Tocqueville e la «scienza» dei legami
Si diceva che bisognava ottenere anzitutto la giustizia e che, per quanto riguarda la libertà , ci si sarebbe pensato dopo; come se degli schiavi possano mai sperare di diventare liberi.
Albert Camus
È stato Tocqueville a segnalare con grande chiarezza i rischi propriamente dispotici della democrazia, nella quale egli individua, fin dalle prime pagine del suo capolavoro, il destino inevitabile dell’umanità – un destino, sottolinea, che conviene guidare, se non se ne vogliono subire gli effetti negativi. Al processo democratico sono infatti intrinseci due esiti possibili: si può diventare tutti eguali e tutti schiavi (come paventava Montesquieu), oppure si può diventare tutti eguali e tutti liberi. Ma la storia europea moderna – con la Rivoluzione francese, con Napoleone, con il primato dello «Stato amministrativo» – ha dimostrato che la prima possibilità è assai più prossima e più concreta della seconda: quello che, infatti, cresce e si sviluppa è un ‘potere’ sociale che assume, direttamente, il controllo di tutti, togliendo autonomia e responsabilità ai singoli individui, i quali a loro volta delegano a questo potere la gestione della loro vita, rinunciando alla libertà .
Mentre nel primo libro della Democrazia in America (1835), discorrendo degli Stati Uniti d’America, Tocqueville rivendica l’energia e l’intraprendenza dell’homo democraticus che si impegna con tutte le sue forze per affermare la sua personalità attraverso un mutamento incessante e inesauribile di ruoli e di funzioni sociali e politiche, nel secondo (1840), mettendosi dal punto di vista dell’Europa, insiste sul carattere statico delle società democratiche, sulla loro impermeabilità al mutamento, sulla chiusura di ciascuno nel proprio «particulare».
Ma è sbagliato contrapporre questi due testi, come se corrispondessero a due momenti sostanzialmente diversi della sua ricerca: essi si situano nel quadro di un modello generale del dispotismo moderno, il quale è caratterizzato da un elemento morfologico comune – la centralizzazione dei poteri –, ma assume fisionomia e caratteri diversi a seconda delle differenti situazioni in cui si sviluppa e si afferma.
La forza di un modello teorico sta nella capacità di ‘generalizzare’ contesti e situazioni differenti, riuscendo a dar conto – e a spiegare – gli uni e gli altri, alla luce di ‘princìpi’ comuni. Nella Democrazia in America, l’originalità di Tocqueville consiste, precisamente, nella capacità di sviluppare un modello in grado di spiegare sia il dispotismo europeo sia le tendenze dispotiche americane, avviando un metodo di ricerca e un tipo di indagine che, proprio per la loro novità , non vennero compresi dai suoi contemporanei – come dimostra lo scarso successo della seconda Democrazia, nella quale al centro dell’analisi, ma in un quadro teorico unitario, sono collocati l’Europa e il dispotismo europeo.
È di voi che si tratta, sembra dire Tocqueville ai lettori che si ritraggono di fronte al suo testo e al quadro che egli offre della società europea, non avendo compreso che la prima Democrazia apriva un discorso generale sul dispotismo che non solo riguardava l’Europa, ma aveva preso le mosse proprio da domande e da problemi cui Tocqueville era giunto riflettendo, in primo luogo, sulla società europea e sul suo destino.
Nella sua ricerca Tocqueville – ed è un’altra novità del suo metodo – intreccia costantemente livello teorico e livello storico, scrivendo testi di prima grandezza come l’Ancien Régime, ma mettendo costantemente, quasi ossessivamente, al centro lo stesso problema: la costituzione di una nuova ‘scienza politica’ in grado di cogliere genesi e caratteri del moderno dispotismo su tutti i piani della vita individuale, politica e sociale.
Su questo sfondo, cerca di mettere a fuoco, al tempo stesso, una prospettiva sia teorica sia politica che, assumendo l’inevitabilità della democrazia – cioè della eguaglianza delle condizioni –, si sforzi di individuare le forme istituzionali e le strutture etico-politiche in grado di intrecciare, nell’epoca moderna, eguaglianza e libertà , trattenendo l’uomo dall’abisso nel quale sta per precipitare.
È possibile farlo, secondo Tocqueville, solamente restaurando, sulla scia di Machiavelli, il valore della politica, cioè del conflitto, di cui peraltro egli avverte, nel mondo moderno, tutta la fragilità e il carattere puramente artificiale. Ma, a sua volta, questo convincimento – e sta qui il centro effettivo di tutta la sua ricerca – scaturisce da una serie di domande che hanno tutte al centro, in modo concorde, il problema della ‘condizione umana’. E da qui bisogna infatti partire se si vuole cogliere il fil rouge che intreccia dall’inizio alla fine la sua riflessione.
