L'Italia quaggiù
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L'Italia quaggiù

Maria Carmela Lanzetta e le donne contro la 'ndrangheta

  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'Italia quaggiù

Maria Carmela Lanzetta e le donne contro la 'ndrangheta

Informazioni su questo libro

Un giorno, tra qualche anno, in una strada qualsiasi della Calabria, Denise, figlia di un boss, e Federica, figlia di una sindaca, potrebbero incontrarsi, parlarsi, e perfino capirsi. Quel giorno la 'ndrangheta sarà finita.Alba del Corpus Domini 2011, statale Ionica, Locride. Davanti alla farmacia di Maria Carmela Lanzetta bruciata da un incendio appiccato da quattro picciotti delle cosche, si mettono in fila le donne di Monasterace, con strofinacci, acqua e detersivo: per salvarle il salvabile, ripulire ciò che resta della bottega di questa farmacista che s'è fatta sindaca e ha sfidato crimine e corruzione con la semplicità e il buonsenso d'una madre. «Come vi potrò ripagare?», chiede lei. «Già ci avete ripagato», rispondono loro. Il libro è la cronaca d'un faticoso viaggio nella primavera delle donne calabresi, dentro la ribellione delle 'pentite' di 'ndrangheta e il coraggio di molte madri e figlie, spose e sorelle di dire infine 'no', giorno per giorno, alle regole arcaiche d'un universo omertoso e misogino. Una cronaca raccontata attraverso gli occhi e la storia di Maria Carmela Lanzetta, sindaca di Monasterace, che ha subìto due attentati mafiosi per il solo azzardo di avere riportato legalità e normalità nel piccolo comune del reggino che governa dal 2006.La vicenda di questa tenace amministratrice calabrese s'intreccia con quella di altre donne come lei: da Elisabetta Tripodi, sindaca di Rosarno, sotto scorta come Lanzetta e minacciata dai clan egemoni del paese, a Katy Capitò, giudice per le indagini preliminari di Locri; da Giuseppina Pesce a Maria Concetta Cacciola, fino a Lea Garofalo, torturata e uccisa per avere denunciato il suo compagno 'ndranghetista.

