L'eredità di Roma
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L'eredità di Roma

Storia d'Europa dal 400 al 1000 d.C.

  1. 780 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'eredità di Roma

Storia d'Europa dal 400 al 1000 d.C.

Informazioni su questo libro

Dopo il crollo dell'impero romano d'Occidente, dal V al X secolo, sullo sfondo di un'Europa ampia che va dall'Irlanda a Costantinopoli e alla Russia, dalla Scandinavia a tutta l'area mediterranea, si incontrano, si scontrano, si organizzano popoli diversi come i Goti, i Franchi, i Vandali, i Bizantini, gli Arabi, i Vichinghi. Sono loro i protagonisti dell'Occidente post-romano, dell'impero bizantino e degli imperi d'Oriente, dell'impero carolingio e post-carolingio. Saranno loro a dare una nuova forma al mondo dopo Roma: tutti si dovranno confrontare con la sua eredità, mediandola, traendone spunto, rinnegandola. Solo dopo sei secoli dal tracollo dell'impero, l'ombra di Roma comincerà così lentamente a scomparire.

L'alto Medioevo è stato spesso ridotto dalla storiografia tradizionale a puro intermezzo temporale tra l'impero romano e l'alba del Rinascimento, o all'opposto esaltato come origine quasi mitica delle identità nazionali europee. Per la prima volta un grande storico restituisce la complessità, i cambiamenti sociali, politici, culturali di un pezzo di storia spesso trascurato, dove l'Europa odierna affonda le sue radici.

