Che anno il 1789!
Due architetti in piazza. La rivoluzione francese comincia con..., «la presa della Bastiglia!», rispondono subito i ragazzi. E rispondono quasi sempre allo stesso modo anche gli adulti, per i quali quel tetro castello medievale, piantato nel cuore di Parigi e adibito a carcere, è il simbolo di tutte le cose che appartengono al passato remoto della storia, alla tirannia dei potenti, ai privilegi dei nobili.
In verità, nella Francia e nella Parigi di fine Settecento, erano proprio quei potenti e quei nobili a non amare la Bastiglia. Per il gusto raffinato di quel tempo, la Bastiglia, con le sue torri incombenti (era stata costruita a metà del XIV secolo), circondata da un fossato d’acqua, col ponte levatoio, era un pugno nell’occhio, un’offesa insomma alle eleganti costruzioni in stile rococò che sorgevano al centro della città. Così, un bel giorno di primavera del 1784, il re Luigi XVI aveva convocato al palazzo un apprezzato architetto, Monsieur Linguet. Questi era anche, diremmo oggi, un urbanista, e aveva predisposto un piano di demolizione della Bastiglia per far luogo a una piazza ampia e luminosa che avrebbe dovuto intitolarsi proprio a Luigi XVI. Il re e i suoi ministri si dimostrarono molto interessati al progetto, ma le spese per la demolizione del castello erano in quel momento, per le ragioni che diremo dopo, troppo elevate per le casse dello Stato. Conveniva rimandare l’attuazione di quella bella idea. Passarono alcuni anni.
L’8 giugno 1789, in una Parigi piena di fermenti politici, un altro architetto-urbanista scese dalla carrozza davanti al palazzo reale con dei rotoli di carte e alcune cartelle di disegni portati dal suo assistente. Fu subito introdotto nello studio del re. L’architetto (si chiamava Davy de Chavigué), dopo un rispettoso inchino, distese su un grande tavolo i suoi disegni. Era un altro progetto di demolizione della Bastiglia, ma con un tocco in più: al centro della piazza che ne sarebbe risultata sarebbe stato eretto un monumento a Luigi XVI il «Liberatore». Il re ne fu entusiasta, e diede subito ordine al ministro delle finanze di trovare i fondi necessari presso una benemerita istituzione chiamata Cassa per l’abbellimento e il miglioramento della città di Parigi, un ente pubblico che in quegli anni aveva risanato molti quartieri della capitale. Davy de Chavigué si mise al lavoro, ma ebbe appena il tempo di appuntire le penne d’oca e di stemperare i colori: trentasei giorni dopo, il 14 luglio 1789, il popolo di Parigi dava l’assalto alla Bastiglia e ne iniziava, gratuitamente, la demolizione. In quel giorno, nella Bastiglia, vi erano sette detenuti, sorvegliati da ottantadue anziane guardie e da trentadue soldati svizzeri agli ordini del governatore del castello. Fu una strage.
Era cominciata la Rivoluzione francese, ma (a questi paradossi, cari ragazzi, dovrete abituarvi) come avete visto, il re e la Corte, almeno in idea, la Bastiglia l’avevano demolita molto prima del popolo parigino. Per capire meglio questa coincidenza conviene fare un passo indietro, e raccontare la Francia alla vigilia della Rivoluzione.
Settecento, adieu... Potremmo cominciare con una celebre boutade, attribuita a un personaggio famoso, il vescovo Talleyrand: «Chi non ha conosciuto la Francia prima della rivoluzione non sa cosa sia la dolcezza del vivere». C’è della verità, inutile negarlo, in questa battuta. E se alla espressione «dolcezza del vivere» attribuiamo un significato meno futile, il rimpianto di Talleyrand trova conferma nell’interesse mai spento (anzi più vivo che mai in questi ultimi tempi) per il Settecento, soprattutto quello francese, che non può essere circoscritto solo al suo drammatico epilogo, all’ultimo infiammato decennio. Infatti più ci si avvicina con la memoria a quella rivoluzione della borghesia (della quale, nel bene e nel male siamo eredi), più si ammirano idee, sentimenti, valori letterari, musicali, figurativi, filosofici, comportamenti (cioè la dolcezza del vivere) di un Settecento niente affatto rivoluzionario.
