Filosofia in gioco
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Filosofia in gioco

  1. 160 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Filosofia in gioco

Informazioni su questo libro

Quello di una bimba di due anni che esplora e sovverte il suo ambiente quotidiano è detto gioco, ma che cosa ci autorizza a usare la stessa parola per il calcio o per gli scacchi? E che dire di quanti hanno parlato dell'arte, della letteratura e della filosofia come di sublimi giochi intellettuali? Ermanno Bencivenga si inoltra nel labirinto delle mille accezioni del termine gioco, fra sentieri tortuosi, svolte impreviste e vicoli ciechi.

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Informazioni

1. Il gioco

Una bambina di due anni entra in una stanza per lei nuova, cosparsa di oggetti ignoti. Si muove incerta dall’uno all’altro; li prende in mano, osservandoli curiosa e perplessa da ogni punto di vista; li assaggia e li mordicchia con i suoi piccoli denti; li scaglia per terra e per aria; li fa rotolare sul pavimento, seguendone il percorso e le reazioni; ci infila dentro le mani cercando di smontarli, di farli a pezzi; li picchia con forza per trarne un suono e sorride quando rispondono. Poi si accovaccia in un angolo, raccoglie intorno a sé tutti questi suoi tesori e li combina in forme sempre nuove: un cerchio di libri e scarpe con un telefono in mezzo, una pila di pentole e stoviglie, un orsacchiotto che guarda in cagnesco un altoparlante.
Il portiere ha appena raccolto una palla morta. Potrebbe rilanciare lungo, oltre il centrocampo; ma preferisce l’appoggio al difensore di fascia, appena fuori dall’area. Il terzino scatta veloce: gli avversari sono sbilanciati dall’altro lato del campo, lui ha un’autostrada davanti e il centinaio di metri che lo separa dalla linea di fondo è la distanza giusta per le sue doti di velocista potente e armonioso. In affanno, sopraggiunge infine un marcatore, ma prima che si stringa troppo il terzino si ferma di botto in un fazzoletto di terra. Ha spazio, ancora per una frazione di secondo; lancia un cross morbido per la testa del suo centravanti, chiaro punto di riferimento a dieci metri dal portiere. L’attaccante ne ha due addosso, che lo spingono e lo strattonano rischiando il rigore e gli bloccano la visuale della porta, così invece di schiacciare direttamente a rete fa da torre e deposita la sfera sui piedi dell’ala che si è appostata sul secondo palo. Non c’è che da spingere, il pallone varca la linea bianca, lo stadio impazzisce. Tutto questo miracolo di perfetti gesti atletici, di geometrie essenziali non è durato neanche un minuto.
Sono due esempi di un’attività che chiamiamo «gioco»; ma non è affatto evidente che sia lecito usare per entrambi la stessa denominazione. Sembra anzi un arbitrio, un capriccio; sembra non possano esserci modi più disparati di occupare il tempo. La bambina agisce in assoluta libertà, guidata solo dall’inclinazione del momento; non accetta alcuna barriera tra ciò che è in gioco e ciò che non lo è, tra mosse consentite ed escluse; non contempla un limite temporale per quel che sta facendo, e infatti si dovrà sempre e comunque interromperla, e quando lo si farà lei manifesterà con vigore il suo disappunto; non ha uno scopo, non vuole ottenere nulla – null’altro, cioè, che continuare a giocare. I calciatori, invece, vivono un episodio che dura esattamente novanta minuti (più recupero); sono soggetti a regole che è compito dell’arbitro e dei suoi collaboratori far rispettare alla lettera (e che domani provocheranno discussioni a non finire sui giornali e nei bar); hanno l’obiettivo di vincere la partita, segnando un gol più degli avversari, e per questa via conseguire fama imperitura e ingaggi stratosferici. Che cosa ci può offrire l’uso di una stessa parola con significati tanto diversi se non una penosa confusione?
