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Cristiani in armi
Da sant'Agostino a papa Wojtyla
- 228 pagine
- Italian
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- Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro
Quando una religione monoteista si investe del potere terreno o vi si accorda, la strage in nome di Dio è sicura. Rossana RossandaDall'antichità cristiana ai maestri dei secoli XII-XIII, dalle Crociate alle guerre contro gli eretici, dalla giustificazione dei massacri dei popoli del nuovo mondo alle posizioni durissime di Lutero e Calvino: per tutti la guerra è un momento in cui si realizza la giustizia di Dio, che ovviamente è sempre dalla parte di chi la promuove.Tullio Gregory
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Informazioni
Argomento
Théologie et religionCategoria
Histoire du Christianisme1. Le guerre nella Scrittura
Non c’è che l’imbarazzo della scelta nel citare pagine dell’Antico Testamento dove la guerra è presentata come «cosa buona e giusta» e combattuta da uomini ispirati da Dio. Gli esempi: Abramo, Mosè, Giosuè, Sansone, Gedeone, Davide sono condottieri non solo ispirati da Dio, ma da Lui guidati alla vittoria (il Dio degli eserciti: Isaia, 3, 1) o abbandonati alla sconfitta intesa come punizione per i loro peccati (Levitico, 26, 24).
Basterà rileggere le pagine che raccomandano: «Se ti avvicinerai a una città per combattere contro di essa la inviterai alla pace ... Se non farà pace con te cingila d’assedio. Il Signore Dio tuo te la darà in mano: allora passa ogni maschio a fil di spada ma le donne, i bambini, le bestie e tutto ciò che ci sarà nella città prendilo per te e mangia la preda che il tuo Signore ti ha dato ... Nelle città che il Signore tuo Dio ti dà in eredità non lasciare nessuno in vita ma votali tutti allo sterminio ... Demolite i loro altari, spezzate le loro stele, bruciate le loro sculture ... Il Signore tuo Dio darà queste nazioni in tuo potere e le scompiglierà grandemente fino a distruggerle» (Deuteronomio, 7).
Già san Gerolamo, tuttavia, faceva notare che, mentre nell’Antico Testamento Dio comanda la guerra, nel Vangelo esige la pace, «perché per conquistare il regno dei cieli non c’è bisogno di armi materiali». Ma ancora, nel Vangelo di Luca (3, 14), Giovanni Battista, il precursore di Cristo, non comanda ai soldati di lasciare il loro servizio, bensì soltanto di comportarsi bene senza abbandonarsi a vendette ingiuste.
Nei Salmi la pace è prescritta come meta: «Ciò che il Signore vuole è la pace per il suo popolo e i suoi amici» (Salmi, 5, 9). E un punto esplicito e di grande forza a favore della pace e contro la violenza lo troviamo nel Vangelo di Matteo (5, 9), per secoli punto di riferimento per i movimenti per la pace: «Beati i costruttori di pace perché saranno chiamati i figli di Dio». E ancora: «Avete sentito ‘occhio per occhio dente per dente’ ma io vi dico di non resistere al maligno. A chi ti schiaffeggia sulla guancia destra porgi anche l’altra e a chi vuol prendere la tua tunica lascia anche il mantello» (5, 9).
Un altro brano che ha ispirato i fautori della pace è quello del Vangelo di Luca (7, 20), in cui Gesù dichiara che il suo regno «non viene in modo visibile né si potrà dire eccolo qui ... perché il regno di Dio è già in mezzo a voi».
Non tutti però hanno letto in questi passi un invito alla pace fra i popoli. Nel XVI secolo il cardinale Roberto Bellarmino interpretava le parole di Matteo come un comando diretto al singolo di astenersi dalla vendetta personale. E negava che quelle espressioni fossero una condanna a quella violenza collettiva e organizzata che è la guerra. Lo stesso concetto – semplice dissuasione dalla vendetta personale anziché esortazione alla non violenza – il Bellarmino ritrovava, confortato da Tommaso d’Aquino, in un altro passo famoso del Vangelo di Matteo (26, 52): «Ed ecco che uno di quelli che stavano con Gesù trasse fuori la spada e percuotendo il servo del pontefice gli tagliò un orecchio. Allora Gesù disse: ‘Rimetti la spada al suo posto perché tutti coloro che prendono la spada di spada periranno’».