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Informazioni

Argomento
Storia

1.
Introduzione

L’Europa altomedievale è stata oggetto di ripetuti fraintendimenti1. È stata soprattutto vittima di due grandiose narrazioni, entrambe molto influenti nella storia e nella storiografia degli ultimi due secoli, che hanno portato entrambe a una falsa immagine di questo periodo: la metanarrativa del nazionalismo e quella della modernità. Prima di proporre da parte nostra un diverso tipo di approccio, dobbiamo esaminare l’una e l’altra, brevemente ma in chiave critica, per vedere che cosa vi sia in esse di sbagliato; la maggior parte dei lettori di questo libro, che si accostano per la prima volta al periodo in questione, avranno infatti in mente, come quadro di fondo, uno di questi schemi o entrambi.
L’alto Medioevo è all’origine (reale o immaginaria) di così tanti stati nazionali europei da aver acquisito una portata mitica per gli storici di tutte le generazioni da quando, all’inizio del XIX secolo, e spesso anche prima, il nazionalismo divenne una potente visione politica. Si scrivono allora libri intitolati La nascita della Francia o, più in generale, Lo sviluppo dell’Europa, che vanno a caccia dei germi di una futura identità nazionale o europea, di cui si afferma l’esistenza nel 1000 in Francia, Germania, Inghilterra, Danimarca, Polonia, Russia e, a ben guardare, anche in numerose altre nazioni. La storia altomedievale diventa così parte di una teleologia: la lettura della storia nei termini di quello che (magari inevitabilmente) ne è seguito, come incamminata cioè verso qualcosa che spieghi perché noi – inglesi, o italiani, o europei (occidentali) – «siamo i migliori», o quantomeno, per comunità meno compiaciute di sé, perché «siamo diversi». Così tutta la storia altomedievale inglese può essere vista nei termini delle origini dello stato nazionale; tutta la storia altomedievale dei Paesi Bassi nei termini delle origini del dinamismo commerciale del futuro Belgio od Olanda. La scarsità di documentazione sul periodo in oggetto contribuisce a rendere comuni, anche oggi, simili letture nazionaliste. Ma sono pur sempre letture falsate; anche quando sono basate su dati corretti (gli Inglesi avevano in effetti uno stato unitario nel 1000, produzione e commercio erano in effetti insolitamente attivi in quello che sarebbe diventato il Belgio), esse ci danno una comprensione ingannevole del passato. Questa è cattiva storia; la storia non ha teleologie di questo tipo.
L’Europa non nacque nell’alto Medioevo. Nel 1000, fatta eccezione per il debolissimo senso di comunità che univa i territori cristiani, nessuna identità comune univa la Spagna alla Russia, l’Irlanda all’impero bizantino (comprendente all’epoca quelli che sono ora i Balcani, la Grecia e la Turchia). Non esisteva nessuna comune cultura europea, e certamente nessuna economia su scala europea. Né vi era alcun segno che l’Europa, in un futuro ancora piuttosto lontano, si sarebbe sviluppata, economicamente e militarmente, a tal punto da potere dominare il mondo. Chiunque nel 1000 avesse cercato i segni di una futura industrializzazione avrebbe scommesso sull’economia dell’Egitto, non delle regioni renane o dei Paesi Bassi, e parlare del Lancashire sarebbe sembrato non più che uno scherzo. In termini politico-militari, le estremità sud-orientali e sud-occidentali dell’Europa, Bisanzio e al-Andalus (la Spagna musulmana) vantavano gli stati più importanti del continente, mentre nell’Europa occidentale l’esperimento carolingio (infra, capp. 16 e 17) si era concluso con lo smembramento della Francia (la moderna Francia, il Belgio e la Germania occidentale)2, l’entità politica egemone dei quattrocento anni precedenti. Nel 1000 lo stato occidentale più coeso, l’Inghilterra meridionale, era minuscolo. In realtà, alla fine del nostro periodo la maggior parte del continente era dominata da sistemi politici deboli, e i sistemi politici forti ed aggressivi che il Medioevo avrebbe conosciuto in seguito non si intravedevano nemmeno.
Lo stesso deve dirsi, in relazione al 1000, per le identità nazionali, anche se si rifiuta l’associazione tra nazionalismo e modernità fatta propria da molta dottrina contemporanea. Dobbiamo riconoscere che alcune di tali identità esistevano. Un buon esempio è dato dall’Inghilterra (gli anni cupi della conquista danese, all’inizio dell’XI secolo, stimolarono la produzione di molti testi che ne rivendicavano una, pur se in versioni diverse). Gli Italiani avevano anch’essi il sentimento di una identità comune, benché arrivasse a malapena a sud di Roma (cosa abbastanza vera anche oggi), e non sfociasse in un desiderio di unità politica. La separazione geografica – il canale della Manica per gli Inglesi e le Alpi per gli Italiani – favorì il processo di identificazione nei due casi, come fu anche per gli Irlandesi, che ebbero coscienza dell’esistenza di un qualche tipo di comunità irlandese nonostante la frammentazione in cui versava l’Irlanda3. Nel caso parallelo di Bisanzio, quello che dava il senso di identità ai suoi abitanti era semplicemente la coesione del sistema politico, che all’epoca non aveva eguali in Europa; la «identità nazionale» bizantina non è stata molto considerata dagli storici, perché nessuno stato nazionale moderno discende in linea diretta da quell’impero, ma si può dire che alla fine del nostro periodo essa fosse la più sviluppata in Europa. Per contro, Francia, Germania e Spagna (sia cristiana che musulmana) non potevano vantarne alcuna simile. I Danesi potrebbero averne avuta una, ma in tutta la Scandinavia ci sono buone prove solo per l’Islanda. Le regioni slave iniziavano appena a deli­nearsi come tali per esprimere una qualunque versione di identità non specificamente legata alla sorte delle dinastie regnanti. E, come verrà spesso sottolineato in questo libro, una lingua comune aveva pochissimo a che fare con una qualunque forma di unità culturale o politica. L’idea di una «nascita dell’Europa», e di una «nascita» della gran parte delle future nazioni europee, nel nostro periodo è dunque non solo teleologica, ma prossima a pura fantasia. Il fatto che si possano riscontrare legami genealogici col futuro in tante entità politiche del X secolo è un dato interessante, ma di nessun aiuto per la comprensione dell’alto Medioevo.
