1. La metamorfosi del mondo romano e la fine dell’impero in Occidente
secoli III-V
Una trasformazione profonda si realizzò durante i due secoli e mezzo che precedettero la caduta dell’impero romano d’Occidente (476), l’organismo politico che aveva costruito ed esercitato la propria egemonia in larga parte del Mediterraneo e dell’Europa. Tale periodo di mutamento, che è stato definito «rivoluzione tardo-romana» [Brown], è distinguibile in quattro fasi. Nella prima metà del III secolo l’impero visse ancora un’età di pace e relativo splendore. Nella seconda metà del III secolo le strutture militari che servivano a contenere la pressione alle frontiere cedettero, e i Romani furono ripetutamente sconfitti dalle popolazioni stanziate ai confini settentrionali e orientali. Nel IV secolo l’emergenza militare determinò una serie di trasformazioni amministrative e politiche. Fu questo il momento in cui avvennero le più importanti modifiche: la cristianizzazione dell’impero, l’insediamento di popoli «barbari» entro i suoi confini, l’ampliarsi del divario tra ricchi e poveri e di quello tra Oriente e Occidente. Solo nel V secolo, in occasione di nuovi movimenti di popoli, queste trasformazioni fecero emergere in Occidente una società nuova, una società senza l’impero.
1.1. L’impero nel III secolo
All’inizio di questo processo, verso il 200, l’impero romano si estendeva su una zona che comprendeva tutti i paesi affacciati sul Mediterraneo e si allungava a ovest verso l’Europa occidentale e la Britannia (l’attuale Gran Bretagna meno la Scozia) e a est verso la Mesopotamia (l’attuale Iran occidentale). La sua popolazione di più di 50 milioni di abitanti era governata da un’aristocrazia ristretta e culturalmente molto omogenea: proveniente dalle città, dotata di grandi patrimoni fondiari, capace di parlare, leggere e scrivere in greco e latino. Questa aristocrazia, che da un secolo combatteva ormai solamente guerre difensive, stava perdendo la sua originaria identità connessa alla routine militare. Il cambiamento fondamentale era avvenuto alla fine della repubblica, durante le guerre civili del I secolo a.C., quando la preponderanza sociale dei grandi proprietari terrieri di Roma, i senatori, era stata minacciata dall’ascesa dei cavalieri, plebei arricchiti tramite il commercio, il prestito e gli appalti pubblici. I primi imperatori avevano preferito appoggiare il ceto più conservatore e affidabile dei senatori. I ceti produttivi erano stati marginalizzati e l’economia dell’impero aveva cominciato a ristagnare, proprio nel momento in cui, finite le guerre di espansione, venivano meno i proventi delle conquiste. In assenza di una crescita economica, le grandi spese imposte dalla costruzione e dal mantenimento dell’impero furono sostenute soprattutto dal prelievo fiscale nelle province. Già nel corso del II secolo i costi per proteggere, amministrare e far funzionare l’impero divennero superiori alle entrate.
Su questa base si innestarono le minacce dall’esterno, le pressioni dei «Barbari» [§ 3] che si fecero serie attorno alla metà del III secolo concorrendo a un calo degli scambi monetari. Nel 271 si sentì il bisogno di cingere Roma con le mura che dal nome dell’imperatore si dissero Aureliane. La stessa necessità di difesa spinse a promuovere tra III e IV secolo, dall’ultima età dei Severi (193-211) all’epoca di Diocleziano (284-305) e Costantino (312-337), riforme fondamentali che non solo riuscirono a ristabilire la pace alle frontiere ma ebbero grandi effetti sulla sfera economica, su quella politica e su quella sociale.
1.2. Le riforme del IV secolo
La nuova organizzazione dell’esercito, formato ormai da seicentomila soldati, aumentò i costi di più del doppio. Le nuove spese furono affrontate attraverso un’ulteriore intensificazione della pressione fiscale, che a sua volta ebbe bisogno di un’espansione della burocrazia. Non si possedevano gli strumenti per una programmazione economica e dunque la risposta all’aumento delle spese fu esclusivamente politica, rivolta, non sempre con successo, a bloccare i prezzi artificialmente e a redistribuire le ricchezze. Si allestì in questo modo una «macchina statale» [Schiavone] che non aveva precedenti, un tipo di organizzazione politica accentrata, burocratica e pesante che più tardi sarebbe servita da modello per la costruzione delle monarchie nazionali. Le nuove necessità belliche condussero, infine, a escludere l’aristocrazia senatoria dai comandi e a promuovere militari di carriera provenienti anche dai ceti meno elevati e più periferici, con effetti di grande importanza per il ricambio del vertice sociale. La società del IV secolo fu quindi una società di uomini nuovi, figli di liberti, come Diocleziano, o di pastori, come il suo successore Galerio; uomini ansiosi, tuttavia, di uniformarsi ai costumi della classe aristocratica, attraverso lo studio della storia romana, la scrittura di epistole, l’acquisto di oggetti preziosi che apparivano il simbolo della civiltà classica.
