minandolo alla base, ossia svelandone il carattere di illusione anche se illusione che aiuta a vivere, ma al contrario fa del sogno il luogo di una esperienza di verità.
Diversamente da quanto accadrà in Nietzsche, per il quale sognare sapendo di sognare significherà in fondo sognare a occhi aperti, quindi sognare in modo bensì inventivo e fantastico ma sostanzialmente privo di senso (donde il nichilismo nietzschiano), la favola in quanto cifra profetica e il sogno in quanto evento di là da venire esprimono in Novalis una più alta pienezza di senso. Non solo. In Nietzsche fra sogno e favola, fra sogno e poesia non ci sarà alcuna differenza. E infatti prendendo coscienza d’essere sogno e nient’altro che sogno la vita si fa grande stile. Invece in Novalis la favola è anticipazione profetica di ciò che solo in futuro nel sogno (e di sogno in sogno) sarà portato a compimento. Dunque la poesia in quanto cifra o racconto divinatorio del mondo venturo resta necessaria. «La vera fiaba deve essere nello stesso tempo rappresentazione profetica – rappresentazione ideale – rappresentazione assolutamente necessaria. L’autentico poeta di fiabe è un veggente del futuro».
Del resto anche il sogno così come lo sperimentiamo qui e ora (e non nel mondo delle potenze in atto, il mondo dei Geni) manifesta tutta la sua profonda affinità con la poesia. «Il sogno è spesso significativo e profetico, poiché è un effetto dell’anima naturale – e quindi si basa sull’ordine dell’associazione – Esso è significativo come la poesia – ma anche perciò è significativo in maniera irregolare – assolutamente libera». Viceversa la poesia appare costruita come il sogno: «Racconti senza nesso, ma costruiti per associazione, come i sogni. Poesie ben suonanti e piene di belle parole... Tutt’al più la vera poesia può avere un significato complessivamente allegorico e produrre un effetto indiretto, come la musica ecc.».
Insomma, sogno e poesia, sogno e favola scaturiscono come dal nulla. Musicalmente – appunto come la musica dal silenzio. E quindi liberamente, visto che nulla precede questo emergere e questo sgorgare, nulla li condiziona né costringe. Ma questa libertà è verità, perché è energia che plasma il mondo: sia prefigurandone il futuro, come nella favola, sia attualizzandolo e svelandolo quasi fosse già cosa per noi quella che effettivamente sarà cosa per noi.
Se questa libertà è verità, si deve dire anche che questa verità, verità del mondo venturo, è libertà – e infatti il mondo viene non perché necessitato o obbligato a venire da qualche decreto fatale che sarebbe ab origine, ma viene perché viene, viene per gioiosa sovrabbondanza, per grazia creaturale, per esplosione prorompente di vita, insomma, viene come viene il sogno e come viene la favola. Del resto, come negare che l’essenza della verità sia la libertà? A che co...

Indice dei contenuti

  1. Parte prima
  2. Da dove cominciare?
  3. L’esperienza estetica
  4. L’arte: fare e/o conoscere?
  5. L’enigma della bellezza
  6. Una questione di luce
  7. Parte seconda
  8. Filosofia e poesia
  9. Filosofia e musica
  10. Filosofia e pittura
  11. Filosofia e cinema
  12. Nota bibliografica