X. L’impero napoleonico
La stagione illuministica ha ereditato dai decenni bellici che l’hanno preceduta la consapevolezza che la guerra è meglio evitarla, ma che, non potendo farne a meno, è bene condurla con eserciti bene addestrati, bene organizzati e bene assistiti sotto l’aspetto medico-sanitario. Non solo: il secolo XVIII ha ereditato l’idea seicentesca che gli invalidi di guerra sono una «diversità» sociale da accettare nell’ottica di una sventura per definizione «provvida», in quanto permessa dalla Divina Provvidenza e da questa affidata alla misericordia corporale e spirituale e alla «provvisione» civile; però, ispirato dalla temperie dei «lumi», ha trasformato quell’idea nella concezione premoderna per cui l’invalidità è una «devianza dalla norma» da normalizzare, fin dove è possibile, attraverso l’assistenza da parte dei governi illuminati.
In una prospettiva di riabilitazione ante litteram, il problema medico degli invalidi di guerra, già abbozzato nel primo Seicento con la proposta di presidi ritenuti idonei al trattamento dei politraumatizzati, diventa nel Settecento una questione di attualità. Quello stesso Jean-Louis Petit che ha inventato il nuovo trapano per gli interventi sul cranio pubblica un Trattato de’ mali dell’ossa (Venezia 1775) in cui sono disegnati schemi di riabilitazione posturale e meccanica per soggetti disabili. Più in generale, laddove «sotto lo sguardo dello Stato la scienza medica incarna la riconciliazione del sapere e della politica», il «medico politico» Johann Peter Frank (1745-1821) – intermediario tra il sovrano illuminato, l’imperatore Giuseppe II che deve legiferare il bene collettivo, e il suddito nella società, che deve fruire quel bene in termini di concreto benessere – elabora a partire dal 1776 un «sistema completo di polizia medica» dov’è concepita una politica della salute pubblica anche come tecnica medica a vantaggio delle categorie a maggior rischio, tra le quali i soldati.
Questo clima lambisce anche il regno sabaudo, dove alcune «voci dell’Illuminismo francese, oppure talune prepotenti esperienze statuali come quelle dirette da Caterina in Russia e da Federico in Prussia, avevano ormai scosso e riplasmato non pochi gruppi dirigenti e rinnovato anche culturalmente le relative caste militari».
La tradizione sabauda era peraltro quella propria di uno stato – ducato di Savoia e principato di Piemonte, prima, regno sardo-piemontese, poi – che, stretto territorialmente tra Francia e Impero, «continuava a considerare la nobiltà come la più auspicabile condizione sociale e la guerra come la sua più naturale espressione culturale». Del resto, «la stessa concezione strategica del territorio, basata [a ovest] sulle fortezze e sui presidi a integrazione dei naturali baluardi montani» e a est sulla sorveglianza armata delle paludi tra Vercelli e Novara, faceva del Piemonte di Vittorio Amedeo II (1666-1732) e di Carlo Emanuele III (1701-1773) il depositario della eredità di Emanuele Filiberto, il vincitore di San Quintino, e la culla del mito di Eugenio di Savoia (1663-1736), il liberatore di Vienna dall’assedio dei turchi.
L’agiografia di Casa Savoia celebra gli ordinamenti militari di Carlo Emanuele III, il cui «piccolo, ma saldo esercito acquistò rinomanza in tutta Europa e fu citato ad esempio e preso a modello». Certamente non lo è nel campo medico-sanitario, poiché a una truppa di leva bene addestrata e organizzata – con tanto di ufficiali subalterni, colonnelli e generali di carriera – fa riscontro un organico provvisorio di medici e di chirurghi reclutati di volta in volta in occasione di assedi e battaglie e congedati alla fine delle operazioni militari.
Anche la vantata «cooperazione delle varie armi sul campo di battaglia, ed essenzialmente della fanteria e dell’artiglieria», è in realtà un’arretrata subordinazione della seconda alla prima, poiché l’artiglieria è ancora considerata l’arma meccanica dove spadroneggia l’«abominoso ordigno» di ariostesca memoria – il cannone –, di fronte alla cui inanimata «forza dirompente» si rimpicciolisce fino ad annullarsi il fattore umano, cioè l’«ardimento dell’uomo».
La relativa arretratezza sia strategica che medico-sanitaria nulla toglie a quella miscela di nobiltà, fierezza e virtù militare che dà nerbo all’esercito facendone il fulcro del regno e una forza bellica di tutto rispetto, come tale molto ambita nel gioco politico delle alleanze e del rovesciamento delle alleanze medesime. Come per l’acquisto dell’idea di nazione l’Italia trae minori impulsi dal Piemente conservatore che dalla Francia rivoluzionaria, così per l’acquisto dell’idea di sanità militare l’Italia trae minori apporti dall’esercito piemontese che dalle armate di Napoleone Bonaparte (1769-1821).