Anche meno utili sono le ricostruzioni, ancora più datate, che proiettano l’alto Medioevo nella prospettiva della grandiosa narrazione della modernità stessa nelle sue molte varianti. È questo il modello che tradizionalmente declassava l’intera storia medievale a semplice «periodo di mezzo», tra la solidità politica e giuridica dell’impero romano (ovvero l’apice della cultura classica) da una parte, e la presunta riscoperta di questa stessa cultura nel Rinascimento dall’altra. Furono gli stessi studiosi rinascimentali a inventare questa immagine; da allora, questo tipo di ricostruzione ha conosciuto due importanti modifiche. Per un verso, le generazioni successive – gli scienziati della fine del XVII secolo, i pensatori dell’Illuminismo e i rivoluzionari del XVIII secolo, gli industriali e i socialisti del XIX e del XX secolo – hanno rivendicato per sé la «vera» modernità, respingendo le concezioni che consideravano gli anni attorno al 1500 quale effettivo punto di svolta. Per un altro verso, la storiografia dell’ultimo secolo ha visto i medievisti tentare di salvare almeno il medio e il tardo Medioevo dall’obbrobrio di non essere «vera» storia, individuando gli inizi dei comuni processi storici europei di lungo periodo nella riforma papale, nel «Rinascimento del XII secolo», nella nascita delle università, e nelle prime realtà statali aggregatesi intorno a re come Enrico II d’Inghilterra e Filippo II di Francia, nel periodo cioè che va dal 1050 al 1200.
Il risultato di questi due sviluppi è che un intero millennio della storia europea, dal tardo XI secolo in avanti, ha potuto essere visto come una continua successione di maree che si sono spinte sempre più avanti sulla spiaggia del Progresso; ma in questa ricostruzione il periodo precedente rimane ancora fuori considerazione. Le conquiste del mondo antico vengono tuttora viste da molti quali fari al di là del mare oscuro della barbarie che si pensa caratterizzi l’alto Medioevo. E la caduta dell’impero romano nel V secolo (ignorando la sua lunga sopravvivenza in Oriente) viene ancora guardata come un originario fallimento per riprendersi dal quale occorse un processo lungo e laborioso, sebbene proprio tale processo costituisca un fondamento necessario per qualsivoglia aspetto del mondo moderno l’osservatore desideri porre in risalto: razionalismo, produttività, un mercato globale, conoscenza, democrazia, uguaglianza, pace mondiale o la libertà dallo sfruttamento.
Guardo anch’io con favore alla maggior parte di questi esiti ultimi, ma in quanto storico considero ancora le ricostruzioni cui ho brevemente accennato come assurde, perché nella storia ogni periodo ha la propria identità e legittimità, la quale deve essere studiata a prescindere da quanto è accaduto successivamente. Il lungo arco di tempo tra il 400 e il 1000 ha una propria validità come campo di studi, in nessun modo determinata da ciò che era venuto prima o che sarebbe venuto dopo. Attribuire valori particolari a esso (o a parti di esso, come fanno coloro i quali vogliono collegare il IX e forse il X secolo, attraverso l’immagine del «Rinascimento carolingio», alla grande idea di «vera» storia, a spese, presumibilmente, dei secoli che vanno dal VI all’VIII) è una operazione priva di significato. E a me, in quanto storico dell’alto Medioevo, considerare quel periodo in qualche modo come estraneo sembra semplicemente insensato. L’abbondanza di studi recenti sul periodo in esame smentisce alla radice questo modo di concepire la storia, e se questo libro sembrerà in qualsivoglia modo volerlo suffragare avrà certamente fallito.
Oggi, infatti, è possibile scrivere un tipo di storia altomedievale molto diverso. Sino agli anni ’70 dello scorso secolo, la mancanza di documenti scoraggiava i ricercatori; e una storiografia preconcetta, incentrata sul dato fondamentale della «caduta», vedeva i secoli tra il 400/500 ed il 1000 come inferiori. Quali che fossero le spiegazioni per il crollo dell’impero romano d’Occidente nel V secolo (debolezza interna, attacchi esterni, un misto delle due cose), sembrava ovvio che esso avesse rappresentato una sciagura, e che le società europee e mediterranee avessero avuto bisogno di secoli per riprendersi: una ripresa che arrivò forse all’epoca di Carlo Magno (768-814), forse non prima dell’espansione economica e del riformismo religioso dell’XI secolo. La sopravvivenza dell’impero d’Oriente a Bisanzio veniva scarsamente evidenziata. I miti fondativi delle nazionalità erano a un dipresso gli unici aspetti positivi del periodo: sopravvissero più a lungo, in effetti, dell’immagine dell’alto Medioevo come portato della «caduta».
