Terzo giorno
La mattina dopo mi sveglio presto, cammino scalzo in mezzo ai pezzi del ventilatore, mi lavo, mi vesto e vado a prendere l’autobus. Mi sento stanco, con un senso di caldo che monta piano dalla pancia al petto alla testa. Lungo il tragitto il rumore delle sirene, non so se un’ambulanza o la polizia, il consueto strillo giallo bitonale che reseca lo spazio cittadino.
Scendo sul lungomare. Topinambur è già al suo posto ma non mi degna di uno sguardo e resta disteso a riempirsi di sole. Intorno a lui molta più gente di ieri e dell’altro ieri ma della donna cosmetica non c’è traccia. Vado avanti e indietro per una ventina di minuti, percorro il bagnasciuga cercando in acqua, tra chi fa il bagno, e sulla sabbia; non la trovo. Non c’è neppure il cantiere di ieri, nessun totem in costruzione. Allora esco dallo stabilimento e mi avvio verso l’Addaura, la zona degli scogli. Compro una bottiglietta d’acqua e in una decina di minuti arrivo a una piccola pineta, i tronchi che emergono dal marciapiede squassato. Oltre un muretto basso c’è una discesa al mare. Passo in mezzo ai motorini parcheggiati e davanti a me è tutto bianco, le rocce con qualche scritta spray sbiadita e i passaggi costruiti con le gettate di calce. Veloce ricognizione dello spazio e poi mi dirigo verso un punto sgombro, nessuna persona intorno e i sacchetti bianchi e celesti dell’immondizia che emergono come fungaglia dai crepacci.
Allungo il telo su una virgola di cemento incastrata tra i massi aguzzi, resto in costume, bevo un sorso d’acqua dalla bottiglietta e mi distendo. Se non posso ritrovare la donna cosmetica voglio almeno, in quest’ultima mattina di vacanza, prendere un po’ di sole, farmi carotare dalla luce – e poi mi sento sempre peggio, la schiena di vetro che a ogni piccolo movimento si incrina e il respiro che mi si impasta dietro il petto. Mi incurvo sul calcestruzzo, mi copro la testa nuda con la maglietta e aspetto che il sole mi si trapianti nella carne.
Per la stanchezza dopo poco slitto nel dormiveglia, il cuore decontratto e la pressione arteriosa che si riduce, un orecchio contro la pietra ad ascoltare seminconsapevole l’acqua che schiocca e rimbomba sotto il blocco minerale. Quando al basso continuo degli elementi sotterranei si aggiunge il ronzio aereo di quello che senza sollevare la testa deduco essere un calabrone, il mio dormiveglia si organizza in visioni critiche e autocritiche, autentiche meditazioni sul collasso in atto, sulle ragioni di questo panico ordinato che mi conduce di continuo a fare pensieri di confini, a una nostalgia delle compartimentazioni, al rimpianto generico, una miriade di linee che mi si intersecano dietro la fronte cercando di costringere il mondo a un senso. Ma sono linee fragili, incapaci di durare; piano piano si increspano, si attenuano, si rompono in frammenti fino a disgregarsi lasciandomi disabitato e terso.
A scuotermi, non so quanto tempo dopo, sono gli strepiti dei ragazzini che oltre le rocce giocano a tuffarsi. Scosto la maglietta scoperchiandomi il capo al sole, sollevo lo sguardo e davanti a me, a quaranta centimetri di distanza, c’è una lumaca che sta scendendo gommosa dal declivio di pietra verso lo strato di cemento sul quale sono disteso. Una lumaca rupestre che si allunga e si ricontrae, una minuscola fisarmonica grigioazzurra sormontata da un guscio incrostato di bavetta chiara, i tentacoli delle antenne che si muovono nell’aria in una specie di moviola festosa. La lumaca procede salda sui suoi muscoletti podali decrittando cieca lo spazio intorno, una bestia fiera e incosciente che ha abbandonato il pascolo e si è avventurata in una direzione impropriamente balneare. Eppure non si perde d’animo e mi si avvicina montando sul bordo viola rasposo del telo. Mi si ferma davanti, frontale, alle sue spalle una scia madreperlacea di seme secco, e io a mo’ di saluto le tocco un’antenna col polpastrello dell’indice. Lei si ritrae. Mi dispiace ma la ignoro e sempre a pancia sotto incrocio le braccia e mi rimetto a dormire. Dopo un po’ sento un contatto umido contro il dorso della mano, guardo e c’è la lumaca di nuovo desta e attiva, le antenne vispe brancolanti. Mi risollevo, la osservo piccola sul telo, le tocco di nuovo un’antenna, di nuovo si nasconde nel guscio. Aspetto un poco, questa volta senza distrarmi, e un paio di minuti dopo viene fuori. All’inizio piano, poi persino vigorosa. Muove la testa da un lato, dall’altro, come chi ha un presentimento. Allungo la mano, le tocco l’antenna, in meno di un secondo scompare nel calcare.