Le guerre di fine Settecento combattute dalla Francia rivoluzionaria e quelle del primo Ottocento combattute dalla Francia imperialista rappresentano una netta cesura, rispetto al passato, nel campo della strategia e della tattica militari e, più in generale, nella stessa concezione della guerra. È quanto riconosce al «dio stesso della guerra», cioè al genio bellico di Napoleone Bonaparte, un reduce dalle guerre antifrancesi combattute dal 1792 al 1815, Carl von Clausewitz (1780-1831), il grande teorico militare autore del trattato Vom Kriege pubblicato postumo nel 1832-1834.
Carl Philipp Gottlieb von Clausewitz è un soldato di carriera giunto al grado di maggior generale. Ferito e fatto prigioniero nella battaglia di Jena, ha concepito un fiero sentimento antifrancese che alimenta il suo spirito di rivalsa e il suo impulso a riformare il proprio esercito perdente. «Fu lui a capire in maniera corretta che Napoleone non si era limitato a proporre una forza più grande e più potente, ma una forza completamente nuova, che combatteva in vista di obiettivi strategici differenti. Fu lui a presentare questa intuizione nel monumentale Della guerra», inquadrante le geniali azioni napoleoniche nelle proposte riformatrici dell’esercito prussiano, un’opera che costituisce «uno dei più importanti e duraturi testi di filosofia militare mai scritti».
Leva obbligatoria di massa, massiccia mobilitazione tempestiva, professionalità e meritocrazia, potenziamento tecnico e organizzativo sono i pilastri posti a fondamento di un’idea di guerra che fa della forza militare lo strumento decisivo per imporre definitivamente la propria supremazia politica sull’avversario. Clausewitz scrive che «la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi».
Tre secoli prima, Philipp Theophrast von Hohenheim (Paracelso, 1493-1541) aveva concepito una medicina nova fondata su quattro pilastri: astronomia, alchimia, filosofia e virtù. Virtù militare e filosofia della guerra sono i cardini della svolta che Clausewitz imprime alla polemologia moderna, che avrà molta influenza generale in campo bellico e non poca conseguenza particolare in campo medico-sanitario. La sanità militare, anzitutto quella prussiana, ne trarrà – come si vedrà – beneficio. Anche se Clausewitz, nominato capo di stato maggiore nel 1830 e incaricato tra l’altro di organizzare un cordone sanitario per arrestare l’avanzata del dilagante colera – prima epidemia europea del «mostro asiatico» – fallisce nell’intento e, contagiato egli stesso dal morbo, ne è una delle tante vittime nel novembre 1831, all’età di 51 anni.
Non precorriamo gli eventi. Nel suo monumentale trattato, Clausewitz, tra l’altro, fa netta distinzione tra una parziale «guerriglia» e una totale «guerra di annientamento». Sottolinea inoltre l’importanza e il significato, in guerra, del fattore umano: è l’importanza riconosciuta al soldato, all’uomo combattente e che ha combattuto. È questo fattore che fa la differenza tra la guerra disumanizzante di annientamento e l’umanizzazione sanitaria della guerra e dei danni che essa lascia dietro di sé. Le guerre rivoluzionarie e napoleoniche rappresentano, anche sotto quest’ultimo aspetto, una netta cesura, rispetto al passato.
Nella palingenesi globale che fa seguito all’«Ottantanove» – fatidico anno d’esordio della rivoluzione francese – un Comitato di salute pubblica insediato il 4 ottobre 1790 dall’Assemblea costituente (succeduta agli Stati generali) e presieduta dal medico Joseph-Ignace Guillotin, recepisce e mette a fuoco le tante doléances sanitarie, tra cui quelle militari. Il 18 agosto 1792 l’Assemblea legislativa (subentrata alla Costituente) sopprime fatiscenti strutture tra cui le facoltà di medicina, divenute improduttive di vero sapere. Non appena insediata, la Convenzione (subentrata, a sua volta, alla Legislativa) sopprime il 21 settembre un’altra vecchia istituzione, la monarchia, e quattro mesi dopo sopprime il monarca, applicando alla persona fisica di Luigi XVI (1754-1793) la «macchina umanitaria» inventata dal dottor Guillotin e detta, in onor suo, guillotine.
Con i decreti del biennio 1793-94 la Convenzione delibera, unitamente all’istituzione delle Écoles de santé sostitutive delle Facultés de médecine ed equiparanti medicina e chirurgia come due rami della stessa scienza, l’assegnazione a ogni unità militare operativa di figure sanitarie stabili quali gli officiers de santé, investiti di compiti igienici a salvaguardia della salute del soldato, e i médecins-chirurgiens reggimentali, investiti di compiti curativi, ma anche medico-legali per il controllo della simulazione e dell’autolesionismo.
Tenere divise medicina e chirurgia, coltivarle separatamente – afferma in un rapport il medico Antoine-François Fourcroy (1755-1809), membro della Convenzione –, «è lasciare la teoria al delirio dell’immaginazione e la pratica alla routine sempre cieca; riunirle e intrecciarle, invece, è rischiararle a vicenda e favorire il loro progresso». Il decreto maggiormente significativo per la sanità militare è quello che sancisce «il diritto imprescindibile da parte dei cittadini chiamati in difesa della patria di essere curati sia delle malattie che delle ferit...