Per fortuna adesso la situazione è diversa; l’alto Medioevo non è più la Cenerentola degli studi storici. In primo luogo, i ricercatori che si occupano di questo periodo si sono fatti più numerosi. In Gran Bretagna, intorno al 1970, la presenza di Peter Brown e ­Michael Wallace-Hadrill ad Oxford, e di Walter Ullmann a Cambridge, ha favorito la formazione di una massa critica di studiosi di storia altomedievale (ed anche tardoantica) che hanno lavorato poi nel resto del paese (appena prima che il reclutamento universitario subisse il giro di vite imposto dai tagli governativi del 1980). Il loro impegno si è tradotto dappertutto in nuovi corsi di laurea, che hanno fatto tramontare il monopolio di Oxford e Cambridge nell’insegnamento della storia, mentre una nuova generazione è in via di formazione. Gli studi bizantini hanno conosciuto anch’essi un rapido incremento. Contemporaneamente, l’archeologia altomedievale si affrancava dall’esclusivo interesse per cimiteri e oggetti in metallo aprendosi alla «nuova archeologia» delle relazioni spaziali e dei sistemi culturali (economici o materiali), caratterizzata da connessioni molto più estese e da una più ricca dialettica con la storia documentaria. Al di fuori della Gran Bretagna, gruppi simili di storici stavano tentando di liberarsi delle passate ossessioni per il «declino» politico e culturale e la storia delle istituzioni giuridiche o della Chiesa; benché solo in alcuni paesi, in specie negli Stati Uniti, il numero degli storici dell’alto Medioevo abbia conosciuto una crescita sostenuta quanto in Gran Bretagna (in Germania e Italia il loro numero è sempre stato maggiore), ovunque, nell’ultimo trentennio, l’approccio storico si è sensibilmente affinato. In gran parte dell’Europa continentale, lo stesso torno di tempo vedeva la nascita pressoché ex novo dell’archeologia dell’alto Medioevo: nel 1970 la sua presenza si limitava di fatto a pochissimi paesi (Gran Bretagna, Germania orientale e occidentale, Paesi Bassi, Danimarca e Polonia), ma attualmente un’archeologia altomedievale complessa e attenta ai nuovi strumenti di indagine è presente in quasi tutti i paesi dell’Unione Europea.
Ed ancora, la ricerca si è maggiormente internazionalizzata. Il progetto della European Science Foundation (ESF) sulla «Trasformazione del mondo romano» (1993-1998) ha radunato decine di ricercatori provenienti da quasi tutti i paesi europei (ed oltre), dando loro la possibilità da Stoccolma ad Istanbul di incontrarsi in sessioni di confronti metodologici4. Ciò non ha dato vita ad una storiografia «europea comune», per buone e cattive ragioni (supponenze e pregiudizi nazionali erano spesso troppo radicati; per contro, un approccio eccessivamente internazionale rischierebbe di essere poco incisivo); ma ha aperto la strada ad una migliore comprensione reciproca tra gli studiosi e al consolidamento di legami personali di più ampio respiro internazionale. I progetti che hanno fatto seguito a quello dell’ESF hanno incontrato nel decennio successivo lo stesso successo, ed il lavoro internazionale su temi comuni è ormai normale e, quando ha modo di realizzarsi, più organico. In linea di massima, la collaborazione più innovativa tra storici ha spesso riguardato in tempi recenti la storia culturale, in particolare l’alta politica e la storia delle élite politiche e sociali; tuttavia, l’approccio più economico connaturato a gran parte della ricerca archeologica, ancorché non sempre recepito dagli storici abituati a lavorare sui documenti scritti, consente nondimeno sviluppi notevoli anche per quanto riguarda la storia socioeconomica. Gli studiosi dell’alto Medioevo sono stati tra i primi, inoltre, a prendere sul serio talune implicazioni della svolta linguistica, la comprensione cioè del fatto che tutti i documenti scritti obbediscono a convenzioni narrative, convenzioni che devono pertanto essere adeguatamente valutate prima che lo storico possa utilizzare quei documenti come fonti. Di conseguenza, l’ultimo ventennio ha visto il riesame critico di quasi tutti i testi altomedievali in nostro possesso dal punto di vista, in particolare, delle loro strategie narrative. Il paesaggio degli studi altomedievali è oggi quindi più internazionale, maggiormente critico, e di assai più ampio respiro di quanto fosse in precedenza.
Il quadro positivo appena presentato cela ovviamente qualche ombra. Una di queste è che la nuova comunità allargata di ricercatori è stata sino ad oggi piuttosto riluttante ad offrire nuovi paradigmi per la comprensione del periodo. Ho espresso le mie critiche in merito in un libro recente, Framing the Early Middle Ages5, proponendo per lo specifico contesto della storia socioeconomica alcuni parametri che in quell’ambito potrebbero funzionare. Nel campo della storia politica e culturale, si può forse constatare l’emersione di un nuovo paradigma, che però rimane implicito piuttosto che esplicito. Questo modello vede numerosi aspetti della tarda Antichità (essa stessa sostanzialmente rivalutata: il tardo impero romano viene oggi spesso considerato come l’apice della romanità, non come la copia scadente e totalitaria della pax romana del II secolo) proseguire senza soluzione di continuità nell’alto Medioevo. Più specificamente: la violenza dei barbari invasori costituirebbe un tropo letterario; furono pochi, se pur ve ne furono, gli aspetti della cultura e della società post-romana che non avessero antecedenti romani; in Occidente il VII secolo, ancorché rappresenti il punto più basso quanto a documentazione disponib...