Sant’Ambrogio manifestava stupore e perplessità di fronte a uno dei pochi passi non pacifici del Vangelo di Luca (22, 36): «Chi non ha una spada venda la tunica e comperi una spada». Il vescovo milanese commentava così: «Perché o Signore mi ordini di comprare una spada e mi proibisci di ferire? Lo fai forse perchè io sia pronto alla difesa ma non mi lasci trasportare dalla vendetta personale?». Anche nei secoli successivi il passo di Luca sarebbe stato interpretato da molti commentatori come riguardante la violenza del singolo uomo contro un altro uomo: non la guerra, violenza collettiva che in sé non sarebbe proibita dal quinto comandamento.
Come ogni testo di fondazione, anche il Vangelo, così lontano nel tempo, si è prestato a interpretazioni diverse. Non c’è dubbio che l’ispirazione e lo scopo fondamentale delle parole di Cristo siano l’invito all’amore e alla fratellanza fra gli uomini e che Gesù fosse interessato soprattutto al risveglio e alla salvezza dell’uomo singolo, attraverso il quale deve necessariamente passare il rinnovamento della società umana nel suo complesso. Ma questa lettura, la più evidente ed emozionante, ha messo in ombra nei secoli l’altro imperativo, implicito, che non poteva non condannare la guerra, forma collettiva di violenza radicata tuttavia negli animi degli individui.
2. Il linguaggio della guerra spirituale e del martirio
Un «esercito che non versa sangue»: tali sono i cristiani, scrive Clemente di Alessandria nel III secolo, affermando che in questo modo incruento essi sono tuttavia in grado di vincere e guadagnare il regno dei cieli. Un esercito di anime, si direbbe. Ma non si può non notare che nello stesso testo il lessico militare è così frequente da essere certamente significativo: si parla del suono potente della tromba che annuncia la lotta e chiama alle armi i «soldati delle nazioni», di armi e corazze, di spade affilate, di assalti fiammeggianti.
È un linguaggio che ha un senso preciso. Termini e modi analoghi sono presenti prima e altrove, in altre religioni e in culture più antiche; così come sono presenti nel pensiero stoico, che ha costituito forse il milieu più favorevole alla diffusione del cristianesimo presso le classi elevate.
Ma è soprattutto a san Paolo che dobbiamo guardare per scoprire che la mescolanza del linguaggio militare all’esortazione al perfezionamento religioso è tutt’altro che occasionale, anzi è essenziale nella descrizione e comprensione dell’impegno spirituale cristiano. «Indossate l’armatura di Dio per poter resistere al diavolo: non si tratta di una lotta contro sangue e carne ma contro i principi e le autorità di questo mondo di tenebre ... Perciò prendete l’armatura di Dio per poter resistere e restare in piedi dopo aver superate le prove ... rivestendo la corazza della giustizia, calzando i piedi con la prontezza del Vangelo della pace, con l’elmo della salvezza e la spada dello spirito e tenendo alto lo scudo della fede potrete deviare gli strali del Maligno» (Lettera agli efesini, 6).
Come in Clemente di Alessandria e in san Paolo, in numerosi testi cristiani dei primi secoli è frequente il paragone fra la guerra spirituale, il combattimento contro il male interiore, la tentazione da una parte, e la guerra contro un avversario fisico, un altro uomo o un popolo nemico dall’altra. L’analogia non è dunque occasionale, ma profonda. Essa si fonda su un tema religioso, il sacrificio, già presente in molte religioni ma essenziale anche nel nascente cristianesimo. Due elementi sottolineano l’importanza del sacrificio nella nuova religione: innanzitutto il modello proviene dal suo stesso fondatore, il Cristo, immolatosi per tutti gli uomini; in secondo luogo, la commemorazione del suo sacrificio, ripetuta quotidianamente dal sacerdote, costituisce il momento centrale della ritualità religiosa, diventando per i fedeli il precetto centrale.
Il contesto storico della prima fase del cristianesimo, quella in cui i credenti sono colpiti da persecuzioni, offre poi concretamente una motivazione in più: il sacrificio è un fatto evidente, cruento, è il martirio di quei fedeli che si rifiutano di rinnegare la propria religione bruciando incenso davanti all’imperatore pagano. L’analogia è chiara: l’arena dei martiri è intrisa di sangue come un campo di battaglia.
