Palermo
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Palermo

  1. 384 pagine
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Informazioni su questo libro

Palermo, la sua storia politica e amministrativa, i protagonisti, le grandi famiglie e i sodalizi culturali che l'hanno formata, i ritardi, gli squilibri e le contraddizioni. Orazio Cancila delinea il profilo storico, dalle origini a oggi, di una straordinaria città italiana, luogo cardine della vicenda post-unitaria nazionale, marchiata da insufficienze strutturali e rigurgiti mafiosi, ma ricca di energie e potenzialità inespresse.

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Informazioni

Argomento
Storia

IX. Palermo capitale

1. Una occasione mancata?

L’istituzione nel 1947 della Regione Siciliana a statuto speciale, con capitale Palermo, rappresenta, dopo l’unificazione italiana del 1860, l’avvenimento più importante della vita della città negli ultimi centocinquant’anni. In verità, i palermitani non avevano mai rinunciato a considerare Palermo la capitale morale dell’isola. Ma se ciò valeva a gratificare il loro orgoglio, non modificava di tanto il ruolo della città, che non si differenziava granché da quello delle altre due maggiori città isolane. La concessione dell’autonomia alla Sicilia faceva invece di Palermo la sede dell’assemblea e del governo di una regione a statuto speciale e, modificandone completamente il ruolo all’interno della Sicilia e nei rapporti con il resto del paese, aveva conseguenze rilevantissime sul suo sviluppo successivo. Palermo capitale della Regione Siciliana ritornava a essere punto di riferimento delle forze politiche ed economiche dell’intera isola, che a essa facevano nuovamente capo, come non era più avvenuto da quando la città era stata ridotta al rango di capoluogo di provincia. La scelta di Palermo come capitale, fieramente avversata da Catania, aveva certo valide ragioni storiche, ma era anche la conseguenza logica di decisioni e processi maturati nel quinquennio precedente, a cominciare dalla decisione alleata di trasferire il quartiere generale dell’Amgot (Allied Military Government of Occupied Territory) da Siracusa a Palermo (agosto 1943), che la collocavano in una posizione di preminenza sulle altre città siciliane.
E perciò apparve normale, nel marzo 1944, la scelta del governo italiano di fissarvi la sede dell’Alto Commissariato per la Sicilia e della Giunta Consultiva, primo passo del processo di formazione dell’autonomia regionale. La città fu investita allora da un clima politico così acceso e ricco di passioni, quale forse mai si era più avuto dai mesi che nel 1860 avevano preceduto l’annessione al Piemonte. La storia della Sicilia si faceva nuovamente a Palermo, in un’atmosfera di elevato impegno ideale, di polemiche roventi, di grandi speranze e di amare delusioni, che coinvolgevano la popolazione come mai era accaduto in passato. Grazie alla diffusione della radio, alla stampa che aveva ripreso le pubblicazioni e si era arricchita di numerosi nuovi periodici, al più elevato livello d’istruzione raggiunto dai palermitani, la lotta politica, che già negli ultimi anni prefascisti aveva cessato di essere monopolio di pochi, era seguita ormai da larghissimi strati cittadini, con una partecipazione più consapevole e sentita.
Al centro del dibattito politico c’era, ormai da mesi, il problema dell’autonomia regionale, che vedeva i vari partiti su sponde contrapposte e con posizioni differenziate anche all’interno dei due schieramenti, il separatista e l’unitario. Convinti che l’isola fosse economicamente autosufficiente, i separatisti, tra le cui file militavano non pochi esponenti dell’aristocrazia agraria e della borghesia latifondista, noti mafiosi ed ex fascisti, ma anche larghi strati popolari, erano fermi sulla pregiudiziale indipendentista. Fieramente contrari a qualsiasi ipotesi autonomista, essi non andavano oltre una soluzione di cauto federalismo. E intanto si agitavano, minacciavano e non lasciavano nulla di intentato. Nella Sicilia orientale si formavano i primi raggruppamenti militari e a Palermo l’ala estremista, che faceva capo a Lucio Tasca, sindaco della città sino all’agosto precedente, al figlio Giuseppe, al barone La Motta e all’avvocato Cacopardo, aveva lanciato la campagna di arruolamento nell’Evis (Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia) e progettava accordi, poi realizzati, con il banditismo che allora infestava l’isola e che nella Sicilia occidentale aveva in Salvatore Giuliano il capo indiscusso. Nella ricerca spasmodica di una soluzione loro favorevole, gli indipendentisti non esitarono ad accantonare la polemica antisabauda e ad allacciare accordi con la Corona per un Regno di Sicilia indipendente sotto Umberto II nel caso di una vittoria repubblicana nel referendum del 1946. Solo quando il sogno di una Sicilia indipendente svanì per sempre e l’autonomia regionale diventò una concreta realtà, i separatisti si trasformarono nei più accaniti difensori dello Statuto regionale e più volte ne reclamarono a gran voce la piena attuazione.