E non solo il Settecento degli uomini di cultura (filosofi, scienziati, storici, scrittori illuministi i quali, pur non avendo nel loro insieme alcuna simpatia per le rivoluzioni, ne hanno tuttavia creato le premesse culturali), ma anche il Settecento delle aristocrazie, che non considerava possibile una rivoluzione e che nutriva indifferenza se non disprezzo verso le classi inferiori.
Ma torniamo a Talleyrand e cerchiamo di scoprire qualcosa della Francia prerivoluzionaria. Sarà un breve viaggio che ci avvicinerà al 13 luglio 1789, al «giorno prima» del giorno più lungo della storia della Francia.
Alla vigilia del più grande evento della storia moderna, i francesi erano circa ventisei milioni. Tra le più popolate nazioni d’Europa (gli inglesi erano solo nove milioni, gli spagnoli poco più di dieci), la Francia attraversava un periodo di crescita economica, agricola e industriale; ma era insidiata dall’inflazione monetaria e da forti aumenti dei prezzi dei generi di prima necessità.
Aumentano i prezzi. A questo proposito è interessante sapere che, a partire dal 1785, l’aumento aveva colpito non tanto i generi di lusso, quanto i cereali e le farine che sfamavano la gente soprattutto delle campagne. Ora, poiché su ventisei milioni di abitanti solo quattro milioni vivevano in città (dove era possibile, per i meno abbienti, sbarcare in qualche modo il lunario), è evidente che l’inflazione danneggiava quanti avevano redditi più bassi, cioè coloro che vivevano in campagna, contadini e operai stagionali: in una parola, quasi tutti i francesi.
Non è facile, ovviamente, stabilire un rapporto meccanico tra la tensione sociale che, anche per queste ragioni, cominciò a crescere nel paese e quel che accadrà il 14 luglio 1789 a Parigi. È un fatto, però, che nella prima quindicina di luglio il frumento era aumentato del 150 per cento e la segale del 165 per cento; si trattava, ripetiamo, di prodotti essenziali dell’alimentazione quotidiana dei francesi.
Così, proprio nel 1788, per le strade delle città e dei villaggi si videro le prime drammatiche «comparse» di quelle che poi saranno le folle rivoluzionarie: i disoccupati affamati.
Ma a qualcuno l’aumento dei prezzi non creava problemi: ai commercianti, ai proprietari terrieri e agli ecclesiastici (che, qualunque fosse l’andamento della crisi, ricevevano affitti in natura e decime, cioè quei tributi consistenti nella decima parte dei frutti della terra e degli animali che i contadini avevano l’obbligo di versare a enti ecclesiastici, parrocchie, conventi), ai banchieri-usurai e così via.
Siamo così giunti alla struttura sociale, alla gerarchia del potere dell’ancien régime, una piramide la cui descrizione, anche se per grandi linee, permette di capire che la rivoluzione francese non fu esclusivamente borghese. Le cose stanno infatti in modo diverso. Tra i suoi padri infatti la rivoluzione ha avuto anche un consistente numero di aristocratici e di ecclesiastici.
La bella vita dei nobili. Nel 1789 l’aristocrazia era la classe dirigente della Francia. Appartenere alla ristretta cerchia che risiedeva accanto al re a Versailles, oppure alla casta dei «nobili di toga» (che avevano in mano i «parlamenti» locali, cioè le magistrature e vasti settori dell’amministrazione dello Stato) non era lo stesso che appartenere alla nobiltà provinciale, la quale aveva pochi soldi a disposizione ed esercitava i suoi meschini privilegi feudali e, come scrive lo storico Albert Soboul, «viveva rinchiusa nella sua miseria, odiata dai contadini, disprezzata dai grandi signori, che a sua volta detestava, per le notevoli rendite che questi traevano dal tesoro regio, come detestava la borghesia cittadina per le ricchezze che le sue attività produttive le permettevano di accumulare».