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Informazioni

Argomento
Economia

Nove

Lea sognava un mondo alla rovescia. Dove una donna potesse studiare senza essere derisa o punita. Dove il suo uomo non la picchiasse e non la umiliasse ogni giorno. Dove una famiglia non dovesse considerare la morte violenta di un padre o di un fratello come un fatto ineluttabile.
«Lea è sempre stata molto vivace e molto ribelle, si ribellava a mamma, alla maestra di scuola, ai compagni... e aveva buoni motivi. Poi di questo suo carattere le è rimasto che se non le stava bene una cosa non si stava zitta. E zitta non è stata».
Marisa Garofalo sospira, la frase le si incrina in gola: «Io non sono così», mi dice, «sono remissiva, subisco e sto zitta». È la sorella di otto anni maggiore. Mentre mi parla, si fa largo in sottofondo la vocina del più piccolo dei suoi tre figli, che gioca in corridoio. Ha avuto una vita normale, Marisa. «Sono casalinga, mio marito lavora con l’azienda forestale, è una persona perbene». E quel ‘perbene’ marca la distanza tra una fortuna e una disgrazia.
Lea no, non ce l’aveva un marito ‘perbene’. Era rimasta imprigionata nei codici dell’onore. E quando ha deciso di «non starsi zitta», e ha svelato ai magistrati affari e omicidi di famiglia, l’hanno rapita per ordine del suo uomo a due passi da corso Sempione, nel cuore di una Milano ormai colonizzata dai mafiosi calabresi, l’hanno torturata e ammazzata, poi sciolta nell’acido, s’era detto, smaltita come un fango inquinante in una discarica vicino Monza. Indagini più recenti hanno scoperto in un campo della Brianza i suoi monili, una collana, qualche anello: l’ultima ipotesi è che il cadavere sia stato bruciato, ma fa differenza solo rispetto alla piena credibilità del pentito che ha raccontato le sue ultime ore, decenza vorrebbe che nessuno provasse a inficiare gli esiti del processo.
Lea Garofalo e sua figlia Denise, che ha trovato a diciott’anni il coraggio di deporre in Corte d’assise facendo condannare il proprio padre all’ergastolo per quel delitto, sono diventate due eroine da tragedia greca calate in questa timida primavera delle donne calabresi.
«Noi abbiamo avuto cinque morti, a casa», dice Marisa. E li enumera con normalità, come fossero stati colpiti dall’influenza di stagione, mentre la voce del suo bambino cresce di tono e a tratti si appropria della nostra conversazione. «Mio padre, mio zio, mio fratello Floriano, mio cugino e poi Lea...».
Morti ammazzati, s’intende. Floriano era il maggiore, classe 1964, quello che aveva ereditato dal padre il bastone del comando. Se Lea è finita così male, la colpa in fondo è proprio sua e di quello scettro che faceva gola a tanti, come vedremo tra breve. Per adesso ricordiamo quanto sia importante per gli ’ndranghetisti la politica matrimoniale, un po’ come nelle case regnanti d’Europa al tempo delle monarchie assolute.
«Siamo di Pagliarelle, duemila abitanti, frazione di Petilia Policastro, provincia di Crotone», mi racconta Marisa. «Qua ci conosciamo tutti». Ma tutti si fanno gli affari propri, s’intende.
«Siamo cresciuti coi nonni quando è morto papà. Papà l’hanno ucciso alla vigilia di Capodanno 1975, si chiamava Antonio, aveva 27 anni. Lui e mia mamma Santina erano ancora così giovani, a diciassette anni avevano fatto la ‘fuitina’. Lea era piccolissima quando lo uccisero, non s’è capito bene perché, allora non si parlava di ’ndrangheta, di droga, non aveva mai avuto precedenti». Per alcuni rapporti dei carabinieri, in realtà, Antonio era già un uomo di rispetto.
«Al paese dicono c’entrasse il fatto che nostro zio Giulio Garofalo stava in carcere per omicidio, l’hanno eliminato prima che mio zio uscisse. Poi hanno ammazzato anche zio Giulio nel 1982. Mai presi. Mai preso nessuno. Nemmeno gli assassini di mio fratello Floriano, che verrà ucciso trent’anni dopo papà, l’8 giugno 2005».
Nessuno sa nulla, nessuno vede nulla mentre imperversa e miete vittime su entrambi i fronti la faida Garofalo-Mirabelli, di cui Lea parlerà poi ai magistrati.
Marisa ha un ricordo vivido e drammatico di quel primo morto in famiglia, del padre caduto in una guerra misteriosa e allora incomprensibile: «Io avevo otto anni quando hanno assassinato mio padre, siamo cresciuti nel terrore, mia mamma non voleva dormire da sola a casa e mio zio veniva a dormire da noi, per anni. Poi mia madre s’è messa a lavorare a scuola e noi siamo cresciuti dai nonni. Ricordo, sì, quella notte, le urla, la neve c’era, le gridate, non riesco a dimenticare il sangue di mio padre nella neve così bianca. Papà era andato a fare gli auguri di Capodanno alla sorella in una palazzina, in questa palazzina è stato ucciso, poi l’hanno portato fuori, l’hanno messo in macchina ma non c’è stato niente da fare, noi bambini siamo andati dietro alla mamma, potevano essere le due di notte, era passato appena il Capodanno del 1975».
Nella voce di Marisa si sente l’affanno di quelle ore, si intuiscono i gesti concitati, le imprecazioni, le promesse di vendetta, poi la vita agra che segue sempre a certe notti decisive e terribili.
