Il giurista
L’elaborazione e la cognizione del diritto – del ius – come esercizio intellettuale distinguibile isolatamente, che richiedeva e sviluppava attitudini e talenti particolari, ha attraversato per intero la storia di Roma. Con relativa facilità , ancora oggi noi possiamo seguire quasi dieci secoli di questa pratica ininterrotta: dall’epoca delle XII tavole, alla metà del V secolo a.C., nel cuore della Roma arcaica, fino alla pubblicazione del Corpus iuris civilis giustinianeo, in pieno Impero bizantino.
Una continuità tanto più notevole se consideriamo che la sua percezione non è solo il prodotto – in qualche modo forzato e ingannevole – del nostro sguardo retrospettivo, il risultato di una operazione storiografica che abbraccia segmenti e itinerari diversi, riconoscendovi caratteristiche comuni non identificate però come tali dalla coscienza delle figure progressivamente coinvolte nella vicenda. Al contrario, la sensazione di essere immersi nel fluire di una corrente di pensieri e di abitudini mentali (per non dire persino sociali), che scorreva con regolarità da un tempo lontanissimo, ha sempre appartenuto limpidamente alla consapevolezza degli stessi protagonisti del cammino: era addirittura la stella polare del loro lavoro e della loro identità .
I giuristi romani non furono solo dei «sapienti», dei «conoscitori», o degli «scienziati» del diritto. Per una parte non breve della loro storia ne furono anche i più importanti e prestigiosi «costruttori» e «produttori». Anzi, i secoli d’oro del sapere giuridico (dalla fine del II secolo a.C. ai primi decenni del III secolo d.C.) coincisero quasi completamente con la stagione della completa affermazione, nel tessuto istituzionale della società romana, di un modello di «diritto giurisprudenziale», di un ordinamento cioè dove il potere normativo era concentrato in misura rilevante nelle prerogative di ceto dei giuristi: ai quali – indipendentemente dal fatto che ricoprissero cariche pubbliche – «permissum est iura condere», era consentito di creare il diritto, per ripetere l’espressione già lievemente burocratica di un autore del II secolo d.C. (Gaio, Istituzioni, 1, 7).
Dobbiamo impedire tuttavia che i nostri occhi cadano prigionieri del campo ipnotico determinato dall’uniformità di una durata così tenace. Nel tracciato che stiamo considerando vi sono anche i segni di grandi mutamenti, il cui rilievo non è meno importante della registrazione della continuità . I cambiamenti riguardarono sia la posizione sociologica, di ceto, degli esperti di diritto, e i loro rapporti con l’insieme della comunità e delle istituzioni – prima della città , poi dell’Impero –, sia le forme del loro sapere: la struttura e la qualità delle conoscenze che essi producevano, accumulavano e trasmettevano. E poiché (come abbiamo appena detto) i giuristi erano anche in buona misura creatori del diritto che elaboravano (per meglio dire: lo formavano nell’atto stesso di rielaborarlo), i mutamenti culturali si riflettevano subito sull’organizzazione normativa della società . A differenza degli altri diritti antichi, il diritto romano non fu soltanto l’unico «scientificamente» elaborato, ma fu anche il solo prodotto in larga parte da un ceto di esperti «professionalmente» dedito per secoli a quell’attività .
Nel rispetto dei caratteri di questo volume, fra i due piani sui quali abbiamo collocato lo svolgersi della storia della giurisprudenza romana – la vicenda sociologica del ceto; lo sviluppo dei paradigmi cognitivi del sapere giuridico – sceglieremo come riferimento narrativo la prima prospettiva. Ma senza dimenticare che la distinzione ha un valore relativamente precario, e che non vi è mutamento conoscitivo che non finisca con il comportare modificazioni di status, e viceversa.
Possiamo allora fissare quattro quadri o figure, cui ricondurre – come nel racconto di un polittico – l’intera descrizione. In ciascuno di essi il protagonista assume il volto di un personaggio ben noto nella storia di Roma: rispettivamente di un sacerdote arcaico, di un aristocratico repubblicano, di un ...