La devozione a questi primi martiri diventerà nei secoli sempre più imponente e significativa, sottolineando nei racconti e nelle prediche sia la santità del sacrificio sia la fisionomia guerresca del martirio, culmine della battaglia spirituale. Esemplare il linguaggio di Tirso martire:
Combruzio ordinò che fosse sospeso per i piedi e fosse torturato finché le ossa non si rompevano. Allora Tyrso gli disse: «Affrettati dunque a tormentarmi con supplizi anche maggiori per colpire la mia confessione di fede. Il nostro combattimento deve essere accanito e con questo io ti vincerò come soldato del Cristo». Gli rispose Combruzio: «Tu non sei cristiano e quindi i cristiani non ti riterranno un loro martire». Disse Tyrso: «Parli scioccamente perché Cristo mi rese martire dal momento in cui cominciai fra le torture a invocare e testimoniare la sua divinità. Se qualcuno è cristiano e non crede nel Cristo tutto è vano mentre se non è esplicitamente cristiano e diventa martire ossia testimone, anche se gli uomini non lo credono cristiano, lo è agli occhi di Dio in modo perfetto ... Egli mi ha riconosciuto come tale e non abbandonerà mai nessuno che gli è fedele, lo difenderà, lo aiuterà dandogli una invisibile forza contro i tormenti nella battaglia. Io vincerò Satana il principe del tuo esercito».
Con accenti simili parla nel III secolo il martire Cipriano il cartaginese:
Armiamoci, fratelli carissimi, con tutte le nostre forze e prepariamoci alla battaglia con animo puro, fede integra, coraggio pronto al sacrificio! L’esercito di Dio marci incontro alla battaglia che ci è stata indicata. Si armino gli animi integri: non perda il fedele il merito di aver resistito fino ad allora; si armino anche i caduti perché anche chi è caduto può riconquistare ciò che ha perduto. L’onore spinga alla battaglia gli animi forti e integri, il dolore i caduti.
Il martirio è dunque percepito come la battaglia contro il diavolo, una lotta estrema combattuta con le armi più virili anche quando a combatterla è una donna, come si legge nella commovente cronaca della giovane africana Perpetua, gettata in carcere e poi giustiziata perché cristiana.
Esemplare anche il racconto della morte di san Vittore: una vera battaglia in cui scorre il sangue, iniziata – questo l’aspetto più singolare e interessante – con un vero atto di violenza da parte del futuro martire, che non solo rifiuta di sacrificare all’imperatore ma rovescia con un poderoso calcio l’altare di Giove. Negli Atti del martire si legge una sua arringa dal tono acceso e bellicoso: nella battaglia contro il nemico (il diavolo impersonato dall’imperatore che gli farà tagliare la testa) Vittore chiama «soldati» i suoi compagni di fede, incitandoli a combattere agli ordini del nuovo re, per il quale sono d’ora in poi «schierati come un esercito».
Il clima del martirio/battaglia sarà sullo sfondo della prossima grande svolta del cristianesimo nel suo rapporto con il potere politico.
3. I cristiani soldati dell’imperatore
Il 28 ottobre dell’anno 312, al ponte Milvio, Costantino vince la battaglia decisiva contro il rivale Massenzio. Eventi del genere, parte integrante della contesa per il potere, non erano infrequenti in quei secoli, ma nel racconto di un grande contemporaneo cristiano, Lattanzio, il fatto assume un carattere sovrannaturale. Costantino – racconta Lattanzio – aveva ricevuto in sogno durante la notte l’ordine divino di segnare gli scudi dei suoi soldati con il simbolo di Cristo e lo aveva interpretato come un segno del favore del Dio dei cristiani. Nell’antichità i re erano stati sognatori privilegiati, e tali rimasero anche nei tempi della nuova religione. Dopo Costantino, sogneranno eventi significativi Carlo Magno e molti re di Francia. Un sogno è un sogno, ma è difficile sottovalutare il peso della conversione dell’imperatore, iniziata forse proprio da quel sogno. In ogni caso Costantino diffuse la notizia e l’anno dopo la vittoria emanò l’editto di Milano, con il quale concedeva libertà di culto ai fedeli della nuova religione.
Il secondo Costantino sarà Teodosio: nell’editto del 391 il paganesimo viene vietato, i templi vengono chiusi e alcuni smantellati. Vent’anni dopo le chiese ottengono esenzioni fiscali e il «diritto d’asilo». Nel 435 si arriverà a emanare la pena di morte contro i pagani. «Gli imperatori cristiani avevano oramai messo a disposizione del cristianesimo i loro mezzi di coercizione e di persuasione» (Le Goff).
I soldati cristiani, rari nei primi secoli nelle file dell’esercito imperiale, dopo l’editto di Costantino cominciano ad essere sempre più numerosi. Il loro favore (il consensus) diventa un fattore sempre più decisivo anche nella designazione del dux e nelle contese fra i pretendenti al trono imperiale. Dopo secoli di ostilità e di disprezzo, il potere politico sceglieva il Dio dei cristiani e abbandonava i vecchi dèi del Pantheon romano.