«Mio fratello ha fatto scuola fino alla terza media, io ho preso il diploma magistrale. Mia madre cercava di nascondere la verità a Lea, però poi crescendo si sanno le cose, vai alla ricerca di quello che è successo. Lea battagliava, crescere in una famiglia con questi problemi ti può influenzare. Lea ha sentito molto, molto la mancanza di papà, chiedeva sempre com’era, se ci faceva regali, se ci portava in giro. Papà lavorava in un cantiere vicino Crotone, sulla Sila. Faceva l’operaio. Io mi ricordo la sua risata forte. Sorrideva tanto, papà. Anche Lea aveva la risata di papà, la stessa, l’aveva presa da lui e non lo sapeva, io non gliel’ho mai detto, adesso mi spiace non averlo fatto...».
Prima di diventare una donna che manda in crisi il sistema di omertà della ’ndrangheta, Lea è una bambina solare, intelligente, con un possibile futuro molto diverso davanti a sé. Ma il futuro non è quasi mai nella disponibilità dei bambini, in Calabria meno che mai.
«Lea ha fatto solo la terza media, mamma non ha voluto che proseguisse gli studi. La voleva punire perché le maestre la chiamavano sempre per l’indisciplina, ma a scuola era bravissima, leggeva tanto, voleva il diploma. Sognava di laurearsi. Leggeva una marea di libri, Peppino Impastato, Falcone e Borsellino, la storia d’Italia, la Montessori... quando è andata sotto protezione si è liberata e ha cominciato a leggere tantissimo. S’era fatta una cultura. Da bambina guardava Candy Candy e Heidi, poi a 15 anni si è innamorata di questo ragazzo Carlo Cosco, che aveva quattro anni più di lei».
È l’incontro decisivo. Carlo sarà l’uomo della sua vita e della sua morte.
«Mia madre non era d’accordo, Cosco non le piaceva anche se non era implicato, erano una famiglia con quattro maschi e nessuno di loro lavorava. Lea stava con un’amica quando ha conosciuto Cosco. Passeggiava sul corso, si sono fermati a parlare. Mia madre l’ha anche picchiata per via di questo ragazzo. Un bel giorno se ne sono scappati, era il 1990, lei aveva 16 anni, hanno fatto la fuitina pure loro. Sono andati in Sila. Vicino da noi c’è il villaggio Trepidò, c’è il lago Ampollino, sono andati là per un po’... Quando è tornata, mia madre non l’ha accettata e Lea stava a casa di lui. Anche mio fratello l’aveva presa male, sulle prime. Più avanti mio fratello è stato in galera per omicidio, ma dopo tre anni di carcere è stato assolto e risarcito».
Floriano Garofalo è la chiave. È diventato un mammasantissima. E il giovane Cosco, pochi talenti ma molta ambizione, vuole una parentela importante per scalare le gerarchie.
«Mia madre ha lasciato tornare Lea, che era incinta di Denise. S’è ammorbidita. Lea è stata a casa da mamma e dopo che è nata Denise se n’è andata a Milano con Carlo, lui non lavorava... Loro, i Cosco, avevano occupato abusivamente a Milano via Montello 6, lui stava là con altri due fratelli. Le prometteva sempre che avrebbe trovato un lavoro, che poteva stare tranquilla. Lei ci sperava sempre. Diceva: io non ho avuto un padre, voglio un padre per mia figlia, voglio che Denise possa essere educata con idee più legali, che non viva in una famiglia di ’ndranghetisti».
La realtà, in viale Montello 6, è molto diversa dalle speranze di Lea. Lo stabile negli anni Novanta si guadagna il nome di ‘palazzo dei calabresi’: le cosche di Petilia Policastro lo occupano e ne fanno una base di spaccio. Qui Vito – uno dei fratelli di Cosco – si rifugerà dopo la strage di Rozzano. Carlo Cosco sarebbe un balordo da due soldi se non stesse con Lea, se non ne usasse il peso derivato da Floriano. «Se Carlo e suo fratello avevano uno spazio nella vendita di stupefacenti lo dovevano al fatto che Carlo era convivente mio», metterà più tardi Lea a verbale.
Ma Carlo sente addosso il peso di questa dipendenza, è un frustrato, diventa crudele. Picchia Lea con regolarità. «La trattava come una schiava», sostiene Marisa.
Tra il 1994 e il 1995 il ‘palazzo dei calabresi’ è un campo di battaglia tra gruppi di narcotrafficanti. Cade Antonio Comberiati, che s’era proclamato ‘reggente’ del palazzo e nel cortile viene freddato il 17 maggio 1995. Anche quest’omicidio resta senza colpevoli, ma Lea farà mettere a verbale la sua versione, accusando il suo compagno, Carlo Cosco, e il fratello di questi, Peppe detto ‘Smith’: «Stavo dormendo, ero a casa con la bambina e sento sparare, mi sono affacciata fuori dalla finestra e vedo il corpo di Antonio Comberiati disteso a terra». Passano venti minuti. «Poi arriva mio cognato a casa mia, era abbastanza agitato e mi dice ‘minchia, non voleva morire, sembrava che aveva il diavolo in corpo’. Io gli chiesi: ‘Ma è morto?’. E lui: ‘Sì, sì’. Poi è venuto il mio convivente e io gli chiedo: ‘tu dov’eri?’. ‘Ero al Panino’, che era un bar lì vicino, dice lui... Ma lui non era al Panino, perché erano lì, uno controllava il portone, l’altro ha sparato, sono usciti, hanno buttato l’arma, hanno fatto il giro del piazzale e poi si sono ritrovati al Panino. Questi sono i fatti... Comunque a sparare è stato Smith».