E non è finita, non per me almeno. Consideriamo infatti un passo come il seguente, dalla Critica del giudizio:
È un principio trascendentale quello col quale è rappresentata la condizione universale a priori, sotto la quale soltanto le cose possono diventare oggetti della nostra conoscenza in generale. Invece, un principio si chiama metafisico quando esso rappresenta la condizione a priori, sotto la quale soltanto oggetti, il cui concetto deve esser dato empiricamente, possono essere ulteriormente determinati a priori. Così il principio della conoscenza dei corpi, come sostanze e come sostanze mutevoli, è trascendentale, quando s’intenda che il loro mutare debba avere una causa: è metafisico, invece, quando s’intenda che quel mutamento debba avere una causa esterna; perché nel primo caso basta che il corpo sia pensato solo mediante predicati ontologici (concetti puri dell’intelletto) – per esempio, come sostanza – per conoscere a priori la proposizione; laddove nel secondo deve essere messo a fondamento di questa proposizione il concetto empirico di un corpo (come una cosa mobile nello spazio), ed allora si può vedere interamente a priori che l’ultimo predicato (del movimento prodotto solo da una causa esterna) conviene al corpo (p. 21).
Queste frasi compaiono in un libro che rappresenta uno dei massimi vertici della filosofia occidentale, e io ho sostenuto a più riprese che la filosofia è un gioco. Non solo la filosofia, perché l’ho detto pure dell’arte e della letteratura, ma anche la filosofia. E che cosa giustifica l’accostamento di espressioni così nobili dell’ingegno umano a una partita di calcio o alle peripezie di una bimba da poco in grado di reggersi in piedi? In filosofia si fa terribilmente sul serio, ci si concentra sui temi che più contano, che dànno senso alla vita e all’esperienza del mondo, e si fa di tutto per sviscerarne la struttura, per arrivare in proposito all’unica, esatta verità; non ci si sta divertendo (sviando, cioè: andando a spasso) per godere della novità e della sfida. In ballo non ci sono soldi o il plauso delle folle, e neppure il piacere che deriva da qualche ora trascorsa spensieratamente. Tutt’altro: il pensiero qui è acuto come uno spillo e profondo come l’oceano, diretto come un raggio laser verso problemi per cui le folle non provano (ahimè) alcun interesse, anche perché sono spesso trattati in termini (come quelli del passo citato) che le folle troverebbero incomprensibili; e talvolta l’esito di tanto ossessivo impegno, di tanta rigorosa dedizione, di tanta puntuale insistenza sull’uso di formule corrette e ragionamenti apodittici è un infuso di cicuta propinato al tramonto o il rogo in una piazza romana, fra i pellegrini convenuti per l’anno santo.
Anche questo è un gioco: quello che stiamo conducendo adesso, voglio dire, quello suggerito dall’inizio del mio libro. Ed è importante capire che gioco sia. Potrebbe essere come quando si mettono accanto due vignette che raffigurano situazioni del tutto diverse – che so io?, il varo di una nave e un compito in classe – e si chiede che cosa abbiano in comune. E, aguzzando bene la vista e non lasciandosi distrarre dalle forme più prominenti, si finisce per scoprire che la superficie di un banco coincide con la bandiera spiegata, o la barra del timone con il righello. Un gioco così non è nuovo, per rispondere alle domande che ho posto qui sopra. Si mettono accanto un ragazzo che costruisce un castello di sabbia, un campione di scacchi alle prese con un’apertura inconsueta, Guernica ed Essere e tempo e ci si interroga su quali siano i dettagli che si ripresentano identici in ciascuna situazione. Stabilendo, per esempio, che si ha sempre a che fare con un esercizio fine a sé stesso o con un affrancamento dell’essere umano dalla servitù del bisogno. Identificando il gioco, insomma (quel che lo rende tale), con una singola, astratta caratteristica di ogni gioco particolare, tanto astratta da far scomparire ciò che un gioco particolare ha di vivido e intenso, di suggestivo e appassionante. Che cosa rimane dell’inventiva del trasformare un passeggino in un’automobile, dell’eccitazione di tirare un rigore all’ultimo istante, della sconfinata ingegnosità (e sublime impertinenza) della prova ontologica anselmiana quando le dichiariamo ridotte a una qualsiasi concisa definizione che ci dia l’essenza del gioco?
