Alchimisti della scena
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Alchimisti della scena

Teatri laboratorio del Novecento europeo

  1. 218 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Alchimisti della scena

Teatri laboratorio del Novecento europeo

Informazioni su questo libro

«Ma un teatro-laboratorio che cosa è? Chi ne sa qualcosa? Perché 'teatro-laboratorio'?» È la domanda rivolta da Eugenio Barba, fondatore dell'Odin Teatret, a se stesso e a chi ha condiviso con lui un'avventura teatrale diversa, che non si è mai lasciata classificare nei tempi e nei modi della normale produzione dello spettacolo. Questo libro è il racconto del dibattito seguito a quella domanda, un dibattito che ha coinvolto grandi protagonisti della scena novecentesca, durato quattro anni, dalla punta dello stivale italiano ad Århus, nel Nord della Danimarca. Ignorato spesso dalle cronache, non di rado sotterraneo, qualche volta famoso, il teatro-laboratorio rappresenta un'alchimia che ha mutato l'idea stessa di teatro e persino il suo comune modo di sentire.

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I. Un modello bipolare nel secondo Novecento

Ferdinando Taviani, Enclave Zbigniew Osiński, Jerzy Grotowski e Ludwik Flaszen: perché un «teatro laboratorio»?Leszek Kolankiewicz, Jerzy Grotowski e Ludwik Flaszen: perché un «teatro laboratorio»?

Odin Teatret

Al convegno di Århus e qui, in queste pagine, Ferdinando Tsviani parla dell’Odin Teatret. Taviani è uno studioso di storia del teatro che si è occupato particolarmente di Pirandello, del Seicento italiano e francese, della Commedia dell’Arte, dei rapporti fra letteratura e spettacolo e del teatro di minoranza del secondo Novecento. Contro l’atteggiamento conservatore dell’establishment teatrale ha a lungo polemizzato, divenendo negli anni Settanta un punto di riferimento per i teatri anomali italiani. Qui appare nella veste di consigliere letterario dell’Odin Teatret. È autore del Libro dell’Odin, la cui prima edizione è del 1975: un libro essenziale sia per la bibliografia sull’Odin Teatret che per il teatro di ricerca italiano. Nella discussione del nostro tema applica un doppio punto di vista: esterno, da critico e studioso; e interno, da compagno di viaggio degli alchimisti della scena.
L’Odin Teatret è stato fondato da Eugenio Barba nel 1964, a Oslo, in Norvegia. Precedentemente, Barba era stato per qualche anno aiuto regista (o apprendista regista) presso Grotowski, in Polonia. Nel ’66, come abbiamo visto, l’Odin si trasferisce a Holstebro, in Danimarca, dove tuttora vive, e dove aggiunge al proprio nome la definizione di «Nordisk Teaterlaboratorium».