Indice dei contenuti

  1. 1. Introduzione
  2. Parte prima. L’Impero romano e il suo smembramento, 400-550
  3. 2. La forza dell’impero
  4. 3. Fede e cultura nel mondo romano cristiano
  5. 4. Crisi e continuità, 400-550
  6. Parte seconda. L’occidente post-romano, 550-750
  7. 5. La Gallia e la Germania merovinge, 500-751
  8. 6. I regni mediterranei occidentali: Spagna e Italia, 550-750
  9. 7. Re senza stati: Britannia e Irlanda, 400-800
  10. 8. Vocazioni post-romane: cultura, fede ed etichetta politica, 550-750
  11. 9. Ricchezza, scambio e società contadina
  12. 10. Il potere dell’immagine: cultura materiale e ostentazione dalla Roma imperiale ai Carolingi
  13. Parte terza. Gli imperi d’Oriente, 550-1000
  14. 11. La sopravvivenza bizantina, 550-850
  15. 12. Il consolidarsi del potere politico arabo, 630-750
  16. 13. La rinascita bizantina, 850-1000
  17. 14. Dalla Baghdad abbaside alla Cordova omayyade, 750-1000
  18. 15. Lo stato e l’economia: reti di scambio nel Mediterraneo orientale, 600-1000
  19. Parte quarta. L’Occidente carolingio e post-carolingio,750-1000
  20. 16. Il secolo carolingio, 751-887
  21. 17. Intellettuali e politica
  22. 18. Gli stati eredi del X secolo
  23. 19. L’Inghilterra «carolingia», 800-1000
  24. 20. Ai confini d’Europa
  25. 21. Gli aristocratici tra mondo carolingio e mondo «feudale»
  26. 22. L’incasellamento dei contadini, 800-1000
  27. 23. Conclusione: le tendenze della storia europea tra il 400 e il 1000
  28. Note
  29. Immagini e carte