IV.
Il brigantaggio al tempo
dei Savoia
I primi tempi, tra promesse, incertezze, tradimenti
Monsieur le Marquis, le Parlement National vient de voter et le Roi a sanctionné la loi en vertu de laquelle S.M. Victor Emmanuel II assume, pour lui et pour ses successeurs, le titre de Roi d’Italie [...] Dès ce jour, l’Italie affirme hautement en face du monde sa propre existence.
Il marchese a cui è indirizzata la lettera, datata Torino 17 marzo 1861, è Massimo d’Azeglio e a firmare la missiva è Camillo Benso conte di Cavour. È il primo atto ufficiale con il quale s’annuncia l’assunzione del titolo di re d’Italia da parte di Vittorio Emanuele II, «una corona nuova, una numerazione vecchia»1. È un’anomalia che un nuovo re cominci con una numerazione così, e lo è anche che la legislatura sia l’VIII del Regno di Sardegna e non la I del Regno d’Italia. Cavour, altra anomalia, non scrive in italiano ma in francese, che è la lingua usata dall’aristocrazia e dalla borghesia torinese e piemontese.
Cavour scrive immediatamente perché sa quanto sia importante il riconoscimento internazionale, che è problema impegnativo dal momento che si tratta di far accettare un dato di fatto: «l’affermazione, per la prima volta, del principio di nazionalità su quello di legittimità, cardine dell’ordinamento fissato dal Congresso di Vienna»2.
La proclamazione è debitrice dell’iniziativa di Garibaldi che è sbarcato a Marsala l’11 maggio 1860, guardato a vista da uomini inviati nell’isola da Cavour, «uomini fidati, destinati a facilitare l’opera di piemontesizzazione dell’impresa garibaldina»3. Con una velocità strabiliante, il 7 settembre Garibaldi arriva a Napoli, la capitale del Regno delle Due Sicilie. Quattro mesi sono sufficienti a incrinare irrimediabilmente l’antico regno meridionale, alla cui fine hanno dedicato molte pagine storici, memorialisti, studiosi di varie tendenze. Ha inizio così una nuova storia, che verrà sancita a Torino quel giorno di marzo d’un anno dopo.
S’avvia un processo complicato e non lineare di una conquista regia4 che passa attraverso l’annessione del Mezzogiorno5 accettata dall’aristocrazia e dalla borghesia meridionali, che temono il ritorno dei Borbone, e in particolare il rischio di un’insurrezione contadina con rivendicazioni e connotazioni marcatamente di classe.
I mesi che seguono all’impresa di Garibaldi fanno emergere tre grandi questioni. La prima è lo scontro tra i garibaldini e l’ala moderata dei liberali che ha in Cavour il massimo rappresentante; il conte teme che Garibaldi entri per primo a Napoli e fa di tutto per far insorgere la città prima dell’arrivo delle camicie rosse – teme anche che arrivi a Roma e fa di tutto, riuscendoci, per impedirlo.
La seconda riguarda la camorra, una forma di criminalità organizzata radicata principalmente a Napoli, dove s’è impiantata e rafforzata tanto da rendere dei buoni servigi ai Borbone al tempo del ministro di Polizia Salvatore Maniscalco, che ha utilizzato i camorristi per combattere altri criminali; Liborio Romano, l’ultimo ministro dell’Interno di casa Borbone, chiama i camorristi, che sono tanti e controllano interi settori economici della città, e li convince a garantire che l’arrivo di Garibaldi non si trasformi in un bagno di sangue. È Romano a raccontare nelle sue Memorie politiche le ragioni che lo hanno indotto a trattare con i camorristi impiegandoli come forza di polizia.
La terza è quella della terra. Garibaldi e i suoi sanno che i contadini attendono da tempo immemorabile la divisione delle terre che i galantuomini hanno usurpato; non a caso è un decreto del 2 giugno firmato da Francesco Crispi a promettere una quota delle terre comuni a chiunque prenda le armi e combatta per Garibaldi; e sarà lo stesso Garibaldi il 31 agosto a firmare a Rogliano un decreto con il quale stabilisce che gli abitanti poveri di Cosenza e dei Casali possono esercitare provvisoriamente e gratuitamente gli usi di pascolo e di semina nelle terre demaniali della Sila. Non è la rivoluzione sociale quel decreto, ma Donato Morelli, rappresentante degli usurpatori silani e delle grandi proprietà terriere, nominato governatore generale della Calabria da Garibaldi, appena l’eroe dei due mondi si mette in marcia verso la Basilicata cambia il decreto e lo rende inoffensivo per la grande proprietà.