Non è questo il gioco a cui voglio giocare. È invece un gioco analogo a quello del labirinto. C’è un punto di partenza e noi siamo lì, carichi di tutta la nostra individualità, di tutto ciò che ci rende irripetibili, inconfondibili con chiunque altro. Davanti a noi ci sono bivi e ostacoli, comodi varchi che potrebbero finire in un vicolo cieco e strettoie malsane per cui potremmo trovare il passaggio agognato. E c’è una meta che ci aspetta al termine di un tracciato arduo e sofferto; ma una meta da raggiungere interi, non assottigliati in un’ombra priva di peso e di spessore, anzi avendo acquisito maggior peso e spessore per le avventure vissute e i rischi corsi, avendo visto maturare anziché spegnersi le nostre opinioni e i nostri sentimenti.
Nel linguaggio della filosofia, i due giochi che ho descritto sarebbero ribattezzati con i nomi di Aristotele e di Hegel: il primo fautore di una logica analitica che divide (analizza) oggetti ed esperienze nelle loro molteplici caratteristiche e quindi astrae le caratteristiche comuni costituendo concetti universali che diventano il luogo privilegiato della sua azione; il secondo, invece, di una logica dialettica che unisce (lega) oggetti ed esperienze fra loro, senza perdere nulla della loro complessità, mediante un tessuto narrativo, una storia che gradualmente trascende l’uno nell’altro mantenendo però l’uno presente e attivo nell’altro, un po’ come il monello dodicenne è trasceso, ma ancora presente e attivo, nell’attempato capitano d’industria.
Più avanti potremo riprendere in mano questa terminologia filosofica e precisarla meglio; ora è tempo di giocare, di trovare la via nel labirinto. Dovremo spiegare il punto di partenza: il gioco della bimba di due anni – spiegarlo come si spiega una vela, mostrando tutto quel che le pieghe nascondono. Dovremo avere sempre chiaro in mente l’obiettivo: ritrovare quel gioco e quella bambina nella Critica del giudizio, passando per il gioco del calcio e molte altre tappe. E dovremo affrontare false piste e pericoli, cioè tutte le domande e obiezioni che già ci siamo posti e quelle che dovremo ancora porci, e superarle senza lasciare sul terreno alcun elemento significativo del punto di partenza: senza smarrire l’incanto che affascina la bimba, il brivido con cui tenta un nuovo gesto o una prospettiva strampalata, il piacere riflesso nel suo sorriso, il paziente e prezioso sviluppo della sua personalità che si realizza attraverso questi umili, intimi passi.

2. Il punto di partenza

Cominciamo con la bimba, dunque; studiamone la situazione e (per quel che possiamo capirlo) lo stato d’animo. La prima cosa da notare è che il suo comportamento è trasgressivo: sovverte ogni abitudine sull’uso «corretto» degli oggetti con cui ha a che fare e ogni aspettativa che chiunque si sia formato in proposito. Parte di questa sua natura rivoluzionaria è dovuta al semplice fatto che la bimba non sa quale sia l’uso corretto degli oggetti: non sa, per esempio, che con una spillatrice si cuciono dei fogli e se ne serve invece come di un grosso pesce nella cui bocca spalancata inserire l’«esca» di una pedina della dama, e chi la vede sorride e osserva bonario quanto ingegnoso sia il suo spirito, quanto la sua immaginazione sia in grado di sopperire ai difetti dell’ignoranza. Magari il benevolo spettatore prenderà la spillatrice e ne dimostrerà con sapiente manovra pedagogica il funzionamento: la userà per realizzare in quattro e quattr’otto un bel quadernetto degli appunti che porgerà alla sua pupilla, perché colga subito un elemento decisivo della sua educazione formale prossima ventura – perché l’esperienza attuale non rimanga «solo un gioco». E avvertirà una profonda frustrazione quando l’indisciplinata (presunta) scolara in erba si guarderà bene dall’imitare il suo esempio e realizzare altri dieci quadernetti, e cercherà piuttosto di infilare le dita dentro la spillatrice e strapparle i punti, cioè i piccoli denti affilati di questo pesce goloso, intenzionato a divorare tutte le pedine della dama. Scuoterà la testa, il nostro insegnante per il momento mancato, e si consolerà pensando che è solo questione di tempo: prima o poi la bimba imparerà il minimo indispensabile per un comportamento «come si deve» e allora ci si potrà costruire sopra e darle altre utili lezioni, senza questo continuo cambiare le carte in tavola che sarà forse motivo d’allegria per lei ma è anche, per tutti gli altri e per la sua stessa crescita, un’inutile distrazione.