L’impero romano nel IV secolo: regioni e province
Così gli uomini nuovi del IV secolo diedero vita a una vera e propria rinascenza artistica e culturale. Essi poterono finanziarla con il denaro accumulato come esattori delle imposte, attraverso meccanismi leciti e illeciti che consentivano loro di intascare notevoli capitali. Proprio sulle imposte ricadeva l’onere di sostenere il sempre più costoso stato tardo-romano; per questo divennero sempre più gravose. Verso il 350 l’imposta fondiaria corrispondeva ormai a un terzo del reddito di un contadino. Chiunque poteva cercò di sottrarvisi e nel complesso venne ad ampliarsi la distanza tra i pochi che, per effetto di esenzioni fiscali o della semplice evasione, diventavano sempre più ricchi e i molti su cui veniva a pesare l’intero carico dei tributi.
1.3. La separazione tra Oriente e Occidente
Ciò che avveniva alle persone avvenne anche alle città: la diminuzione e la concentrazione delle ricchezze portarono alla decadenza dei centri urbani minori e alla crescita di quelli maggiori. La riduzione del numero delle città si accompagnò a un processo di «localizzazione» delle aristocrazie, dovuto a fenomeni di lunga durata che conobbero una particolare accelerazione nell’età costantiniana. Pesò la separazione delle carriere degli ufficiali civili e militari decisa da Costantino, che portò all’ingresso di elementi germanici nelle gerarchie militari. Ebbe un ruolo importante la progressiva scomparsa della distinzione tra ordine senatorio e ordine equestre, che ampliò le dimensioni del vertice della società imperiale senza tuttavia ridurre lo scarto tra questo e la sua base. Influì il ruolo di raccordo politico che Costantino, primo imperatore cristiano, conferì ai vescovi i quali già nel periodo precedente avevano acquisito una funzione di guida delle società urbane. Infine contò il ruolo sempre più importante che le imposte in natura assunsero nell’economia imperiale, rispetto a quelle in denaro. L’effetto complessivo fu quello di una società più ancorata alla dimensione locale, in cui andavano sviluppandosi maggiormente le relazioni di «patronaggio», secondo cui i notabili del posto, grandi proprietari e spesso anche amministratori o vescovi, svolgevano una funzione di riferimento e di protezione per la popolazione circostante.
La differenziazione tra Oriente e Occidente, ufficialmente distinti dalla riforma costituzionale con cui Diocleziano introdusse il decentramento politico, andò maturando in questo clima di esaltazione delle realtà locali a scapito dell’uniformità. Essa fu catalizzata da Costantino, che tra 324 e 330 spostò la capitale a Bisanzio, da ora chiamata Costantinopoli (contribuendo, tra le altre cose, al raddoppio delle spese burocratiche), ma si affermò definitivamente nel V secolo, con il conferimento di una pari dignità ai vescovi di Roma e Costantinopoli stabilito dal concilio di Calcedonia (451) e con la morte di Valentiniano III (455), dopo il quale non vi fu più rapporto di parentela tra i due imperatori.
Molti dei processi che sono stati descritti si erano manifestati in maniera diversa in Oriente. Nelle province orientali il commercio e la produzione avevano un ruolo più importante nell’economia complessiva. Le ricchezze tesero quindi a fluire da Occidente verso Oriente, dove non si verificò quel divario tra città maggiori e minori e tra ricchi e poveri che andava crescendo nell’Occidente. I prezzi che i contadini riuscivano a spuntare sulle piazze della Siria, dell’Egitto e dell’Asia minore consentivano loro di pagare le tasse senza rinunciare ai profitti, mentre in Gallia e in Italia i cittadini, per evitare le tasse, tendevano a rifugiarsi in campagna dove venivano costretti a lavorare con la forza dai grandi proprietari. In tal modo, mentre in Oriente le esigenze dell’impero in trasformazione furono soddisfatte dalla crescita economica, in Occidente l’assenza di questa crescita ampliò le distanze sociali e fece esplodere i conflitti esistenti.
L’ultima fase si aprì tra 407 e 430, in occasione di una nuova serie di movimenti di popolazioni di cui il sacco di Roma perpetrato dai Visigoti nel 410 [§ 3.2] costituì l’evento più drammatico. Le élites dell’Oriente e dell’Occidente si divisero sulla soluzione da dare al problema della presenza barbarica nell’esercito, divenuta sempre più intensa al termine di un processo iniziato due secoli prima. La sostanziale tenuta delle istituzioni romane in Oriente, accompagnandosi con un antibarbarismo che prendeva piede nelle classi più elevate, portò all’epurazione degli elementi germanici presenti nelle truppe. In Occidente l’ascesa alle più alte cariche militari degli elementi di origine barbarica e la chiusura delle élites romane (pagana e cristiana, a loro volta in competizione tra loro) in un patriottismo rigidamente conservatore portò a uno scollamento tra le élites culturali e i detentori del potere politico e militare e alla sempre più frequente concessione a popolazioni barbariche della possibilità di stanziarsi entro i confini dell’impero.
