“Noi, il popolo degli Stati Uniti”. Dialogo sulla cittadinanza
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A: Che cosa significa essere americano?
B: Che razza di domanda! Esattamente quello che significa essere italiano, francese o tedesco.
A: E cioè?
B: E cioè, nel nostro caso, parlare italiano e, più in generale, condividere la cultura del nostro paese, farne parte, insomma essere nati e cresciuti qui da genitori che a loro volta sono nati e cresciuti qui, e così via risalendo nel tempo.
A: Stai dicendo che essere italiano significa appartenere a una determinata etnia, ed essere francesi a una diversa etnia, così come, per esempio, i tutsi e gli hutu.
B: Certo, o se vuoi un esempio più vicino e familiare, come i fiamminghi e i valloni, che pure abitano lo stesso paese, ma sono popoli diversi.
A: Uhm... se è così, però, non vedo come questo possa applicarsi all’essere americano: tra un cittadino statunitense che proviene dalla Cambogia (lui o i suoi genitori) e uno dal Perù c’è un abisso, altro che fiamminghi e valloni. Eppure, se glielo chiedi, ti diranno tutti e due di essere americani, anzi lo affermeranno con un certo orgoglio. E quel che è più strano è che questa loro certezza di essere pienamente americani, ti sarà confermata anche da un cittadino della Virginia con sei generazioni di nati in America alle spalle.
B: Che vuol dire? Lì c’è molta più immigrazione che da noi...
A: No, non è solo per questo. Dimmi un po’: secondo te ci sono dei “valori” italiani?
B: Spiegati meglio.
A: C’è un set di valori nel quale gli italiani si riconoscono e che li caratterizza in quanto italiani (e non francesi, tedeschi, ecc.)?
B: Non saprei. Se per “valori” intendi “tratti caratteriali”, allora, purché siano negativi, ne trovi quanti ne vuoi (furbizia, indolenza, ecc.). Ma se parli di valori in senso proprio, mi sembra difficile trovare qualcosa di specificamente italiano, o anche solo qualcosa di condiviso dagli italiani.
A: Se fai questa domanda a un americano, la risposta sarà certamente positiva: sono le istituzioni politico-ideologiche, che hanno dato vita alla nazione americana e che sono tuttora alla base del suo governo e del suo funzionamento.
B: Vuoi dire libertà, democrazia...
A: Esattamente.
B: Ma si tratta di valori che abbiamo anche noi europei!
A: Sì, certo, ma per i paesi europei questi valori non sono costitutivi del paese. La Francia è sempre la Francia: che ci sia la V Repubblica o il Re Sole; e ciò nonostante la Francia sia stata, in fondo, la patria “ideologica” di quei valori. Lo stesso si può dire per l’Italia: è quella odierna, basata sulla Costituzione repubblicana e che condivide molti di quei valori, ma lo è altrettanto quella della dittatura mussoliniana, politicamente e ideologicamente agli antipodi; e persino quella degli inizi del XIX secolo, prima che si costituisse in Stato. In altre parole questi valori, benché importanti, non sono costitutivi dell’identità della nazione. L’Italia e la Francia sono altro. Non l’America, invece. Per l’America questi valori non sono attributi possibili – anche se desiderabili – del governo del paese: sono costitutivi della nazione, sono la sua identità.
“Che cosa ci rende americani?”, si chiede la voce narrante del filmato didattico ufficiale relativo alla cittadinanza americana. La risposta è: “Un documento di quattro pagine scritto più di duecento anni fa, la Costituzione: un documento che definisce la struttura del governo degli Stati Uniti. Sono i principi della nostra Costituzione che ci uniscono come nazione”. O, come scrive in forma più tecnica e sobria uno studioso americano di questi problemi, “l’identità americana risiede nell’impegno [committment] comune verso le istituzioni politiche create al momento della fondazione della nazione”.
B: Ma si tratta di una differenza storica!
A: Certo, e precisamente di una differenza che origina nel modo in cui lo Stato americano si è formato. Per definizione, chi arrivava in America era cittadino “etnico” di un altro Stato. Inoltre, per la maggior parte, si trattava di persone che avevano più di un buon motivo per abbandonare la propria patria “naturale”, se non addirittura per dimenticarla o rinnegarla a causa di persecuzioni di natura religiosa o ideologica. Insomma, gente in cerca di una nuova identità – e soprattutto di nuove opportunità (l’America come land of opportunities) –, insieme a tanti altri i cui retaggi erano profondamente diversi proprio per quei fattori “culturali” che fanno l’identità degli Stati etnici: la lingua, le tradizioni, le storie, ecc.