Ma quanti erano? Secondo i calcoli più attendibili, il totale dei nobili francesi non superava le trecentocinquantamila unità: appena l’1,5 per cento della popolazione. Una parte notevole di costoro non solo aveva problemi economici e faticava a mantenere l’alto tenore di vita che si era imposto, ma era culturalmente e politicamente dilaniata da conflitti interni e dallo sforzo di limitare, in tutti i modi possibili, il potere del sovrano.
In definitiva, la prima, vera opposizione all’assolutismo monarchico finì con l’essere, negli anni Ottanta, proprio quella degli aristocratici. Fu chiamata appunto la «rivolta nobiliare» e vide uniti, nel disegno comune di una limitazione radicale del potere monarchico, sia gli aristocratici intellettuali, riformatori e amici degli illuministi, sia i nobili reazionari che nel re vedevano un ostacolo per l’accrescimento dei loro privilegi.
«Per dominare la crisi che si annunciava», scriverà uno dei maggiori storici della Rivoluzione, Albert Mathiez, «ci sarebbe voluto alla testa della monarchia un re. Non si ebbe che Luigi XVI. Quest’uomo pesante, di modi borghesi, si trovava bene soltanto a tavola, a caccia o nella sua officina di serramenti; il lavoro intellettuale lo opprimeva, si addormentava durante le sedute del Consiglio dei ministri. Divenne ben presto oggetto di dileggio da parte dei cortigiani frivoli e leggeri: si osava prendersi gioco della sua persona persino nell’Oeil de Boeuf [così era chiamata la sua anticamera a Versailles che aveva una grande finestra ovale e si congiungeva, con un corridoio, agli appartamenti della regina]. Era uomo da sopportare che un nobile gli facesse una scenata a proposito di una diminuzione di indennità». In realtà, a molti nobili (sia coloro che vivevano a Corte o la frequentavano, sia i nobili che stavano in provincia) non andava a genio che una serie di riforme, avviate nel nome di questo re, avesse tolto loro antichi privilegi feudali.
Quanti erano i francesi?
Alla fine del Settecento la Francia aveva circa ventisei milioni di abitanti. Ventidue milioni vivevano in campagna e quattro milioni in città. Parigi era la città più popolosa della Francia, circa 650 mila abitanti, mentre città come Lione, Bordeaux e Marsiglia superavano appena i 100 mila abitanti.
Come numero di abitanti la Francia era il più grande paese dell’Europa occidentale. Gli era seconda l’Italia, con circa diciassette milioni di abitanti. Il grande impero inglese non superava i nove milioni e l’impero spagnolo superava appena i dieci milioni.
Quanti erano gli italiani?
Abbiamo detto che l’Italia era, dopo la Francia, il paese più popolato dell’Europa occidentale: diciassette milioni di persone. Anche da noi la maggior parte degli abitanti viveva in campagna. Le uniche città densamente popolate erano Napoli, capitale del Regno di Napoli, che a fine Settecento contava 438 mila abitanti, Palermo circa 300 mila, Roma 163 mila, Venezia 138 mila, Milano 131 mila. Tutti gli altri centri non raggiungevano i 100 mila abitanti. Torino, capitale del regno di Sardegna, aveva appena 75 mila abitanti.