Il secondo commento va in senso opposto al primo, indicando che con il suo procedere caotico e informale la bimba impara un’enorme quantità di cose molto importanti. Non quante siano state le guerre puniche o chi abbia malgovernato l’Italia negli ultimi anni; questi contenuti li apprenderà a scuola, quando ci andrà, o da altre autorevoli e comunque successive fonti d’informazione. Ora invece impara a vivere nel suo corpo, a distenderlo e ritrarlo; impara quali resistenze è in grado di superare e a quali altre deve cedere; impara a valutare le distanze fra le pareti e fra gli oggetti sparsi per la stanza; impara la struttura complessa di quegli oggetti, rigirandoli fra le mani e guardandoli e toccandoli da ogni angolo. Vocalizzando reazioni emotive alle sue vicende, impara a padroneggiare la sua voce, ad articolarla e modularla: a trasformare suoni rozzi e primitivi in un flusso sonoro di grande ricchezza e flessibilità, nel quale inscenare il dramma del linguaggio. Non è un’esagerazione dire che tutto quel che facciamo sul serio lo abbiamo un giorno imparato giocando, purché non si dia dell’imparare – cioè della conoscenza – un’interpretazione puramente intellettuale, che lo legga come una relazione fra un soggetto ed entità astratte quali idee o proposizioni (i «contenuti» cui accennavo).
Certo sarebbe possibile, e per me desiderabile, imparare il teorema di Pitagora o le valenze chimiche giocando; ma sta di fatto che la maggior parte di noi li impara in situazioni d’imbarazzante rigidità. Non potrebbe impararli affatto, però, se non avesse acquisito abilità «elementari» che tendiamo a prendere per scontate ma che, riflettendoci, ci riempiono di ammirato stupore: nel caso specifico, l’abilità di comprendere quel che ci viene detto, di coglierlo come uguale a sé stesso nelle mille differenze di tono e pronuncia di parlanti diversi, di adattarlo al contesto nel quale è inserito. Prima dei tre anni un bambino impara tutto ciò senza sforzo – alcuni bambini in più lingue – mentre i cultori dell’intelligenza artificiale ancora non sono riusciti a produrre un meccanismo di traduzione automatica decente. E impara a riconoscere e categorizzare oggetti nello spazio, distinguendoli dallo sfondo; a interagire ed empatizzare con altri esseri umani; a bilanciarsi sulle gambe e muoversi disinvoltamente in ogni direzione. Se pensiamo alla fatica con cui, in età posteriori, quello stesso bambino ormai cresciuto tenterà d’impadronirsi di una lingua straniera, di una teoria scientifica o di uno strumento musicale, non possiamo non rimpiangere la facilità con cui l’apprendimento avveniva nell’infanzia, e il fatto che l’infanzia sia terminata.