Cosa può esserci allora di comune, di amalgamante in un simile insieme? C’è poi un altro aspetto che differenzia l’America da tutti gli altri paesi: l’essere nato “da zero”, l’aver dovuto elaborare una teoria della legittimità di questa nascita e della sua ragion d’essere proprio nei confronti degli Stati storico-dinastici e/o etnici. Puoi leggerla nei due documenti fondanti, la Dichiarazione di indipendenza e la Costituzione, che enunciano la forma di governo e l’ideologia che ne è alla base.
Così recita la prima: “Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati”; e così il famoso incipit della Costituzione: “Noi, il Popolo degli Stati Uniti”, che stabilisce il corpo da cui qualunque autorità e potere emanano.
E allora l’identità comune diventa aderire a quest’insieme di valori e riconoscersi in essi.
B: Quel che dici è molto interessante, ed effettivamente se si riflette un po’ sulla storia non è difficile darti ragione. Ma perché questa differenza ti appassiona tanto? In fin dei conti è solo una differenza di origine; per il resto, emigrazione a parte, mi sembra che sia cittadino americano chi nasce in America, così come è cittadino italiano chi nasce in Italia.
A: Che chi nasce in America sia cittadino americano non vi è dubbio. Il cosiddetto ius soli è principio che travalica tutti gli altri praticamente ovunque negli Stati moderni, al punto che persino l’Italia, che supera qualunque altro Stato nella rigidità dell’appartenenza etnica come criterio di cittadinanza, è costretta ad accettarlo sia pure obtorto collo: bisogna essere nati in Italia ed esserci vissuti continuativamente fino ai diciotto anni, senza mai lasciarla, per poterlo invocare; e per di più si ha a disposizione soltanto un anno di tempo per farlo, passato il quale si è considerati come un qualunque straniero, anche se magari si sa parlare solo l’italiano e non si conosce altro paese all’infuori dell’Italia (in Francia sono sufficienti cinque anni per maturare l’analogo diritto).
Il punto importante, però, non è questo. È che il criterio di appartenenza e identità stabilito all’origine è ancora vivo e pienamente operante in America anche ai giorni nostri. Ciò avviene, innanzitutto, perché ancora oggi è largamente valida – benché diluita – la situazione delle origini: negli ultimi vent’anni sono immigrate negli Stati Uniti circa un milione di persone all’anno, se ci si ferma alla sola immigrazione legale (se poi si aggiungesse quella illegale, la cifra dovrebbe più che raddoppiare); di queste persone, circa i tre quarti diventano cittadini americani pleno iure. Ciò significa che i cosiddetti “naturalizzati” – coloro che diventano cittadini dopo l’immigrazione – sono circa l’8% dell’intera popolazione americana. Tanto per avere un’idea, sai quanti sono i naturalizzati italiani?
B: Non saprei, esattamente...
A: Beh, i dati più recenti che ho consultato, relativi al 2008, parlano di 311.000 persone, ossia lo 0,5% su una popolazione di circa 60 milioni. D’altronde se l’Italia naturalizzasse i suoi immigrati al ritmo degli Stati Uniti, ogni anno diventerebbero cittadini italiani circa 200.000 stranieri, un milione in cinque anni. Figurati che putiferio! Si scatenerebbero non solo i soliti noti!
B: In effetti è una bella cifra.
A: Tornando al nostro discorso, ecco perché, in America, la questione dell’essere cittadino è ancora fortemente legata a quella del diventare cittadino. Senza contare che le ragioni per cui questa moltitudine di persone emigra negli Stati Uniti sono ancora quelle di una volta: si lascia il proprio paese perché per una ragione o per l’altra non ci si trova bene, e soprattutto per cercare nuove opportunità. Diventa fondamentale, dunque, poter accogliere questa massa di gente facendo in modo che essa si senta parte, a pieno diritto, del nuovo paese. Come? Con l’adesione al sistema politico e ai valori che costituiscono le fondamenta di questo paese, unico nel suo genere proprio perché fortemente basato sull’immigrazione. Tale adesione è ancora oggi non soltanto teoricamente professata, ma largamente sentita come criterio determinante e discriminante di appartenenza.
B: E va bene! Mi hai convinto. Essere cittadino americano è – ed è sentito anche oggi, a quanto pare – diverso dall’essere cittadino italiano, francese, tedesco. E con ciò? Alla fine che differenza farà mai?
A: Una grande differenza, perché questo diverso criterio di cittadinanza ha una miriade di conseguenze. Proviamo a riflettere. Se la condizione che ho descritto è vera, allora diventare cittadino significa aderire esplicitamente a un credo politico-ideologico, ed essere cittadino significa professare questo credo. Insomma qualcosa di molto simile, se non identico, a quello che in altro dominio chiamiamo “convertirsi”.
B: L’America sarebbe dunque una specie di teocrazia? Perché è in uno Stato di questo tipo che l’appartenenza discende necessariamente dall’aderire a un credo, e poi confessarlo e professarlo. Francamente mi sembra un paradosso.