Quello della terra è il primo problema che affrontano i garibaldini in Sicilia. Lo affronta a modo suo Nino Bixio, un irruente militare genovese, forse digiuno della storia e delle rivendicazioni dei contadini siciliani, che risolve con piglio militare la questione della sollevazione contadina di Bronte con un processo-farsa seguito dalle immancabili fucilazioni6. Il suo agire, ne è convinto Paolo Alatri, ha un «netto carattere terroristico» che serve da «mònito per il futuro»7.
Nel frattempo ritornano i briganti, che non sono gli stessi degli anni precedenti. Il brigantaggio del primo decennio unitario ha dei caratteri di novità, anche se molte delle cose che accadono somigliano a quelle dei decenni passati. Alcune cause di fondo che spingono al brigantaggio sembrano attraversare il tempo senza grandi modifiche, e anche le misure adottate per contrastare i briganti si rincorrono lungo i secoli sempre uguali.
Il termine brigantaggio continua ad essere usato per indicare cose molto diverse tra loro: comprende ladri, assassini, ladroni di strada e tanti altri criminali comuni; la rivolta neoborbonica e le bande finanziate dai Borbone e dalla corte pontificia – che s’ingrossano con gli sbandati dell’esercito borbonico in rotta8 e di quello dei garibaldini che è stato sciolto – pur avendo un obiettivo politico sono etichettate allo stesso modo; e con il termine brigantaggio sono designati anche tutti i moti sociali che sono tanti e molto diversi, come dimostrano le esplosioni e i conflitti di classe nei singoli paesi.
C’è un po’ di confusione, come evidenzia il direttore del ministero di Polizia Giuseppe Arditi, che da Napoli il 25 settembre 1860 scrive al governatore della provincia di Cosenza di manifestazioni di «comunismo», come mostrano le «numerose comitive armate» e i riscatti che si chiedono per le persone sequestrate9. Confusione ancora maggiore è anche quella di Spaventa, responsabile della pubblica sicurezza a Napoli, che agli inizi del 1861, di fronte ad un’agitazione di operai che chiedono lavoro, propone di mandarli al confino «nelle isole pontine»10.
Ma per quanto siano forti le somiglianze, è anche vero che la forma di repressione che il nuovo Stato sceglie deve tenere conto dello Statuto, del contesto internazionale, della necessità di riportare dentro una cornice di legalità, almeno formale, tutte le illegalità commesse dai generali e dalle autorità politiche locali. Tutto ciò avviene nel mentre una nuova classe dirigente – che nulla sa del Mezzogiorno e quel che sa è infarcito da pregiudizi e luoghi comuni – sta costruendo un nuovo Stato che nelle intenzioni e nelle dichiarazioni ufficiali dovrebbe essere di tipo liberale ma che a conti fatti presenta il volto degli stati d’assedio, delle leggi eccezionali, del governo del territorio lasciato in mano ai militari, che hanno un peso enorme nella conduzione degli affari nazionali.
Si governa con le truppe dislocate nel Mezzogiorno, che è occupato militarmente perché i nuovi governanti privilegiano una «prospettiva esclusivamente repressiva»11. Un terzo dell’esercito nazionale è dispiegato nelle regioni meridionali a combattere i ribelli in armi12. Intervenendo alla Camera, il ministro della Guerra – il torinese generale Agostino Petitti Bagliani, conte di Roreto – dice che nelle province meridionali, compresa la Sicilia, ci sono «ben 120.000 soldati», mentre un anno prima Ricasoli ha stimato una presenza di 50.00013. L’aumento è notevole.
Non tutti i generali hanno le stesse idee e tanto meno agiscono in modo uniforme. Ci sono confronti aspri tra le autorità militari e quelle politiche e ancora più spesso la magistratura. È un quadro variegato, quello che ci viene incontro. C’è una molteplicità di situazioni, di comportamenti; ci sono errori degli ufficiali che provocano morti nella truppa, c’è un disagio vero a dimorare in luoghi sconosciuti, si fa fatica a vivere dove le popolazioni si mostrano ostili, c’è un lavoro massacrante, ci sono suicidi tra i soldati e gli ufficiali, ci sono disertori, ci sono vari tipi di malattie, compresa la sifilide, e giovani che non reggono la fatica. Sono uomini, con tutte le loro debolezze, non tutti eroi immacolati come li hanno descritti l’agiografia e la retorica risorgimentale né tutti feroci assassini o criminali sanguinari come vorrebbe la propaganda opposta.
Nel primo decennio del regno spesso il potere è affidato, anche formalmente, ai militari; il che significa supremazia sulle autorità civili, prefetti e magistratura compresa, e persino nei co...