Un paese in bilico
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Un paese in bilico

L'Italia degli ultimi trent'anni

  1. 192 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Un paese in bilico

L'Italia degli ultimi trent'anni

Informazioni su questo libro

Un paese in bilico racconta le vicende italiane più significative dal 1979 al 2011 e l'influenza che alcuni grandi cambiamenti avvenuti sul piano internazionale hanno avuto sul nostro paese. È nel contesto internazionale infatti che la storia italiana è inserita e solo al suo interno sono intellegibili le azioni dei suoi attori politici e sociali. Attraverso questa nuova chiave interpretativa, Alberto De Bernardi rilegge gli ultimi trent'anni della storia italiana al di fuori di stereotipi e luoghi comuni usurati, in larga parte fondati sul mito della perenne eccezionalità del nostro paese. Su uno sfondo internazionale, le trasformazioni spesso drammatiche che hanno attraversato l'Italia ci appaiono per quello che effettivamente sono state: processi concreti di adattamento critico ai mutamenti planetari, secondo dinamiche e fenomeni che sono riscontrabili in molti paesi occidentali.

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Informazioni

1. Tra due crisi: l’Italia dal capitalismo regolato all’economia globale

Le crisi e le nazioni

Il sociologo economico Peter Gourevitch ha scritto che le crisi dell’economia mondiale «danno forma alle nazioni», cioè «stanno alle nazioni come i reagenti stanno ai composti chimici in chimica: esse provocano cambiamenti che rivelano le connessioni tra le situazioni particolari e quella generale»9.
Ritengo questa indicazione una bussola preziosa per la nostra ricerca perché sottolinea non solo il peso che le rotture dell’ordine economico giocano nella determinazione dei ritmi e dei caratteri dei cambiamenti strutturali dei diversi Stati, quanto più elevato è il grado della loro integrazione nel mercato mondiale, ma anche il ruolo di stimolo che esse possiedono nel promuovere trasformazioni sostanziali dell’intera società. In quanto «reagenti», sprigionano input che vanno ben oltre il ristretto ambito economico, ma orientano il comportamento complessivo dei soggetti sociali, modificando le procedure attraverso le quali essi cooperano o confliggono in tutte le sfere dell’agire collettivo, da quella economica a quella politica, fino a quella dei valori e delle visioni del mondo.
Come abbiamo detto, l’intera vicenda della Seconda Repubblica è incastonata tra le due ultime crisi generali del capitalismo: quella del ’71-’74 e quella del 2007-2008. Se è ancora incerto quale sarà la forma che prenderanno gli Stati nei prossimi decenni, più facile è invece individuare il volto assunto dalle nazioni occidentali dopo la crisi degli anni Settanta.
Le drammatiche turbolenze economiche che esplodono sul fronte monetario nel 1971 con la scelta dell’amministrazione statunitense di dichiarare l’inconvertibilità del dollaro, e che si dilatano all’intero universo della produzione e dei consumi a causa dei due shock petroliferi del ’73 e del ’79, non solo colpiscono le fondamenta dell’ordine economico mondiale, ma impongono cambiamenti sociali radicali, esattamente come era accaduto dopo la crisi del ’29.
La similitudine tra le due crisi sta non tanto nelle forme assunte, che risultano profondamente diverse per cause e dinamiche interne – allora sovrapproduzione, ora stagflazione –, quanto per il combinato disposto di crisi del modello di sviluppo, crisi della potenza egemone che presidiava il funzionamento del mercato mondiale e dell’ordine economico – allora la Gran Bretagna, ora gli Stati Uniti – e declino dell’ortodossia economica che aveva sorretto il ciclo espansivo precedente.
Le crisi infatti non solo disintegrano i pilastri su cui si sono sorretti i cicli di sviluppo, ma proiettano gli Stati e le società in una «terra incognita» nella quale tutte le strumentazioni tecniche, istituzionali e politiche a loro disposizione per governare l’economia non sono in grado di domare le potenze distruttive che le crisi mettono in movimento e riproducono su scala sempre più larga.
Come è noto, dietro le manovre finanziarie e speculative che fanno crollare la borsa nell’autunno del ’29 stava il «mostro» dell’eccesso di capacità produttiva dell’economia americana determinata dagli enormi investimenti in capitale fisso, realizzati dai grandi gruppi oligopolistici prevalentemente attraverso l’indebitamento, da una profonda riorganizzazione dei sistemi produttivi, fondata sull’innovazione tecnologica e sulla diffusione su larga scala del fordismo e su una divisione del lavoro internazionale favorevole all’egemonia statunitense. Ad alimentare questi processi era stata una crescita costante della domanda aggregata nella quale l’esportazione, più ancora che il mercato interno, aveva svolto un ruolo decisivo.
L’Europa soprattutto, dove la guerra aveva inferto duri colpi ai sistemi produttivi nazionali, era diventata un grande mercato per i prodotti e i capitali americani. Già però a partire dal 1925-1926 questa condizione favorevole andò scemando, perché il vecchio continente aveva ricominciato a essere una grande area produttiva con notevoli capacità concorrenziali anche sullo stesso mercato statunitense. All’Europa si era poi venuto aggiungendo il Giappone, assurto a nuovo polo dello scenario economico planetario. Nella seconda metà degli anni Venti la divisione internazionale del lavoro aveva dunque subìto una sostanziale modificazione: a una sola grande nazione produttrice, capace di rispondere alla domanda mondiale, si sostituì un sistema policentrico, che trasformò l’economia statunitense in una gigantesca macchina produttrice di eccedenze.
Le dimensioni del sisma che travolse l’economia americana furono tali da sconvolgere l’intero assetto economico delle grandi nazioni industrializzate d’Europa, non solo per l’intensità delle relazioni che le legavano alle dinamiche economiche d’oltreoceano, ma anche perché in esse erano operanti le stesse tendenze al ristagno che avevano alimentato la crisi negli Stati Uniti. In sostanza la morfologia dello sviluppo economico europeo degli anni Venti era molto simile a quella statunitense e in essa era attiva quella stessa contraddizione tra la crescita delle capacità produttive e i limiti della domanda, che scatenò il grande crollo negli Stati Uniti.
Non è infatti casuale che anche in Europa il centro propulsivo della crisi fosse il sistema finanziario e in particolare le grandi banche d’affari, austriache, tedesche, britanniche, costrette a chiudere gli sportelli e a interrompere i flussi di finanziamento del sistema produttivo. Inoltre il riverbero sul sistema monetario fu immediato con il crollo del gold standard, definitivamente abbandonato dopo che anche la Gran Bretagna decise di sganciare la sterlina dalla parità aurea e di rinunciare al liberoscambismo, certificando con questi atti la fine del suo ruolo di potenza egemone.