Qual è lo stato della ‘condizione umana’ nel tempo democratico? E in che situazione si trova il «libero arbitrio» nell’epoca della democrazia? Sono questi i due interrogativi essenziali della Democrazia in America, e chiariscono con precisione l’orizzonte nel quale intende muoversi la riflessione di Tocqueville: non è quello teologico di Valla, di Erasmo o di Lutero; ma non è nemmeno di carattere stricto sensu politico.
Il ‘problema’ di Tocqueville è di carattere essenzialmente filosofico, e concerne le trasformazioni della ‘costituzione interiore’ dell’uomo nei ‘secoli democratici’; quello che gli importa è mettere a fuoco il rapporto tra ‘dispotismo democratico’ e struttura originaria della personalità dell’uomo, assumendo come pietra di paragone il «libero arbitrio» – cioè il principio costitutivo della filosofia, e delle libertà , dei ‘moderni’. E, in questo quadro, ciò che gli interessa è svolgere, in chiave storica, un discorso complessivo sulla ‘modernità ’ europea – dall’epoca della monarchia assoluta alla Rivoluzione francese, fino a Napoleone e alla Restaurazione –, individuandone i caratteri originari e delineando i problemi che si pongono per riaffermare, nell’epoca democratica, il principio della libertà dell’uomo, il suo «libero arbitrio». È sulla base di questo ‘problema’ – anzitutto antropologico – che egli si propone di elaborare una teoria complessiva del dispotismo, determinando i fondamenti di una nuova ‘scienza politica’.
Questo è l’asse centrale di una riflessione nella quale convergono temi filosofici, politici, antropologici ed anche religiosi, tutti saldamente connessi l’uno all’altro dal ‘problema’ che li unifica e li sostiene.
Alla base delle varie definizioni che sono state date di Tocqueville, privilegiando volta per volta un aspetto specifico della sua ricerca – moralista, politico, sociologo ed anche filosofo... – c’è questo dato obiettivo, di carattere unitario; è dunque sbagliato dividere la sua ricerca in ambiti disciplinari isolati gli uni dagli altri. La sua originalità – e il motivo per cui continuiamo a leggere le sue pagine – risiede proprio in questa ‘interrogazione’ generale sul destino dell’uomo nell’epoca del ‘moderno’ dispotismo: in questo senso la sua opera si potrebbe definire, senza forzature, un classico trattato De homine.
Nel corso dell’Ottocento Tocqueville non è il solo a porsi quest’ordine di problemi, sulla base di un’analisi – e di un giudizio – assai critici sulla ‘modernità ’ europea, sulla sua intrinseca ‘fragilità ’. Se si volesse fare un nome – del resto già evocato dagli studiosi del suo pensiero –, si potrebbe fare quello di Jacob Burckhardt, al quale lo legano una serie di motivi di notevole rilievo, sia pure modulati secondo prospettive differenti.
Li accomunano, in primo luogo, due convincimenti fondamentali: la Rivoluzione francese ha inaugurato una nuova epoca della storia dell’umanità , sempre e ancora aperta. Essa «non si risolve in un breve spazio di tempo, ma [...] prosegue per sessant’anni. Cambiando solo il teatro, in modo tale che la razza rivoluzionaria si rinnova senza posa e incontra sempre, da qualche parte, le sue tradizioni, la sua scuola. In modo che, da sessant’anni, c’è sempre stata una scuola per la Rivoluzione aperta del tutto pubblicamente in un luogo qualsiasi del mondo, in cui tutti gli spiriti inquieti e violenti, uomini immersi nei debiti [...] si formavano e si istruivano», sottolinea, quasi sgomento, Tocqueville. «Oggi sappiamo [...] che la stessa tempesta che ha coinvolto l’umanità a partire dal 1789 travolge adesso anche noi [...]»; la Rivoluzione francese è il «primo periodo della nostra attuale epoca rivoluzionaria», ribatte, per parte sua, Burckhardt, con un tono in apparenza più distaccato, ma con un coinvolgimento interiore, che concerne direttamente il senso, e la stessa possibilità , del suo lavoro: «Il nostro compito qui – sottolinea – è la conoscenza, anzitutto dello sviluppo della Rivoluzione francese. Non appena ci stropicciamo gli occhi ci rendiamo conto di vagare a bordo di una barca più o men...