Con questo verbale, Lea firmerà la propria condanna a morte.
Negli ultimi mesi del 1995 Carlo Cosco viene arrestato per droga. Racconta Marisa: «Mia sorella cominciò a fare i colloqui a San Vittore, e un giorno lui la picchiò davanti alla guardia, durante un colloquio. Sempre la picchiava, qualsiasi cosa non andava bene. Lei allora diceva: ‘s’è messo con me per avere l’amicizia con nostro fratello Floriano, solo per quello’. Nostro fratello col passare del tempo era diventato importante. Cosco era suo amico, dietro mio fratello è cresciuto pure lui, Lea diceva che Cosco amava il potere. Dalla lite durante il colloquio fino agli inizi del 1997 lei decise di non vederlo più, ruppe e non andò più ai colloqui, non portò più Denise: non si erano sposati perché lei diceva che Cosco non era l’uomo della sua vita».
Cosco comincia a vivere Lea come fonte di umiliazione. I compagni lo deridono. Forse la decisione di eliminarla nasce allora, ancora prima del pentimento di Lea. Che ormai aveva preso la sua strada senza ritorno.
«Lea andò a Bergamo, ospite delle Orsoline tramite don Nicola Zambrano che era del nostro paese. Poi si è trovata un lavoro in pizzeria e una casa a Bergamo, era il 1998, è rimasta a Bergamo fino al 2002, Cosco stava ancora dentro».
Lea voleva la sua vita, la sua libertà: «Io l’ho lasciato, non voglio saperne più nulla», ripeteva a Marisa. Ma era più facile a dirsi...
«Dove andava la seguivano i problemi. A Bergamo le bruciarono la macchina e il motorino, al paese la seconda macchina. Lei allora mi disse: ‘Adesso li sistemo io, li denuncio e mi riprendo la mia libertà’. Parlò dell’omicidio di viale Montello nel 1995 e di altre cose che ho letto sui giornali, raccontò di Cosco e anche di nostro fratello Floriano, nel luglio 2002 entrò nel programma di protezione, a luglio stava qua in ferie e una notte si vide saltare la macchina per aria, chiamò i carabinieri e da allora non tornò più. Non la vidi più. I carabinieri mi dissero: sta bene. Mi fecero parlare con lei. Lei mi disse: ‘Sto bene, non preoccupatevi, non sopportavo più questa situazione, non posso dirti dove sono’».
Da quel momento Lea, con la piccola Denise, diventa un fantasma. Un’ombra che grava sui Cosco e sui Garofalo.
«Dopo un po’ di tempo, un po’ di anni, si cominciò a sapere nel paese che lei stava collaborando. Non doveva uscire, questa notizia. Lea disse: ‘Se questa storia s’è saputa è perché c’è qualche corrotto che parla’. Del pentimento di Lea solo io sapevo, in famiglia... Nel 2007 una notte ci siamo incontrate ad Ancona, in una caserma dei carabinieri, era marzo. Venne con la bambina, vidi che non stava bene, era magrissima, aveva enormi problemi economici, era chiusa in casa, non lavorava, si deprimeva. È stata in tanti posti, a Udine, a Campobasso, a Perugia, a Firenze. Ad aprile 2009 è uscita dal programma di protezione, diceva che non sopportava più quella situazione: ‘Sto facendo la vita peggio di un criminale, io devo avere paura di loro’».
Qui la vicenda di Lea Garofalo diventa esemplare. Dopo lo strappo, il coraggio di cambiare vita, la speranza di averla cambiata davvero, ecco lo sconforto, quel sentimento terribile di abbandono che coglie tante collaboratrici di giustizia alle prese con problemi assolutamente peculiari rispetto a quelli degli uomini: donne che si portano dietro i bambini, per i quali avevano scelto di fare il grande salto; e nel nome dei quali tornano indietro, dopo essersi accorte di non poterne garantire la sopravvivenza.
Marisa racconta ancora: «Era a Campobasso in quel periodo. Mi chiamò: ‘Venite a prendermi, da sola ho paura a venire’. È stata a casa una settimana durante le vacanze di Pasqua, nel frattempo Denise aveva quasi 18 anni, era il 2009, e si incontrò col padre. Gli raccontò dei problemi della madre sotto protezione, lui si offrì di venire a Campobasso a trovarle un appartamento, Denise disse alla madre che il padre voleva sostenerle. Si erano convinte di creare con lui un rapporto di amicizia che poi alla fine si rivelò tutto falso. Mia sorella non è mai entrata in questa casa, dormiva in macchina, nell’appartamento c’era Carlo Cosco».
Come una stella risucchiata in un buco nero, Lea s’avvicina ormai in fretta all’esito finale della sua storia.
«A fine aprile mia sorella e mia nipote decisero di andare a Roma per il 1° maggio. Tornarono la mattina del 5 e tentarono di sequestrarle a Campobasso. Un finto tecnico andò da loro, Massimo Sabatino, mandato da Carlo Cosco. Lea reagì come una furia, era una pronta, non si metteva paura, aveva fatto un corso di autodifesa, intervenne anche Denise, Sabatino scappò perché aveva l’ordine di non toccarla. Lea fece denuncia contro Carlo Cosco».
Ma non accade nulla.
«Lea mi chiamò: ‘Vogliono rimettermi nel programma di protezione, tu che dici?’. ‘Devi decidere tu’. ‘Ma Denise non vu...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Uno
  3. Due
  4. Tre
  5. Quattro
  6. Cinque
  7. Sei
  8. Sette
  9. Otto
  10. Nove
  11. Dieci
  12. Undici
  13. Dodici
  14. Nota sulle fonti