Psicologia del male
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Psicologia del male

  1. 144 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Psicologia del male

Informazioni su questo libro

Chiunque, in particolari circostanze, può infierire contro un altro essere umano: questo è quanto emerge dall'impressionante viaggio nelle profondità del male condotto da Piero Bocchiaro. Pagina dopo pagina, l'analisi avvincente e rigorosa offerta dall'autore annulla lo scarto (sicuramente confortante) tra 'buoni' e 'cattivi', mettendo fatalmente in crisi la tradizionale dicotomia Bene/Male.

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Informazioni

V. Uomini in contesti estremi: le torture di Abu Ghraib

Certo è questa veste
che mi fa mutar indole.
William Shakespeare
28 aprile 2004. Le televisioni di tutto il mondo stanno mostrando ciò che da mesi accade nel carcere iracheno di Abu Ghraib, periferia ovest di Baghdad. Le foto ritraggono volti sorridenti di soldati americani a fianco di prigionieri incappucciati, nudi, tenuti al guinzaglio, ammassati a formare una piramide umana, attaccati a fili elettrici, assaliti da cani. Questa galleria di orrori è destinata addirittura ad arricchirsi: il rappor­to interno stilato da Antonio Taguba, generale ame­ricano incaricato di indagare su Abu Ghraib, accerta infatti altri atti di violenza perpetrati dai soldati americani dall’ottobre al dicembre del 2003. Il rappor­to parla, tra le altre cose, di prigionieri ­sodomizzati con lampade chimiche o con manici di scopa, di percos­se con bastoni e sedie, di getti d’acqua fredda su corpi nudi, dell’obbligo per i detenuti di indossare biancheria intima femminile o di assumere pose umilianti e sessualmente esplicite. Il 4 maggio, nel corso di una conferenza stampa tenuta al Pentagono, il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld ridimensiona la gravità delle accuse mosse agli Stati Uniti, parlando di abusi invece che di torture; la sua linea difensiva fa inoltre riferimento alla «teoria delle mele marce», secondo cui tali azioni sarebbero state compiute in un contesto particolare da un ristretto numero di soldati. Eventi isolati e di minore importanza, secondo Rumsfeld.
Anch’io fui turbato da quelle foto, ma non sorpreso: ciò che stavo vedendo mi ricordava drammaticamente quanto accaduto trent’anni prima nel corso di un esperimento condotto all’Università di Stanford. Phil Zimbardo, l’autore, volendo studiare le dinamiche innescate da un contesto carcerario, costruì una finta prigione e reclutò degli studenti universitari disposti a interpretare per due settimane il ruolo di guardia o di detenuto. L’obiettivo era capire quanto un simile scenario avrebbe influenzato atteggiamenti e comportamenti di chi vi agiva. Zimbardo si sforzò di rendere verosimile l’intera situazione, ricreando l’atmosfera opprimente di un carcere e coinvolgendo la polizia nella fase degli arresti. L’estremo realismo, tuttavia, causò degli effetti collaterali così gravi sui partecipanti da costringere il ricercatore a interrompere l’esperimento dopo soli sei giorni.