All’inizio, nel II secolo, la situazione completamente differente vissuta dai seguaci della nuova religione era stata descritta nell’anonima Lettera a Diogneto con queste parole: «I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per il paese che abitano né per lo stile delle loro vesti. Abitano in città greche o barbare secondo la loro sorte conformandosi agli usi del luogo riguardo agli abiti, il cibo e il modo di vivere. In questo modo danno testimonianza delle mirabili leggi concordi e paradossali della loro comunità».
Lo stesso san Paolo, nelle lettere agli efesini e agli ebrei, aveva dichiarato che come cittadino il fedele cristiano riconosce i doveri del paese in cui abita, ma rimane in sostanza uno straniero che «tutto sopporta». Per il cristiano in cammino verso la vera patria, quella celeste, ogni paese è insieme patria e terra straniera, che lo ospita solo provvisoriamente. Il senso del paradosso stava in un’accentuata interiorizzazione della fede, vissuta dai credenti in una dimensione puramente spirituale, al di là del rito, della cerimonia e della evidenza dei precetti. Va ricordato che allora i cristiani erano una minoranza, ma una minoranza differente da altri gruppi religiosi presenti all’interno della società romana, i quali generalmente manifestavano con ritualità visibili o addirittura vistose la loro identità religiosa.
Anche i pagani percepivano la singolare qualità della scelta cristiana interpretandola come un’ambiguità e un disordine etico-politico. Ricordiamo le dure e lucide parole del pagano Celso, che incitava i cristiani a operare una scelta decisa:
Delle due l’una come vuole la ragione. Se essi si rifiutano di rispettare in pieno le leggi dello stato in cui vivono, allora non raggiungano l’età virile, non prendano moglie, non allevino figli, non facciano nulla nella vita... Se invece prenderanno moglie e metteranno su famiglia, mangeranno i frutti degli alberi e prenderanno parte agli eventi della vita civile sopportando i mali che ci sono imposti, allora dovranno tributare il loro rispetto alle autorità incaricate e prestare tutti i servizi dovuti alla società.
Ora, fra gli obblighi della convivenza, importante – anzi centrale in tempi bellicosi e percossi dalle invasioni – era il servizio militare. È significativo perciò che appena due anni dopo la battaglia di ponte Milvio il Concilio di Arles decreti che «coloro che lasciano l’esercito saranno allontanati dalla comunione», e una legge di Costantino reintegri nel grado occupato nell’esercito quei cristiani che in passato erano stati allontanati e degradati per aver rifiutato di adorare l’imperatore. Fino ad allora i vescovi cristiani avevano incoraggiato le dimissioni dal servizio militare.
Difficile immaginare un rovesciamento più radicale e più rapido: l’incompatibilità tra la fede cristiana e il servizio militare e la guerra scompare quasi di colpo. L’adozione del Dio cristiano sembrava ora indispensabile a conseguire la vittoria, tanto che qualche storico (François Heim) ha definito proprio «teologia della vittoria» la fase del pensiero cristiano che si afferma decisamente nel IV secolo e che attribuisce solo a Dio il merito del successo militare e politico.
Nello stesso tempo, tuttavia, il mestiere di soldato viene riservato ai «non chierici», ossia ai laici, e proibito ai sacerdoti, che devono mantenersi incontaminati e «perfetti». Il vescovo Ambrogio riserva lodi ai coraggiosi che difendono la patria dai barbari, ma dichiara con orgoglio, lui ex militare e ora sacerdote, che lacrime e p...
Indice dei contenuti
- Premessa
- Parte prima
- 1. Le guerre nella Scrittura
- 2. Il linguaggio della guerra spirituale e del martirio
- 3. I cristiani soldati dell’imperatore
- 4. Lettera all’ufficiale Bonifacio
- 5. Agostino e la guerra
- 6. «Oratores» e «bellatores», chierici e laici
- 7. Voci dissidenti, voci di pace
- 8. Dio garantisce la vittoria
- 9. Guerra giusta, guerra santa
- 10. Eretici e intellettuali contro la guerra
- 11. Riformatori in armi
- 12. C’è guerra anche in Utopia
- 13. Una nuova guerra in un nuovo mondo
- 14. «Tacete teologi»
- 15. Tempi bui
- Parte seconda
- 16. Europa uguale cristianità
- 17. Il papa contro la barbarie e la superstizione
- 18. La grande prova
- 19. La coscienza del pericolo
- 20. Smarrimento
- 21. Benedire i cannoni: le guerre di Etiopia e di Spagna
- 22. La tragedia
- 23. I cristiani per la pace
- 24. Per gli uomini di buona volontà
- 25. La guerra è contraria alla ragione
- Rileggendo
- Bibliografia (a cura di Claudio Fiocchi)