A: Fino a un certo punto. Se per “teocrazia” intendiamo letteralmente il governo di Dio, certo che no: le differenze religiose in America sono ipertutelate, e le religioni ampiamente rappresentate. Se però intendiamo “teocrazia” come Stato fondato su un credo religioso, e poi eliminiamo l’attributo “religioso” (magari sostituendolo con “politico”, purché a questa parola si dia il senso “alto”, istituzionale cui abbiamo fatto riferimento), andiamo molto vicino alla realtà.
B: Ma se “teocratico” non va inteso in senso “religioso”, mi sai dire cosa resta? Dovremmo forse parlare di una “teocrazia laica”, e cioè di una palese contraddizione?
A: Questa mi sembra un’ottima definizione, anche se apparentemente contraddittoria. Coglie infatti l’essenza del processo: così come diventare cristiano o musulmano significa aderire al complesso delle credenze cristiane o musulmane e professarle, allo stesso modo diventare americano significa aderire al credo “americano”, che si tratti di un credo laico fa ben poca differenza. Essere cittadini americani, quindi, significa primariamente e fondamentalmente condividere questo credo.
Bisogna sottolineare, tuttavia, che la cosa più interessante non è lo specifico credo, con le sue regole e i suoi contenuti, importanti ma pur sempre opinabili, ma il fatto stesso che la cittadinanza e l’identità nazionale siano basate su un tale costrutto – molto simile all’appartenenza religiosa – anziché sull’appartenenza etnica. Questo fatto ha, come dicevo, conseguenze di grande portata e produce anche – tra noi e gli americani – sottili quanto notevoli differenze di “percezione” di determinati eventi e comportamenti. Differenze che hanno la curiosa caratteristica di apparire – sia a noi che agli americani – sconcertanti.
B: Sconcertanti? Che vuoi dire?
A: Voglio dire che sono differenze che non ci aspettiamo, che ci sorprendono, perché non riusciamo a capire come sia possibile, di fronte a un evento o a un comportamento che ci appaiono ovvi, avere un’idea così diversa pur appartenendo i due popoli alla stessa cultura occidentale. E proprio per questo motivo esse suscitano, a seconda dei casi e della gravità, reazioni di autentico fastidio, quando non irritazione oppure ilarità e derisione. Ma la vera causa di questo reciproco sorprendersi sta tutta nella diversissima – sebbene nascosta – “forma” che ci caratterizza come Stato.
B: Spiegati meglio.
A: Ti faccio un esempio, usato e abusato ma forse proprio per questo adatto allo scopo: “esportare la democrazia”, un chiodo fisso, per gli americani.
B: Una pretesa forse giusta in sé, ma davvero molto ingenua.
A: Questo è esattamente il punto: il tuo è il tipico modo di pensare “europeo” (ipocrisie a parte) su questa questione. Noi europei proviamo sentimenti contrastanti: da un lato, siamo consapevoli del valore che una forma di governo democratico rappresenta, dall’altro non ce la sentiamo proprio di “imporlo” a un altro paese e, soprattutto, a un’altra cultura. E questo perché, per noi, il concetto di nazione racchiude tutto un insieme di altre componenti e valori, anche più importanti e determinanti della forma di governo, nel definire la nazione stessa.
Non è così per gli americani. La democrazia, nel senso di governo fondato su istituzioni democratiche, definisce la loro nazione e dunque, per logica e semplice estensione, definisce una qualsiasi nazione. In altre parole, una nazione, uno Stato diventano tali, solo quando si dotano di istituzioni democratiche funzionanti. Solo allora sono legittimati nella loro esistenza, perché solo allora i popoli diventano il “We the People” dell’incipit della Costituzione.
B: Consentimi di dissentire: questa convinzione tutta americana ha dato luogo a ingerenze e guerre la cui motivazione non ha niente a che vedere con questo “alto sentire”; il caso del Cile di Salvador Allende andava in tutt’altra direzione, lì la democrazia è stata soffocata.
A: Ma certamente. Non voglio mica dire che questo “alto sentire”, come lo chiami tu, abolisca la ragion di Stato o anche solo i semplici interessi economici: magari! Parlo a un altro livello, a un livello “istintivo”, automatico. Così come noi europei, quando riflettiamo sul concetto di nazione, pensiamo automaticamente a valori di tipo etnico-culturale (ma, naturalmente, anche noi siamo poi capacissimi di piegarli alla ragion di Stato), gli americani pensano automaticamente alla forma delle istituzioni. Il risultato è che a noi loro appaiono “ingenui”, “ottusi”, o peggio ancora “invadenti”, singolarmente irrispettosi delle differenze tra nazione e nazione. Viceversa, loro ci considerano cinici e insensibili, restii ad aiutare i popoli a diventare tali a pieno titolo – così come lo siamo noi – convinti come sono che dietro questo nostro cinismo si celino interessi volti a mantenere quei popoli in uno stato di inferiorità “coloni...