Non è il caso in questa sede di soffermarsi sulla varie tappe, peraltro abbastanza conosciute, che portarono prima alla formulazione dello Statuto siciliano da parte della Consulta Regionale e poi alla promulgazione del decreto luogotenenziale 15 maggio 1946 e infine al coordinamento con la Costituzione italiana. Il 20 aprile 1947 si tennero le prime consultazioni per l’elezione, sulla base delle nove circoscrizioni provinciali, dei novanta membri dell’Ars (Assemblea Regionale Siciliana). Al loro seguito giunsero in città i galoppini più fidati, i parenti, gli amici, gli amici dei parenti, i parenti degli amici, sistemati via via nei ruoli dell’amministrazione regionale e dell’Assemblea, negli istituti di credito, negli enti di nuova istituzione, negli uffici di partito, nei sindacati, negli ospedali (tra il 1955 e il 1975, gli addetti ospedalieri passarono da neppure 1.500 a oltre 5.000), ecc. Non c’era membro del governo regionale che rinunciasse alla opportunità di circondarsi di devoti, riempiendo il suo ufficio di conterranei. Il numero di immigrati a Palermo da ogni parte dell’isola, per coprire i nuovi uffici e dar vita alla burocrazia regionale, fu veramente notevole. Anche se non esiste una indagine in proposito, non c’è dubbio infatti che i posti di lavoro creati in quegli anni nella capitale dell’isola siano finiti nella stragrande maggioranza ai ‘regnicoli’: l’utilizzazione di elementi locali fu modesta e in ogni caso non proporzionata all’entità della popolazione della città.
Per lo scarso credito che si concedeva allora alla Regione, gli statali della città credettero più opportuno rimanere nei ruoli dello Stato, compreso spesso il personale degli uffici e dei servizi che in base allo Statuto passavano all’amministrazione regionale, che in buona parte preferì sistemarsi in altri uffici dell’amministrazione statale. E perciò la burocrazia regionale fu costituita essenzialmente dai nuovi assunti con criteri clientelari che tenevano scarso conto dei meriti, delle competenze e persino della fedina penale. Non a torto il mafioso dc Genco Russo poteva vantarsi di avere ‘sistemato’ oltre cento picciotti figli di ‘amici’. Tale criterio di reclutamento fu causa di corruzione della società siciliana, che da allora utilizzò la politica come il mezzo più sicuro per accedere all’impiego, e inoltre dotò l’Ars e l’amministrazione regionale di una burocrazia inefficiente e fortemente asservita al potere politico, che ha svolto un’azione frenante nel processo di sviluppo dell’isola.
La responsabilità principale di tutto ciò ricade sugli esponenti del partito che ha avuto il maggiore potere, la Democrazia Cristiana, ma i rappresentanti degli altri partiti non ne sono esenti, perché ogni qual volta ebbero un briciolo di potere non si comportarono diversamente dai dc: qualunquisti, monarchici, liberali, socialdemocratici, repubblicani negli anni dei governi di centro-destra; missini, socialisti e comunisti all’epoca dei governi Milazzo. Le leggi regionali, che sin dal 1950 proibivano nuove assunzioni senza concorso, rimanevano inapplicate come le famose grida manzoniane e le assunzioni continuarono, cosicché a fine 1976 la burocrazia regionale aveva una consistenza di 6.149 unità (di cui solo 500-600 assunti per concorso), senza contare i dipendenti dell’Ars e degli enti economici finanziati, che qualcuno fa ascendere a circa 7.000.
