Addendum. Camerata Neandertal
1.
Tutta la parte che precede era stata da me consegnata in casa editrice a Roma nel pomeriggio di lunedì 26 luglio 2010: «Ecco qua, ho finito, andate in stampa».
«Menomale va’», hanno fatto quelli, «non ci speravamo più». Baci e abbracci, arrivederci e grazie.
Rimonta sul taxi, vai a stazione Termini, sali sul treno e torna a casa.
La mattina dopo – 27 luglio 2010 – sono andato tranquillo tranquillo all’Istituto di Fisiokinesiterapia di via Umberto I a Latina a fare l’ultima seduta di ginnastica posturale.
Vai nello spogliatoio, levati il busto ortopedico, stenditi sul lettino e comincia a farti torturare da questa figlia di coloni veneti – Romina Franzin – dalle apparenze dolcissime ma di una risoluzione da SS. Un po’ arrabbiata peraltro, perché ero arrivato in ritardo.
Fatto sta, mentre mi sposta da una parte e dall’altra, mi comprime lo sterno e per poco non mi stacca pure la capoccia, ecco che arriva Finestra e arriva proprio mentre sto cercando di spiegare alla Franzin che non è per cattiveria che arrivo sempre tardi, ma è solo perché lavoro di notte.
«Ma perché», fa Finestra, «hai già ricominciato a lavorare?».
«Sì».
«E che cosa stai scrivendo adesso, un altro romanzo?».
«No, una cosetta sul cranio del Circeo, non so se lei sa di che si tratta, è roba dell’uomo di Neandertal...».
«E come non lo so?» fa lui: «Io l’ho visto».
«Ah, davvero l’ha visto?» rimango sorpreso io, non avendo mai sospettato che si potesse interessare anche di paleontologia: «E quand’è che è andato al Museo Pigorini?».
«Ma quale museo e museo? Io l’ho visto lì sul posto, dentro la grotta del Guattari».
«Ma che sta a di’, Federa’?» sono scattato su quel lettino come una molla, dritto in piedi manco m’avesse fatto il miracolo Santa Maria Goretti: «Lei lo ha proprio visto lì?».
«Sì», tranquillo tranquillo lui: «Io l’ho visto dentro la grotta subito dopo che l’aveva trovato un amico mio elettricista... come si chiamava... Bastiano mi pare (in realtà il Bevilacqua si chiamava Damiano1, NdP). Poi il giorno dopo l’hanno portato via».
Io non ci volevo credere: «Ma davvero, Federa’?».
«Davvero».
«Porca puttana», pensavo pure: «Il problema storico è finalmente risolto!»2. Adesso sì che potevo sapere con esattezza cosa avesse visto o meno Blanc quando era entrato nella grotta. Avevo il testimone oculare.
Ajmone Finestra ha 89 anni, essendo nato nel 1921. È stato senatore della Repubblica per due legislature3 e sindaco di Latina dal 1993 al 2002. Io l’ho conosciuto nel 1964, quando avevo quattordici anni e m’ero andato a iscrivere alla Giovane Italia, un’organizzazione studentesca del Msi, il Movimento sociale italiano. Lui era il segretario provinciale del partito, aveva 43 anni e tutti noi lo chiamavamo rispettosamente Federale proprio come si usava una volta, ai tempi ancora del fascio. Quando parlava, diceva sempre «ecco è vero», un intercalare continuo, ma era stato un eroe di guerra – o almeno eroe secondo noi – decorato con due medaglie al valor militare e quattro o cinque croci di guerra italiane o tedesche4. Aveva combattuto prima in Jugoslavia, come ufficiale dei bersaglieri al comando però di una banda di cetnici – i serbi che stavano con noi – contro la guerriglia delle formazioni partigiane di Tito. Aveva poi difeso Zara e la Dalmazia quando, nel 1943, le cose s’erano messe male per noi italiani. Dopo l’8 settembre aveva aderito alla Rsi e aveva continuato a combattere in un battaglione «M» della guardia nazionale repubblicana, il «Venezia Giulia». Prima comandante di plotone, poi di compagnia e poi – muori uno, muori l’altro – comandante f.f., ossia facente funzioni, di battaglione (questa storia è raccontata in Palude5).