Ferdinando Taviani, Enclave

Dalle Galápagos del teatro
piovono a volte
nelle pozzanghere e nelle piscine
di casa nostra
certi cari e mostruosi animali
in cui crediamo di non riconoscerci.
1) Teatri «enclave» e teatri laboratorio
Con teatri «enclave» si intendono quelle formazioni teatrali che fanno parte per se stesse e non adottano le convenzioni tipiche del sistema teatrale in cui vivono (forme artistiche, modi di produzione, organizzazione interna e modi di entrare in contatto con il pubblico e gli spettatori). Distinguere fra teatri enclave e teatri laboratorio spesso non vuol dire indicare fenomeni differenti, ma differenti modi di guardarli. Le caratteristiche dei teatri enclave, così come in seguito cercheremo di definirle, si ritrovano in numerosi ensembles di minoranza in Europa (soprattutto Italia, Scandinavia, Polonia, Francia) e in America Latina.
I teatri enclave molto spesso si distinguono dai teatri «normali» fin dal nome, o perché proclamano la propria differenza di categoria (Taller, Laboratorio, Workshop ecc.), oppure perché inalberano un vero e proprio senhal (Sole, Vivente, Nucleo, Continuo, Angelo, Odino, Nascosto, Acceso, Incendiato, Trappola, Esilio, Tribhangi ecc.). Sono teatri (e questo è qualcosa di inaudito per la tradizione) sostanzialmente indifferenti rispetto alle madrelingue dei propri attori; non producono con regolarità; non adottano tempi standard (e «ragionevoli») per le prove; non scritturano gli attori per stagione o per spettacolo; e si fissano su un solo regista. I teatri enclave lavorano spesso «a progetto». Quando possono, concorrono ai finanziamenti destinati alla ricerca, all’innovazione culturale e all’uso sociale dello spettacolo, ma non sono riconosciuti come una categoria teatrale a sé stante. Mai o quasi mai vi sono capitoli di spesa dedicati a loro soltanto. E, soprattutto, contraddicono l’erranza degli attori da un teatro all’altro, predominante in quasi tutti i sistemi teatrali. Tendono a essere gruppi stabili, con molti andirivieni ma anche con permanenze di più lustri o più decenni. Quando un attore o un’attrice se ne vanno, non è la fine d’un contratto, un normale avvicendamento, un arrivederci, ma una vera separazione – consensuale o traumatica.
Le dimensioni dei teatri enclave corrispondono in genere a quelle d’una troupe di medio calibro, dal punto di vista socioculturale, ma dal punto di vista culturale essi hanno la natura di vere e proprie piccole e differenti «tradizioni»60.
Nessuna delle caratteristiche sopra elencate è esclusiva deli teatri enclave, né ciascuna enclave condivide con le altre tutte quelle caratteristiche. Nell’insieme, però, esse servono a definirli, fermo restando che ciascuna è differente a suo modo.
Nella geografia politica si incontrano a volte veri e propri Stati in miniatura incistati in uno Stato più grande. Nella geografia teatrale, i teatri enclave occupano posizioni simili. Sono piccoli luoghi in cui per autodidattismo, convenienza o estremismo il teatro viene reinventato da cima a fondo, ricostruendo la completezza d’un intero mondo in un piccolo cerchio.
Basta spostare il punto di vista all’esterno del sistema complessivo delle scene per accorgersi che i teatri enclave sono anche gli avamposti che permettono all’immaginazione teatrale di innestarsi direttamente nel rimosso sociale. Per la stessa logica, i teatri enclave sono anche particolarmente adatti all’esplorazione scientifica del linguaggio scenico e a costruire ponti con altre tradizioni. Uno stile di vita umile e disciplinato e il senso d’una aristocrazia intellettuale; la concentrazione in piccoli luoghi e l’apertura internazionale sono per i teatri enclave contrasti vitali.
Teatro enclave e teatro laboratorio sono quasi sinonimi. L’avverbio quasi va però sottolineato sei volte. La parola «enclave» sposta l’attenzione sui confini e invita a considerare la separazione dal continuum teatrale non soltanto come uno stratagemma per proteggere l’indipendenza, ma come la condizione preliminare per il formarsi d’una mente collettiva.
Non si insisterà mai abbastanza sull’importanza che ha il separarsi per la crescita della vita artistica e culturale, per l’incremento della socializzazione e dell’integrazione tramite differenze significative. O, in una sola parola: per l’innovazione. Lungo tutto il Novecento teatrale, le principali fonti d’innovazione sono state apparentemente le teorie e concretamente i territori teatrali indipendenti, o enclaves.
La non-invalicabile recinzione, la membrana che isola e permette processi di scambio e di simbiosi – similmente a quel che accade a livello elementare con la cellula –, segna anche nella cultura il passaggio da un semplice raggruppamento a un organismo dotato di vita propria. Anche nel caso del teatro il témenos è un taglio, non una forma. È un principio elementare di individuazione: noi distinti da loro. L’importanza del progetto passa in secondo piano.
«Enclave» fa presente che non si sta parlando di strutture organizzative, ma di territori ed ecosistemi. Non di organizzazione del lavoro, ma d’un amalgama di differenti persone. Si può cercare di capire a posteriori come funzioni un amalgama di persone, ma non si può progettarlo a priori, sperando di metterlo in funzione con un buon casting.