La soluzione antifascista

Di fronte a questo collasso economico, che secondo le valutazioni degli economisti risultò il più grave degli ultimi due secoli per l’economia occidentale, la combinazione di protezionismo, deflazione e libero mercato, che costituiva il nucleo forte del pensiero economico egemone e il perimetro delle politiche economiche statali fino ad allora perseguite, si rivelò del tutto inadeguata non solo ad affrontare la «grande depressione», ma soprattutto a comprendere le sue effettive dinamiche.
Già agli inizi degli anni Trenta prende avvio una complessa riflessione che coinvolge una articolata serie di soggetti che popola l’ampio campo delle culture progressiste attive sulle due sponde dell’Atlantico – dal mondo democratico stretto intorno al nuovo presidente degli Stati Uniti F.D. Roosevelt ai circoli dell’antifascismo europeo, all’Internazionale socialista –, interessata a formulare e a sperimentare una nuova «via allo sviluppo» nella quale l’individuazione della domanda (invece che l’offerta) fosse il baricentro della ripresa economica. Questa riflessione di stampo progressista si combinava con lo sforzo di declinare in termini del tutto nuovi le relazioni tra Stato e mercato e i rapporti tra pubblico e privato, attraverso i quali mettere al servizio della crescita la stabilità e la coesione sociale. Un dibattito molto lungo e complesso che trova la sua piena concretizzazione alla fine degli anni Quaranta, quando le suggestioni di quel laboratorio attivo da quasi un ventennio diventano le leve propulsive del più intenso ciclo di sviluppo della storia del capitalismo.
Non deve sorprendere la lunghezza dell’elaborazione dei punti di forza del futuro ordine economico e politico mondiale, nel quale si dovevano integrare nuove istituzioni di regolazione dei mercati e nuovi strumenti di ingegneria sociale finalizzati a trasformare il protagonismo e la mobilitazione delle classi lavoratrici in un fattore di stabilità politica e radicare lo sviluppo nella coesione sociale; questo itinerario, infatti, dovette superare molteplici divisioni interne tra le forze che lo percorsero, scontrarsi con l’energica opposizione di due avversari potentissimi come il fascismo e il comunismo e confrontarsi con la crisi della democrazia. In quest’ottica la guerra svolse un ruolo di potente acceleratore, perché rimosse l’alternativa tra warfare e welfare, cioè tra economia di guerra e Stato sociale, che costituiva l’essenza dello scontro tra gli Stati liberaldemocratici e il totalitarismo fascista, e ridefinì gli assetti geopolitici, affidando agli Stati Uniti il ruolo di nuova potenza egemone.
L’avvio va ricercato in ogni caso nella percezione che rapidamente si fa strada in una vasta area di movimenti e partiti liberalsocialisti, democratici, socialdemocratici e anche comunisti, di come il crollo del capitalismo aggravasse e rendesse ancora più minacciosa la crisi della democrazia apertasi gia negli anni Venti e che soprattutto nel Sud del vecchio continente aveva assunto le sembianze del fascismo. La crisi del ’29 e l’avvento del nazismo in Germania mettevano in evidenza quale revisione di orizzonti culturali e di assi teorici e quale ridefinizione di strumenti di organizzazione sociale, economica e istituzionale comportasse l’intento di «combattere il fascismo», enunciato con tanta decisione da quel campo di forze: si rendeva infatti necessario l’avvio di un tortuoso processo di revisione politica nel quale tutti gli attori coinvolti avrebbero dovuto rimettere in discussione valori e disegni programmatici ormai stratificati nel tempo, per costruire un’alternativa complessiva al totalitarismo fascista.