Dopo il 25 aprile del 1945 s’era arreso col suo reparto agli americani, che lo avevano confinato nel Fascist criminal camp di Coltano. Pare che quasi ogni giorno ci fossero, alla direzione del campo, le delegazioni di due diversi comuni del Nord che lo reclamavano per poterselo portare via e fucilare come criminale di guerra. Pare pure che se lo litigassero fra di loro: «È mio, è mio!». «No, no, lo dobbiamo fucilare noi».
In realtà , poi, nei vari processi6 riuscì a sfangarsela. Tra i suoi giudici ci fu anche un giovanotto che si chiamava Oscar Luigi Scalfaro, che poi è diventato presidente della Repubblica italiana ma che ai quei tempi qualche condanna a morte l’ha rifilata pure lui: «Non ci ho potuto fare niente, la pena di morte era prevista dalla legge», disse in una intervista di qualche anno fa, «e la legge è legge, il giudice la applica e basta. Non si transige». Finestra si salvò perché risultò determinante la testimonianza di Carlo Caracciolo, poi editore dell’«Espresso» e di «Repubblica».
Caracciolo era stato partigiano. Finestra invece era stato quello che – al comando del suo battaglione – aveva consentito alla Rsi di riprendersi la repubblica partigiana dell’Ossola. Aveva fatto arrampicare di notte i suoi uomini su di un costone pericolosissimo: «O vi arrampicate tutti dietro a me, ecco è vero, e domani mattina ce la vediamo con i partigiani», gli aveva detto, «oppure riscendo giù, ecco è vero, e vi sparo io finché non salite».
Fatto sta che salirono tutti in silenzio e la mattina dopo, sul far dell’alba, i partigiani se li videro sbucare come diavoli assatanati. Finita la battaglia, i comandanti superiori di Finestra volevano che mettesse al muro i prigionieri catturati nell’azione. Lui neanche per idea: «I prigionieri sono miei, ecco è vero, e ci faccio quello che pare a me».
Arrivano i tedeschi, però, e gli ordinano anche loro di fucilarli subito o – in subordine – di affidarli direttamente a loro: «Consegnaceli e ci pensiamo noi». A brutto muso.
E lui a brutto muso – almeno così dice – ha messo mano alla pistola e ha detto ai suoi di stare pronti. «Io i prigionieri non li consegno a nessuno», ha detto ai tedeschi: «I prigionieri li ho fatti io e sono miei secondo le leggi di guerra, ecco è vero, e ci faccio quello che mi pare a me».
I tedeschi hanno fatto dietrofront – come pure gli ufficiali superiori della Rsi – e lui s’è organizzato per conto suo uno scambio di tutti i prigionieri coi comandi delle bande partigiane, e non ha torto un capello a nessuno. E così andò anche con Caracciolo, che non era però stato catturato in combattimento.
Arrivati difatti in un paese – Boneto, sopra il lago d’Orta – per un blitz sul far dell’alba, i soldati di Finestra lo trovarono già sgomberato in silenzio durante la notte dai partigiani. Mentre stavano lì, tranquilli tranquilli per il paeÂse, vedono uscire da una porta a neanche un paio di metri da loro – tutto assonnato e stiracchiante – un ragazzotto alto e magro con il fucile a tracolla. Finestra gli punta il dito contro e gli chiede se è un partigiano. E quello: «Sì, sono il Principe Caracciolo di Castagneto».
Subito i fasci di Finestra lo gonfiano di botte e cominciano a spintonarlo per metterlo al muro. Finestra: «No! Non lo toccate». Quelli niente, lo volevano fucilare all’istante: «Sono gli ordini del comando! I partigiani catturati armi alla mano vanno immediatamente giustiziati».