Sebbene privata da tempo del valore di cesura periodizzante, la deposizione di Romolo Augustolo nel 476 [§ 3.2] rimane quindi un episodio sintomatico: il fatto che l’autore di questa deposizione, lo sciro Odoacre, non abbia preteso il titolo imperiale segnala la capacità dei Barbari di agire sul livello più alto della politica ma al tempo stesso la mancanza di un’autentica volontà di assimilazione. «Forti e inassimilabili» [Brown] i Barbari vennero a trovarsi nella seconda metà del V secolo in un mondo mediterraneo che vedeva estinguersi l’impero come struttura di raccordo politico e militare e che cercava, in una nuova sintesi patriottica e cristiana a cui andavano aderendo anche gli ultimi pagani, il ricordo di un’antica unità.
1.4. Interpretazioni del cambiamento
Sin dal Rinascimento il periodo finale dell’impero romano (definito di volta in volta come tardo impero, basso impero, tardo antico) è stato visto dagli storici come epoca di cambiamento per eccellenza. Sia coloro che, come scrive Arnaldo Momigliano, lo hanno letto come cambiamento in negativo e dunque come «archetipo di ogni decadenza», sia coloro che, soprattutto a partire dal Novecento, vi hanno scorto le tracce di un’evoluzione necessaria e positiva, hanno visto in quel periodo, variabile nei suoi termini estremi ma centrato nei secoli III-V, l’epoca terminale della classicità. La modernità, ricercando di volta in volta le proprie radici nel mondo classico, ha rivestito questa fase storica di valori differenti, sollecitata anche dalle emergenze dell’attualità.
Per Edward Gibbon, che scrisse nella seconda metà del Settecento, vi era una evidente affinità tra la sua epoca e il II secolo d.C., momenti di massimo splendore rispettivamente della civiltà moderna e di quella classica; simili, per Gibbon, erano anche i processi che avevano condotto al declino e alla caduta dell’una e dell’altra. Sulla scorta di una tradizione illuministica che aveva avuto precedenti in Montesquieu e in Voltaire, egli individuò nel cristianesimo la causa della fine dell’impero.
La nuova consapevolezza storica dell’Ottocento contribuì in alcuni casi a puntualizzare la diversità tra le due epoche, ma non a cancellare la convinzione che la trasformazione fosse stata radicale e negativa. Lo studio della fase conclusiva dell’impero romano si intrecciò con lo sviluppo dei nazionalismi esaltando la contrapposizione tra etnie e portando a identificare nelle invasioni il motivo principale della «morte di Roma». Al tempo stesso, però, lo sviluppo delle scienze economiche e sociali portò gli storici a introdurre anche valutazioni di tale natura, oltre che politiche, nella spiegazione del cambiamento. L’influenza di Karl Marx si precisò nelle tesi che identificavano le ragioni della caduta nella trasformazione di una struttura sociale e produttiva basata sulla schiavitù in una fondata sul servaggio e sui rapporti feudali.
Nuove ricerche diedero frutti nel primo trentennio del Novecento contribuendo ad ampliare le prospettive. Le posizioni iniziarono a differenziarsi prima tra gli storici dell’arte, che videro nel cambiamento delle forme successivo a Costantino non più una decadenza ma un progresso [Riegl], poi tra gli storici dell’economia [Dopsch, Pirenne] che iniziarono a discutere il peso della componente monetaria e di quella naturale nell’economia antica e a stabilire cesure derivate da questa distinzione [§ 9]. Le nuove interpretazioni complessive, come quella di Michail Rostovtzev (1926), pur non abbandonando l’idea di una decadenza, non operavano più le equivalenze semplificanti che avevano caratterizzato la storiografia precedente: la «barbarizzazione» che secondo alcuni aveva condotto alla fine dell’impero diveniva in Rostovtzev un più complesso «imbarbarimento» delle classi dirigenti romane e germaniche, incapaci di reagire alla pressione contadina.
Negli anni Sessanta-Settanta del Novecento si è avuta un’ulteriore cesura [Cameron]. Gli storici hanno cominciato a indagare il mondo tardo-antico come un periodo autonomo, sganciandolo dal ruolo che aveva rivestito rispetto alle epoche anteriori e posteriori. La prospettiva è stata allargata all’Oriente, dapprima mostrando la parzialità di un’ottica esclusivamente occidentale fondata sulla data del 476 d.C., in seguito rivedendo anche l’idea di un’immobilità orientale contrapposta a una serie di cambiamenti sopraggiunti in Occidente. Lo sviluppo della ricerca archeologica ha fornito appigli ai sostenitori di una maggiore continuità delle strutture romane (per esempio le città). Inoltre sono state esaminate fonti in lingue diverse dal latino e dal greco (siriaco, aramaico) e storie di luoghi in precedenza poco studiati (Scandinavia, Nubia, Yemen), che complessivamente hanno consentito di soffermarsi sulle specificità locali della lenta trasformazione. I tempi sono dunque maturi per una nuova riflessione sulla fine dell’impero e del mondo antico, attraverso un’analisi comparata dei cambiamenti e delle permanenze.
Bibliografia
La periodizzazione dell’età tardo-antica è tracciata chiaramente in P. Brown, Il mondo tardo antico. Da Marco Aurelio a Maometto, Einaudi, Torino 1974. Una sintesi più recente è A. Cameron, Il tardo...