1. L’esperimento carcerario di Stanford1

A Palo Alto (California) sono in corso numerosi arresti per rapina a mano armata e furto con scasso. I presunti colpevoli, dopo essere stati schedati al comando di polizia, vengono condotti dagli agenti presso il carcere della contea di Stanford, costruito all’interno dell’omonima università. Qui i nove ragazzi ricevono subito un numero identificativo e una uniforme bianca «da indossare senza biancheria sotto», dicono le guardie. Le celle sono tre, strette e prive di finestre.
Guardie e detenuti sono studenti universitari che avevano risposto a un annuncio in cui si cercavano volontari per uno studio sulla vita in prigione. A contattare il gruppo di Zimbardo erano stati in settantacinque, tutti intervistati prima che iniziasse l’esperimento allo scopo di selezionare i diciotto più idonei – quelli cioè nelle migliori condizioni psicofisiche e privi di precedenti penali. I ruoli furono assegnati per sorteggio. Le guardie avrebbero fatto turni di otto ore a gruppi di tre, mentre i detenuti sarebbero rimasti in carcere per tutta la durata dell’esperimento; per ognuno erano previsti 15 dollari al giorno. Zimbardo si assicurò che nessun partecipante conoscesse gli altri, così da evitare che venissero perpetuate in carcere dinamiche relazionali nate all’esterno e quindi non ascrivibili al contesto sperimentale; si assicurò inoltre che i due gruppi fossero psicologicamente simili, in modo da attribuire le eventuali differenze comportamentali a caratteristiche della situazione piuttosto che a fattori di personalità.
Ai primi di agosto tutto era pronto per iniziare l’esperimento. I «neo-detenuti» furono avvisati di rimanere a casa il giorno 15: quella mattina, a loro insaputa, sarebbero stati arrestati dalla polizia di Palo Alto. Alle guardie fu invece chiesto di recarsi sabato 14 presso il dipartimento di Psicologia per un incontro di orientamento. Dal diario della guardia Chuck Burdan: «Poiché sono un individuo pacifista e non aggressivo, non riesco a immaginare una circostanza in cui potrei sorvegliare e/o maltrattare altri esseri viventi. [...] Procurarsi l’uniforme alla fine della riunione conferma il clima ludico di questa faccenda. Dubito che molti di noi condividano le aspettative di ‘serietà’ che a quanto pare nutrono i responsabili della ricerca»2.
Il primo giorno in prigione trascorre tranquillo; non il secondo. All’alba di lunedì infatti i detenuti si barricano in cella: protestano perché le guardie li hanno svegliati alle due del mattino costringendoli a una conta e all’esecuzione di una lunga serie di flessioni. I nove ragazzi non si aspettavano evidentemente un atteggiamento così rigido da parte di un gruppo di coetanei che, come loro, era lì per sperimentare la novità del carcere. Le guardie, per parte propria, avevano effettuato la conta notturna come previsto dal regolamento, punendo chi non aveva ancora memorizzato le regole; sono dunque sorprese da questa ribellione, che riescono a sedare solo in seguito all’arrivo dell’altro turno.
Dal diario di Chuck Burdan: «dato che provo simpatia per il 1037, ho deciso di non parlare con lui. Poi sto prendendo l’abitudine di colpire pareti, sedie e sbarre [con il manganello] per fare sfoggio del mio potere»3. Ecco invece il pensiero di Varnish: «Cominciavo a sentirmi effettivamente come una guardia [...]. Mi sorprendeva – no, mi sgomentava – scoprire che potevo davvero essere un, ehm, che potevo agire in un modo del tutto insolito rispetto a quello che avrei immaginato di fare. E mentre lo facevo, non mi sentivo affatto dispiaciuto, non mi sentivo affatto colpevole»4.
Nelle conte successive i detenuti mostrano di non aver ancora imparato le regole; uno di loro, il numero 8612, si rifiuta di eseguire le flessioni. Doug, così si chiama, alterna già da alcune ore comportamenti aggressivi a pianto incontrollato. Convocato dai ricercatori, chiede ripetutamente il rilascio, ma secondo Zimbardo non ce ne sono i presupposti. Il ragazzo torna in cella e riprende a insultare le guardie, poi urla ai compagni: «Cioè, non potevo uscire! Ho passato tutto questo tempo a parlare con dottori e avvocati [...]. Non potevo uscire! Non mi farebbero uscire! Non potete uscire di qui!»5. Il messaggio è devastante per gli altri detenuti, che si convincono di essere davvero in carcere. «A quel punto ho avuto la sensazione che fosse un vero carcere», dichiarò uno di loro a fine esperimento. «Mi sentivo completamente impotente. Più impotente di quanto mi fossi mai sentito prima»6. E un altro: «Ha detto che non potevamo uscire. Ti senti come se fossi un vero detenuto. Magari eri un detenuto dell’esperimento di Zimbardo e magari eri pagato per questo; ma, porca miseria, eri un detenuto. Eri un vero detenuto»7. Doug continua a urlare e piangere. Stavolta i ricercatori decidono di liberarlo.