«Armi alla mano però! Non a tracolla» e così Finestra, con le buone o le cattive, riuscì a levarglielo lui dalle mani e lo salvò, trattando poi coi comandi partigiani un altro scambio di prigionieri. Pare che il commissario politico della 2a divisione «Garibaldi», Pippo Coppo, andasse dicendo in giro: «Se piglio Finestra lo fucilo. Però prima gli do l’onore delle armi».
Comunque – quando poi ci fu il processo – il principe Caracciolo andò a testimoniare e Finestra venne assolto, perché sicuramente ha sparato e combattuto fino all’ultimo, ma a faccia a faccia con il nemico, senza mai torturare o fucilare nessuno. «Ero un soldato» dice lui, e una volta che in consiglio comunale – tanti anni dopo, nel 1996 o ’97, quando era oramai sindaco di Latina – s’alzò Ruggero Mantovani consigliere di Rifondazione comunista, giovane avvocato coi capelli lunghi, trotzkista proprio, che al microfono disse davanti a tutta l’assemblea: «Sindaco, io vorrei che fosse chiaro a lei e a tutti i consiglieri, che io adesso sto qui a parlare con lei in questo consiglio comunale tranquillamente o quasi, solo perché c’è la democrazia e la repubblica democratica nata dalla Resistenza, ma vorrei che fosse chiaro a lei e a tutti quanti che in altre circostanze, e se queste circostanze dovessero un giorno ritornare, io non avrei un attimo di esitazione a spararle tranquillamente addosso», tutto il consiglio comunale s’ammutolì. Maggioranza e opposizione. Tutti zitti che non si sentiva volare una mosca. «Ma questo è matto, ma come si permette?», pensavano dentro di sé tutti quanti: «E adesso che succede? Come usciamo da questa situazione?». E tutti zitti.
Solo Finestra s’alzò di scatto dal suo scranno, dietro il bancone da sindaco, e si mise a strillare: «Bravo! Bravo! Così si fa! Anch’io farei lo stesso con te! Se è pace è pace, se è guerra è guerra e che diamine, così si fa tra uomini» e corse ad abbracciarlo. E da quella volta in poi, ancora adesso, se tu gli chiedi qual è il migliore consigliere comunale con cui ha avuto a che fare – maggioranza o opposizione, amico o avversario – in tanti anni di politica, lui ti dice senza esitare: «Ruggero Mantovani!». E pure Mantovani – che ti debbo dire? – se tu gli parli di Finestra, adesso gli vuole bene.
Comunque quella volta, grazie anche alla testimonianza di Caracciolo – che pur raccontandola diversamente7 è rimasto in contatto con lui fino a due anni fa, quando poi è scomparso – non poterono condannarlo a morte. In due processi venne assolto e in uno condannato a 16 anni «per collaborazionismo con i tedeschi». Il presidente del tribunale gli riconobbe le attenuanti «per atti di valore». Si fece qualche annetto e nel 1949 uscì fuori con l’amnistia «Togliatti». Tornò a casa a Littoria. Che adesso però si chiamava Latina.
Quando l’ho conosciuto io nel 1964 era professore di ginnastica al magistrale – aveva fatto l’Accademia della Farnesina sotto il fascio, che sarebbe stata una specie di Isef di adesso – e però s’era anche aperto un Istituto di fisiokinesiterapia e riabilitazione. Appena tornato dalla guerra difatti – o meglio, da Regina Coeli, che era stata l’ultima tappa – se ne era andato in Austria e in Inghilterra a fare dei corsi superiori di specializzazione in kinesiterapia, che era una cosa che ancora quasi non si conosceva in Italia. Certe tecniche le ha proprio introdotte lui qua da noi. Comunque faceva il professore di educazione fisica, aggiustava le ossa e i muscoli con la kinesiterapia ed era il segretario della federazione provinciale del Msi di Latina. Il Federale.
Io sono stato il suo segretario provinciale giovanile fino al 1967. Mi portava in palmo di mano, all’inizio. Poi invece m’ha espulso. M’ha cacciato. Adesso dice che lo ha fatto controvoglia, che lui non voleva e che lo avrebbero obbligato Almirante o Michelini, o non so chi. Ma non è vero. M’ha cacciato lui. E solo perché ero andato a fare insieme a mio fratello una dimostrazione antiamericana ai giardinetti, quando venne a suonare la banda della VI Flotta. Ci presentammo lì coi cartelli – io, il povero Gianni e Giulio Ferrari – con scritto «Johnson=Hitler» e «Peace for Vietnam».