Versailles
Splendida residenza dei re di Francia, Versailles è a quindici chilometri da Parigi. Fu fatta edificare nel 1660 da Luigi XIV, che la scelse come sua dimora, abbandonando le Tuileries, e incaricò l’architetto Louis Le Vau di ampliare con avancorpi e facciata sul giardino un preesistente casino di caccia. Il re aveva voluto tale ampliamento in modo da avere vicino a sé l’amministrazione statale, ma anche tutta la nobiltà e la Corte in un ambiente sfarzoso e raffinato. I lavori di Le Vau furono proseguiti dall’architetto Jules Hardouin-Mansard, che alzò di un piano l’edificio e costruì la centrale Galleria degli Specchi, un salone lungo 73 metri e largo 10 dove si tenevano i ricevimenti di Corte. Da qui diciassette grandi finestre ad arco offrivano una meravigliosa vista sui giardini e sul parco. I giardini erano stati progettati e sistemati nel 1670 da André Le Nôtre, il più famoso architetto di giardini del tempo, e con la loro simmetria e le forme rigorosamente geometriche riflettono l’ideale classico francese e intendono esprimere il dominio dell’uomo sulla natura. Luigi XVI fece poi aggiungere ai giardini alla francese di Le Nôtre i giardini all’inglese del Petit Trianon, ispirati al tentativo di creare un angolo di natura apparentemente spontanea. Il Petit Trianon era il luogo di soggiorno preferito dalla regina Maria Antonietta, che nel giardino aveva fatto costruire un gruppo di piccole case di campagna. Qui la regina e le dame di Corte solevano divertirsi, travestite da contadine, accudendo gli animali e coltivando ortaggi e fiori.
Il palazzo delle Tuileries
Dopo la tragica morte in un torneo di Enrico II, Caterina de’ Medici, sua moglie, preferì abbandonare la cupa fortezza del Louvre, che era allora la residenza dei sovrani, e fece costruire per sé nel 1564 un nuovo palazzo, le Tuileries, il cui nome deriva da un’antica fabbrica di tegole (tuiles) che sorgeva prima nella sua area. L’architetto
incaricato della costruzione fu Philibert Delorme che, avendo soggiornato in Italia, si ispirava alle forme del classicismo e del Rinascimento italiano. Divenuto residenza reale, fu poi abbandonato da Luigi XIV che preferì trasferire la Corte a Versailles. Con la rivoluzione e fino al 1792 le Tuileries tornarono ad essere residenza reale e diventarono anche sede del governo. Parzialmente distrutto da un incendio nel 1871 durante la rivolta della Comune, il palazzo venne poi abbattuto. Ne restano soltanto i bellissimi giardini ornati da sculture e da due grandi fontane ottagonali. Allestiti a partire dal 1664 da André Le Nôtre, i giardini erano il luogo di passeggio dei sovrani e della nobiltà francese. A sinistra del loro ingresso, sulla terrazza dei Foglianti, sorge il palazzo del Jeu de Paume, l’antica palestra utilizzata per il gioco della pallacorda e luogo del giuramento dei deputati del Terzo Stato (giugno 1789).
I nobili contro il re. Certo, tra i quattromila nobili presenti alla Corte di Versailles che vivevano fastosamente di rendite, di elargizioni e di pensioni reali, non mancavano uomini di grande statura morale e intellettuale. Una fascia seria e responsabile dell’alta nobiltà conviveva armonicamente con esponenti della borghesia colta e «illuminata», frequentava i salotti parigini, e praticava le professioni «liberali» (cioè le scienze matematiche e fisiche, la filosofia, la storia, la chimica, l’astronomia, la medicina, il diritto). Non mancavano neanche, tra i collaboratori del re e nel Consiglio dei ministri, personaggi come Charles-Alexandre de Calonne, che propugnava una più equa ripartizione delle imposte e l’abolizione di vecchie norme che intralciavano lo sviluppo del commercio e dell’industria, e il banchiere ginevrino Jacques Necker, che per rimettere ordine nelle finanze consigliava il re di porre un limite alle spese eccessive e agli sperperi della Corte. Non a caso Calonne e Necker, ministri delle finanze negli anni tra il 1786 e il 1788, furono costretti alle dimissioni e osteggiati proprio per i loro progetti tendenti al risanamen...