Martedì, in maniera del tutto arbitraria, le guardie vietano ai detenuti l’uso dei servizi igienici. Chi si rifiuta di utilizzare il secchio viene rinchiuso in un ripostiglio, spogliato nudo o costretto a fare flessioni, a seconda delle guardie di turno – il 5704, ad esempio, viene legato mani e piedi con una corda e trascinato in isolamento. Col passare delle ore gli ordini diventano sempre più fantasiosi: i detenuti sono costretti a cantare, insultarsi, ridere a comando, fare Frankenstein, spostare scatole di cartone avanti e indietro, disfare e rifare i letti. A qualcuno viene anche ordinato di pulire il bordo del water a mani nude.
«5704, vieni qui e siediti sulla sua schiena»8. A parlare è la guardia Hellmann, indicando un detenuto pronto per le flessioni; poi continua: «E non aiutarlo. [...] 5486, siediti anche tu sulla sua schiena, rivolto dall’altra parte. Forza, sulla parte alta della schiena, adesso!». Hellmann – detto John Wayne – osserva la scena dall’alto; poi ordina a un altro detenuto di fare delle flessioni lente mentre lo spinge giù col piede. È lui il più spietato; ma è anche lui che prima dell’esperimento aveva scritto di sé: «Ho una vita normale e mi piacciono la musica, il cibo e le altre persone. [...] Ho un grande amore per gli esseri umani»9.
Guardia Vandy: «Mi è piaciuto tormentare i detenuti alle due e mezzo del mattino»10. Guardia Ceros: «Mi faceva piacere provocarli. Mi preoccupava che il ‘Sergente’, il 2093, fosse così remissivo. Gli ho fatto lustrare i miei stivali sette volte e non si è mai lamentato»11. Sul versante opposto, ecco invece cosa rivela Clay, il numero 416: «[era] un carcere gestito da uno psicologo invece che dallo Stato. Ho cominciato ad avere l’impressione che l’identità, la persona che ero, che aveva deciso di andare in carcere, fosse lontana da me, fosse remota, che in fin dei conti non fossi io. Io ero il ‘416’. Ero davvero il mio numero»12. In tre giorni, sorprendentemente, i partecipanti hanno già assunto l’identità reclamata dal ruolo di guardia o di detenuto, ruolo, ricordiamolo, assegnato loro dal lancio di una moneta.
Il cattivo odore di feci e urina si avverte ormai dappertutto. I detenuti sono sfiniti per la mancanza di sonno, deboli per la dieta ridotta, umiliati per le continue vessazioni, coperti di lividi per i colpi ricevuti; non sorprende dunque che altri tre di loro, dopo Doug, manifestino sintomi di uno stress così estremo da costringere Zimbardo a liberarli. L’unico ad accennare una reazione è il 5704, ma viene subito incatenato; in più, come punizione collettiva, la guardia Arnett ordina agli altri di fare settanta flessioni.
Giovedì sera arriva Christina Maslach, psicologa incaricata di intervistare i partecipanti all’esperimento. Nelle parole della donna:
Quando [scesi] nel seminterrato dove si trovava il carce­re, […] [mi intrattenni] con una guardia in attesa di comin­ciare il suo turno. Era molto piacevole, educato e cordiale, senza dubbio [un ragazzo] che chiunque avrebbe considerato un tipo davvero simpatico. Più tardi, un membro dell’équipe di ricerca mi [disse] che avrei dovuto dare di nuovo un’occhiata al cortile, perché era montato il turno di notte e si trattava del famigerato turno di «John Wayne». John Wayne era il nomignolo della guardia in assoluto più cattiva [...]. [Rimasi] attonita scoprendo che il loro John Wayne era il «tipo davvero simpatico» con cui prima avevo fatto quattro chiacchiere. Solo che, adesso, si era trasforma­to in un’altra persona. Non soltanto si muoveva in modo diverso, ma parlava in modo diverso – con un accento del Sud... Gridava e imprecava contro i detenuti mentre faceva fare loro la «conta», esagerando in volgarità e aggressività. Era una stupefacente trasformazione rispetto alla persona con cui avevo appena parlato, una trasformazione che si era verificata nel giro di pochi istanti, semplicemente varcando la frontiera tra il mondo esterno...

Indice dei contenuti

  1. Il male non è mai straordinario ed è sempre umano.
  2. Premessa
  3. I. Il male e il potere della situazione
  4. II. Quando l’obbedienza è distruttiva: il caso Eichmann
  5. III. Inerti di fronte a un dramma: il delitto Genovese
  6. IV. Anonimi in mezzo alla folla: la tragedia dell’Heysel
  7. V. Uomini in contesti estremi: le torture di Abu Ghraib
  8. VI. Il volto ordinario del male (e del bene)