La polizia ci portò subito dentro e lui mi espulse (dice: «Ma se tu eri fascista, perché sei andato a fare una manifestazione antiamericana per il Vietnam?». Ahò, quella era Latina: con la storia della bonifica, del Duce e delle terre levate ai ricchi e date ai poveri, un po’ di confusione tra destra e sinistra l’abbiamo sempre fatta. Pure lui, il Federale, diceva d’essere un fascista di sinistra ed antiamericano: «Io agli americani gli ho proprio sparato addosso, ecco è vero». Mo’ che vuoi da me? Comunque questa storia sta tutta nel Fasciocomunista8. Oppure – che ne sai? – io già dentro di me mi preparavo per Tim White e le sue iene). Comunque m’ha cacciato e non è vero che sono stati Almirante o Michelini – che il segretario nazionale quella volta era proprio Michelini – ma è stato proprio lui, che mi cacciò pure, ipso facto, dalla squadra di rugby. Mo’ – se mi consenti – passi pure per il Msi, ma che vuoi che ne sapessero Almirante e Michelini della squadra di rugby?
Adesso lui dice che si pente come un cane. Lo ha pure messo per iscritto: «A distanza di anni l’allora Segretario Federale, nel riflettere sugli errori del passato, prova, ancor oggi, un sentimento di rammarico per l’allontanamento del segretario provinciale giovanile per il semplice fatto che ne condivideva sentimenti e giudizi»9. Ogni volta che mi vede, dice: «Il peggior errore della mia vita! Se non t’avessi cacciato, adesso ci staresti tu al posto di Fini». Adesso però lo dice, mica allora. Allora era incazzato come una bestia.
Io che devo dire? Per fortuna che m’ha cacciato. Che ne sai, se no, come andavano a finire le cose? Magari se non mi cacciava, ancora stavo là . Invece i primi tempi m’è dispiaciuto, mi consideravo sempre fascista. Ma era il 1967. Avevo 17 anni. E l’anno dopo è stato il 1968. Lui là in Federazione non mi ci voleva più e da quest’altra parte invece c’erano quelli di sinistra, il movimento studentesco che – ripeto: era il 1968 – faceva casino. E se tu permetti io sono andato dove facevano casino. Il movimento studentesco. E poi l’Unione dei comunisti italiani marxisti-leninisti, cioè quelli di «Servire il popolo», quelli cattivi, maoisti e stalinisti. E poi da lì tutta la trafila mia: il Psi, il sindacato, la fabbrica, il Pci, la Cgil, fino all’ultima espulsione pure dalla Cgil – qui però non fu Finestra, fu Cofferati – e allora finalmente una pietra sopra sia sulla politica attiva che sul sindacato, dimodoché, non avendo più nessun posto dove andare a fare casino, mi sono messo a scrivere libri e ad andare all’università . Vedi quindi? Se non era per Finestra che mi cacciava, facile che io non scrivevo una riga sola in vita mia e che – soprattutto – né Giacobini né Tim White si sarebbero mai trovati tra i piedi questa gatta da pelare (secondo me comunque non fu quello il motivo vero, quello fu solo l’elemento scatenante. Era già da un pezzo infatti che i rapporti s’erano raffreddati. Noi all’inizio – come Gruppo giovanile – facevamo quello che diceva lui, era lui il Federale e io, prima di fare qualunque cosa, gliene parlavo un po’, gliela sottoponevo. Poi man mano ho cominciato a fare di testa mia. Non gliele dicevo più prima le cose, gliele facevo trovare già fatte. E lui sformava. È questo che gli deve essere andato di traverso: «E che Federale sono?». Chissà , magari se gliel’avessi detto prima, magari ci veniva pure lui a fare la manifestazione...