L’inizio di questo cammino si colloca nella difficile, ma ineludibile, presa d’atto che il pensiero politico europeo ottocentesco, liberale e socialista, che costituiva ancora l’ossatura concettuale delle grandi famiglie politiche europee, risultava del tutto inadeguato non solo a cogliere la novità prorompente del movimento politico che in diversi luoghi dell’Europa e con una rapidità sorprendente stava sbaragliando sia la democrazia che la socialdemocrazia con un consenso popolare estremamente ampio, ma anche ad affrontare il collasso del modello di sviluppo dell’Occidente emerso dalla seconda rivoluzione industriale.
Per sconfiggere il fascismo, in un futuro che appariva ormai sempre più lontano, l’antifascismo doveva ripensare in termini del tutto nuovi, non solo rispetto all’anteguerra, ma anche all’immediato dopoguerra, i rapporti tra libertà ed eguaglianza, tra Stato e mercato, tra classe e nazione, tra individuo e società. Come affermò Carlo Rosselli, era giunto il tempo dell’eresia e non dell’ortodossia.
Per le forze che popolavano il variegato spazio della tradizione socialista, comunismo compreso, si trattò di prendere atto del valore profetico ma anche programmatico della famosa espressione di Hilferding che la democrazia fosse «affare del proletariato», perché il collasso dello Stato liberaldemocratico sotto i colpi del fascismo aveva trascinato con sé tre risorse politiche indispensabili per l’emancipazione del lavoro: lo spazio pubblico pluralista, la libertà individuale e collettiva, l’autonomia della società. In quelle «forme» – notava infatti l’economista austriaco – c’era «il massimo significato sostanziale per il destino di ciascun operaio»10.
La scoperta di questa «sostanza» – che non fu né lineare, né compiuta, né irrevocabile – obbligava a ripensare la concezione stessa della costruzione del socialismo. La difesa delle «procedure» induceva non solo a rimuovere dall’orizzonte socialista ogni forma, seppur parziale, di dittatura e a superare il concetto stesso di «transizione» dallo Stato borghese a quello socialista, in quanto quest’ultimo non era altro che una democrazia dell’eguaglianza sociale pienamente dispiegata e garantita dall’assunzione del potere da parte della classe operaia, ma soprattutto a rimettere in discussione il mito della «società senza classi».
Di fronte al totalitarismo, che aveva trasformato la società, a Ovest come a Est, in un indistinto e anodino agglomerato di masse atomizzate, prive di identità e vitalità, alla mercé di Stati etici e di capi carismatici, la creazione di una società di eguali, presidiata da un forte controllo pubblico, che costituiva l’essenza programmatica del socialismo democratico, doveva guardarsi dall’annichilire le libere forme di organizzazione e di associazione attraverso le quali si articolavano gli interessi, gli orientamenti politici, le aspirazioni materiali e spirituali dei diversi gruppi sociali11.
Ma la «rivoluzione democratica», di cui parlavano molte avanguardie antifasciste evocando la più nota delle «parole d’ordine» di Gobetti, non poteva limitarsi, nel ripudiare lo «Stato-mito», a un semplice riconoscimento, per giunta postumo, dello Stato moderno nato dalla Rivoluzione francese. Negare il totalitarismo significava andare oltre lo Stato liberale, soprattutto riprogettando la cittadinanza, oltre i confini elitari in cui l’aveva costretta il liberalismo e oltre la sua aberrante riduzione a una identità razziale, come l’aveva imposta il nazismo, tentando di fondare un nuovo ordine politico basato sul trinomio «giustizia, libertà ed eguaglianza», che fino ad allora erano state concepite come alternative12.
Questo salto in avanti era volto al raggiungimento di una nuova democrazia «progressiva», capace di mettere in campo non solo una forte spinta all’inclusione sociale – più efficace di quella impressa dalla redistribuzione negoziata della ricchezza collettiva, su cui si era esercitato il riformismo socialista, lab...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Tra due crisi: l’Italia dal capitalismo regolato all’economia globale
  3. 2. L’Italia dal Novecento al mondo globale
  4. 3. La Seconda Repubblica