Ho menzionato l’apparente contrasto fra il carattere sovversivo del gioco e la sua sconfinata capacità di insegnare. Sembra esserci un contrasto, qui, perché di solito concepiamo la conoscenza (oltre che in termini astratti) come rispecchiamento di una realtà data, da acquisire senza modificarla. Io vengo a sapere che piove osservando in modo neutrale lo spettacolo che mi si porge attraverso i vetri della finestra, piegandomi con assoluta deferenza all’indipendente oggettività della pioggia e facendo del mio meglio perché i miei piani, le mie esigenze e la mia immaginazione non la turbino. Se avvertissi troppo forte l’anelito per una bella giornata di sole e una fantasia troppo vivida me ne rappresentasse una davanti, finirei forse per illudermi (parola importante, sulla quale ritornerò) che non piova, per rimanere vittima del gioco delle mie emozioni e delle mie facoltà mentali – e non saprei più che tempo fa. Il che senz’altro è ragionevole, ma non va frainteso. Non c’è nulla di sbagliato nel desiderio di una conoscenza che rispecchi la realtà; ma non ne segue che il metodo migliore per soddisfare tale desiderio sia adagiarsi in una supina e passiva registrazione di circostanze a noi aliene. La realtà va costantemente sfidata, messa sotto pressione come farebbe uno scienziato con i suoi esperimenti di laboratorio: il suo carattere oggettivo non è un dono che ci viene generosamente elargito ma il residuo di un’attività ininterrotta da parte nostra. Per essere conosciuta, la realtà va esplorata; e il gioco è il paradigma di questa esplorazione.
La tensione fra trasgressione e apprendimento può così essere risolta. Senza arrivare agli estremi di Bacone, per il quale dovremmo costringere la natura con le sevizie a rivelarci i suoi segreti, l’apprendere è un fare, non un puro constatare, o meglio è un constatare che risulta da un fare. Se ci fossimo limitati a guardare la luce che emana dal sole e da altre fonti luminose, la concepiremmo ancora come un fluido che pervade l’aria. Invece abbiamo proiettato un fascio di luce su uno schermo attraverso due fessure, osservando fenomeni d’interferenza e concludendo che eravamo in presenza di onde. Prove successive ci hanno convinto che la luce si comporta anche come se fosse costituita da particelle, e ragionando su questo paradosso siamo arrivati alla meccanica quantistica che, sebbene in certa misura inintelligibile, dà previsioni più accurate di ogni altra teoria nella storia della fisica.
Possiamo dire di aver raggiunto una perfetta conoscenza della realtà? No di certo; ma non credo ci siano dubbi che abbiamo imparato sulla luce molto più di quanto ne sapessimo in passato, e che abbiamo fatto grandi progressi perché non siamo rimasti con le mani in mano, perché in analogia con i grandi viaggiatori e scopritori di continenti del Rinascimento ci siamo inoltrati in un terreno ignoto e lo abbiamo percorso in lungo e in largo come cavalieri erranti, scrutando qua e là e menando fendenti all’impazzata e a volte commettendo veri e propri errori – scambiando mulini a vento per giganti. Il primo cavaliere errante è il bambino; il terreno ignoto che esplora è il suo ambiente; i continenti che scopre sono oggetti di uso comune, il che potrà sembrare banale solo a chi non consideri quanto indispensabili, irrinunciabili siano tali scoperte e non ricordi che non c’è altro modo di scoprire alcunché. Si potrebbero seguire alla lettera delle istruzioni, ovviamente, e se ne diventerebbe prigionieri. Pensate per esempio ai diversi atteggiamenti che un ragazzo e un adulto hanno spesso nei confronti di un nuovo dispositivo elettronico. Il secondo segue istruzioni; il primo invece schiaccia tutti i tasti e tenta tutte le combinazioni operative; come risultato, quando il secondo si trova in difficoltà deve chiedere aiuto al primo. Perché il primo ha errato, in entrambi i sensi della parola, quindi ha imparato davvero: non solo quel che gli era stato detto ma anche, forse, quel che nessuno gli avrebbe potuto dire, quel che nessuno sapeva, quel che stava intorno a quel che ognuno sapeva e che mai si sarebbe visto se non si fosse andati a zonzo, girovagato, per divertirsi – per deviare cioè dalla strada b...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. 1. Il gioco
  3. 2. Il punto di partenza
  4. 3. Caos e ordine
  5. 4. Regole
  6. 5. Microcosmi
  7. 6. Calma e gesso
  8. 7. Illusioni
  9. 8. Il fattore in gioco
  10. 9. Compagni di gioco
  11. 10. Azione!
  12. 11. Giochi di parole
  13. 12. Pensieri stupendi
  14. Epilogo. Labirinti dell’essere
  15. Bibliografia