Decido di diventare scientifico. Sistematico. Dunque appena riemerge le tocco ancora un’antenna col polpastrello e questa volta conto mentalmente per quanto tempo resta nel guscio: una cinquantina di secondi ed è fuori. Le tocco l’antenna e la lumaca si inghiotte nel suo involucro: trascorrono quaranta secondi e ricompare. Non le do il tempo di orientarsi, la tocco ancora e aspetto. Mi sono accorto che ogni volta il tempo di scomparsa si riduce, la latenza nel guscio si accorcia via via di una decina di secondi. A un certo punto, mentre dal mare comincia a tirare un bel vento fresco e le voci intorno si disperdono, dopo l’ennesimo contatto tra il mio dito e l’antenna la lumaca non si ritrae più e rimane fuori, estroflessa, esposta, orgogliosa di avere estinto la reazione a uno stimolo improduttivo. Le tocco ancora e ancora le antenne ma lei persiste indifferente e comincia persino a protendersi in un imbizzarrimento lentissimo per valicare una piegatura del telo.
Prendo la bottiglietta e bevo.
Sulla strada, oltre la cortina di rocce, intravedo due sagome che conosco – i costumi di maglina inconfondibili e le teste che caracollano vicine in confabulazione. Lontani dalla loro spiaggia, dalla fontanella, il quartier generale dell’estorsione onirica, forse in esplorazione di nuovi territori, ennesime colonie alle quali imporre le leggi della loro simbologia morale. Si accorgono di me e nel giro di un minuto, spostandosi leggeri sui crinali taglienti, mi si piazzano davanti, le pompette di gomma appese all’elastico del costume.
Che fai?, domanda il bruno subito truce.
Prendo il sole, dico.
I bambini sollevano lo sguardo in alto, verso l’astro brutale, a valutare la legittimità della sua esistenza. Ne approfitto per coprire la lumaca con un lembo del telo.
Perché?, fa il biondo riportando lo sguardo su di me.
Perché mi piace.
Cosa?
Modificare la pigmentazione.
Segue una lunga pausa di silenzio. Alla fine della quale, tradendo un’impercettibile inquietudine, il biondo riprende la parola.
La?, dice.
Pigmentazione, ripeto.
Resto zitto per inscrivere il termine in un’ulteriore cornice di silenzio, un bel passepartout largo e bianco, giusto per enfatizzare e suscitare tensione. Poi riprendo.
Sapete, la melanina.
Il biondo porta la mano alla pompetta appesa al costume, indeciso se estrarre o no l’arma dalla fondina.
Voglio abbronzarmi, aggiungo provando una rappacificazione, ma dalle loro espressioni mi rendo conto che la nostra relazione è compromessa. Per un momento pare che intendano desistere, allontanarsi e proseguire nella ricognizione del lungomare pietroso.
L’acqua, fa invece il bruno all’improvviso.
Mi volto verso il mare. Non vedo niente. Guardo di nuovo i due bambini rigirando tra le dita il cilindretto di plastica della bottiglietta. Il liquido si scuote e fa un gorgoglio.
Devi darci l’acqua, riprende il bruno esplicativo.
Questa?
Sì.
Ma è mia, dico.
No, è mia, fa lui.
Mannò, mi difendo, è mia. Come fa a essere tua se è mia?
Una pausa, la logica che si concentra dentro le loro teste. Poi la sentenza ineccepibile.
Il tuo è mio, dice il bruno con il tono di un notaio certificatore.
Il biondo gli tocca un braccio, si guardano; espressioni perplesse, poi più nitide, poi decise: una negoziazione che scorre diplomatica ma inesorabile tra i corpi.
Nostro, corregge il bruno.
Il tuo è nostro, ribadisce il biondo.
Perché? L’ho comprata io.
È nostra.
Percepisco il labirinto, nessuna via d’uscita. Capisco che davanti all’impazzimento della nozione di proprietà occorre riformare il senso tutto intero. Interpretare l’arbitrio. Restituirlo.
È avvelenata, dico porgendo al bruno la bottiglietta.
Lui la prende, guarda l’etichetta, il liquido dentro il quale il sole fa i barbagli.
Non è vero, dice.
L’ho avvelenata io, preciso.
Il bruno e il biondo mi danno le spalle, avvicinano le teste, studiano l’involucro di plastica e di nuovo si dispongono in attitudine confabulatoria. Quando terminano la riunione volante si girano di nuovo verso di me.
Se è avvelenata perché sei vivo?, domanda il biondo.
Io non sono vivo, rispondo.
Un’altra consultazione rapida, sottovoce.
Come mai?, domanda calmo il bruno.
Ho bevuto l’acqua avvelenata.
E perché?
Per morire.
Ma perché.
Perché se bevo tutta l’acqua avvelenata nessun altro può berla e nessun altro muore avvelenato.
Ma qui, dice il bruno mostrandomi la bottiglietta, di acqua ce n’è ancora.
Hai ragione, dico. Sono morto prima di finirla.
Mi fissano. Nervosi, solidali. Dopotutto stiamo condividendo uno scompaginamento.
È un veleno molto potente, aggiungo. Se bevete morirete anche voi.
Nel silenzio che segue mi accorgo che l’incertezza dei miei estorsori si fa sempre più consistente, una tensione che è insieme fisica e psichica.
Semmai, suggerisco indicando la bottiglietta con un cenno del capo, dovreste versarmela addosso. Così la eliminiamo e nessuno corre rischi.
Il biondo e il bruno si consultano ancora, stavolta solo con lo sguardo.
Tanto io sono già morto, ribadisco.
Cos’è quello?, domanda di colpo il biondo indicando per terra accanto a me.
Getto un’occhiata di lato: la lumaca è sbucata da sotto il telo e si dirige verso la roccia.
Un sasso, dico.
Si muove, dice il biondo.
È il vento, spiego.
È una lumaca, dice il bruno abbassa...