Il senso comune del management con i teatri enclave non funziona. Li manda in pezzi. Ciò che serve è tutt’altro: quella particolare forma del buon senso denominata revers o mirror organization (che alcuni erroneamente collegano alla serendipity). Qualche esempio? Trattare le congiunture apparentemente casuali come se fossero gli obiettivi d’un precedente progetto; accettare e giustificare quel che si trova senza averlo cercato, e creargli un passato; scegliere le funzioni sulla base delle persone e non viceversa; preservare le «pecore nere» invece di allontanarle (le «pecore nere» sono organiche e necessarie in un ensemble, insegnava Grotowski: se ne allontani una, obblighi senza volere un altro a trasformarsi in «pecora nera»).
I teatri enclave possono apparire poderosi, longevi, abili nell’arte e nel commercio, corsari o monacali, ma la loro vita dipende sempre dal gioco delle relazioni interpersonali. Si sostengono su irripetibili intrecci. Accade loro quel che accade a certi organismi viventi, che quanto più son fragili tanto più son resistenti. E però i teatri enclave non offrono la comodità delle organizzazioni burocratiche, che possono essere fermate e riformate, sospese per riparare un pezzo, un settore, e poi rimesse in moto. Se la vita di un’enclave teatrale viene sospesa o si arresta, nessuno può poi aspettarsi che riprenda.
I teatri enclave hanno spesso un leader riconosciuto. O più d’uno. Hanno mansioni suddivise. Ma in realtà la divisione dei cómpiti traduce con parole comuni un non comune, peculiare e irripetibile fascio di tensioni che dà forma a quella mente collettiva. Sostanziano i teatri enclave la costrizione dell’indipendenza, gli stringenti confini, la forza personale dei legami e la continua tendenza a rimetterli in discussione o a romperli. Tutto ciò (finché la turbolenza resta al di qua del suo momento critico) permette alle discordie e alle polarità interne di trasformarsi in differenze di potenziale che generano energia. Per un’enclave – che gli ingenui immaginano spesso come una comunità fraterna – l’unanimità, l’ortodossia, la comunione sono malattie mortali. Un altro vitale contrasto, oltre alle forze centripete e centrifughe, è quello fra il leader e l’ensemble. Se la discordante concordia tracolla in semplice concordia o in ovvia discordia, l’enclave è morta. Si trasforma in azienda o in setta. Più frequentemente si polverizza.
Quel che sui teatri enclave m’è sembrato di capire, in circa trent’anni, è tutto qui. Non è molto. E quel poco l’ho capito solo quando ho smesso di limitarmi allo studio dei libri e ho cominciato a comparare i quadri storici con quel che emergeva dal lavoro sul campo. I quadri storici sono fatti di pensiero, e quindi è bene che siano ampli, con sentieri ramificati per mutevoli confini. Il lavoro sul campo dev’essere invece circoscritto, fatto di ripetute attenzioni: implica infatti l’esperienza dei dettagli apparentemente muti.
Il mio campo è stato ed è l’Odin Teatret e i teatri che esso più frequenta.
Inutile ripeterlo: l’Odin Teatret è l’enclave teatrale più significativa del Novecento, non solo la più longeva, ma la più completa, quella che ha meglio ricostruito al suo interno le complessità e le ramificazioni d’un’autonoma tradizione: artigianato, principi artistici, elaborazione della memoria, invenzione del valore, indagine scientifica, territorializzazione (trasformazione dello spazio indifferenziato in un territorio fatto di canali di comunicazione, relazioni e corrispondenze), costruzione di spettacoli e composizione di libri. Ma a dire la verità c’è anche dell’altro: sapienza. Una sapienza che non sopporta solennità e obbliga a tenere i piedi per terra, nei busillis dell’aldiquà. E che si esercita per navigazioni oceaniche in piccoli laghi. Non teme di far ridere per la propria sproporzione. Perché solo il riso, alla fin fine – dicevano Socrate e i sileni –, tiene sgombre le vie per la considerazione del vero.
2) Debutto
L’Odin Teatret entra in scena passando per una porticina molto stretta e molto bassa. Secondaria. Semiprofessionale. Non basta il clima del Nord per spiegare la differenza. Dappertutto in Europa, nella prima metà degli anni Sessanta del Novecento, crescevano piccoli gruppi di teatro fra l’amatoriale e lo sperimentale. Prendevano saltuariamente posto nelle palestre delle scuole, negli scantinati delle parrocchie, all’ombra delle fabbriche, persino nei magazzini dei teatri cittadini. Crescevano per rabbia e allegria nell’inquieto tepore fra il boom e il Sessantotto. Era il teatro epidemico e ottimista, effimero e velleitario, che viveva nove settimane o nove mesi, e poi appassiva.
L’Odin Teatret inv...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Parte prima. Perché un «teatro laboratorio»?
  3. I. Definizioni
  4. II. Ricerca, valore e scienza del teatro
  5. III. «Dimensione laboratorio» e «teatri laboratorio»
  6. IV. Grotowski, seminari e altro all’Odin Teatret:1964-1971
  7. V. Conclusioni
  8. Parte seconda. Gli esempi
  9. I. Un modello bipolare nel secondo Novecento
  10. II. Un passo indietro: «Studi»