L’immigrazione a Palermo riguardò anche altre categorie: numerosi, ad esempio, furono negli anni Cinquanta e Sessanta gli insegnanti elementari della provincia, che il boom dell’istruzione obbligatoria – conseguenza anche di un incremento demografico più accentuato che nei paesi – portò in città come vincitori dei concorsi magistrali. Altri si trasferivano per consentire ai figli di seguire i corsi universitari; altri ancora per trovare occupazione nell’edilizia pubblica e privata, la cui ripresa era stata piuttosto rapida dopo la fine della guerra, mentre nei paesi decollerà solo alla metà degli anni Cinquanta, quando arriveranno le rimesse degli emigrati. E ancora si trasferivano in città contadini, addetti ai trasporti e al commercio, artigiani, domestici, amministratori privati, liberi professionisti, con numeroso seguito di mogli e figli in condizione non professionale.
Nel periodo precedente, l’immigrazione a Palermo era costituita da qualche proprietario, da qualche ex studente di provincia tra i più bravi che si fermava a esercitare la professione, ma soprattutto da lavoratori o aspiranti tali, che non trovavano grosse difficoltà a integrarsi nel tessuto sociale della vecchia città, finendo con l’assumere la ‘cultura’, i codici comportamentali e talora persino la parlata dei palermitani con i quali venivano più a contatto. L’immigrazione che comincia con la fine degli anni Quaranta attingeva invece largamente, specialmente sino al ’55, ai ceti intellettuali dell’isola. Si trattava cioè prevalentemente di lavoratori assai meno disposti a rinunciare alla loro ‘cultura’ e ai valori non urbani ai quali erano stati educati, che finivano spesso con il costituire un impedimento alla loro piena integrazione nella realtà cittadina. Non amati e talora snobbati dalla borghesia locale, che ne temeva l’arrivismo e si difendeva accentuando la tradizionale spocchia cittadina contro i «pedi ’ncritati», i villani coi piedi infangati, che venivano dai paesi dell’interno, essi, a loro volta, si tenevano lontani dagli ambienti popolari della città e non tralasciavano occasione per manifestare la loro diversità. Finivano così col vivere alquanto isolati nella vecchia città, mantenendo uno struggente rapporto affettivo con i centri di provenienza; oppure si ritrovavano con i compaesani e con gli altri provinciali in luoghi convenuti o anche nei club di nuova fondazione, in attesa di costruirsi una loro città, una terza città dopo l’antica e la borghese costruite tra Otto e Novecento. Furono, infatti, i primi – usufruendo di mutui regionali a cooperative per la costruzione o l’acquisto di appartamenti, o impiegando il frutto della vendita di qualche appezzamento di terreno in paese, che ai neoburocrati ormai non serviva più – a popolare la città che cominciava a costruirsi a nord-ovest della via Notarbartolo. Una Palermo completamente diversa dalle altre due, diversa nella struttura urbana, nella struttura sociale, negli stessi abitanti, dove le famiglie di rigorosa origine palermitana costituiscono tuttora una minoranza.
Il movimento migratorio verso Palermo non è quantificabile con esattezza, perché i più continuarono a mantenere ancora per anni la residenza legale nei centri di provenienza, cosicché i dati ufficiali non documentano l’intero flusso, anche se confermano pienamente la tendenza. La punta massima di 15.960 immigrati (emigrati 9.106) fu toccata nel 1956. Da allora raramente l’immigrazione è scesa al di sotto delle 10.000 unità l’anno, ma il saldo positivo, già in fase di notevole riduzione verso la fine degli anni Cinquanta, è diventato negativo nel 1961 (14.831 emigrati contro 12.291 immigrati) e ha continuato a esserlo quasi ogni anno sino ai nostri giorni. Il saldo negativo dell’ultimo cinquantennio è l’indice più evidente del malessere della città, il cui sviluppo si era basato esclusivamente sull’espansione della pubblica amministrazione e sull’edilizia, che ormai non offrivano e non offrono più grossi sbocchi occupazionali. Un malessere che è dovuto al fallimento politico della Regione Siciliana, che non è riuscita a porre le premesse per lo sviluppo dei settori produttivi, cosicché ai palermitani che cercavano lavoro non rimaneva che seguire la strada sulla quale, già sin dall’inizio degli anni Cinquanta, si erano incamminati molti altri siciliani: l’emigrazione al Nord e poi all’estero – non tanto però nelle Americhe come in passato, ma nei paesi dell’Europa continentale – e infine ancora al Nord.
L’emigrazione superò così spesso le 15.000 unità e nel 1968 fu pari addirittura a 18.078, di cui 3.293 per la Lombardia e 2.778 per il Piemonte. Ma ciò non serviva a rendere meno precaria l’occupazione di coloro che restavano a esercitare i mestieri più vari ed eterogenei e del sottoproletariato della città, costretto spesso a escogitare tutti gli espedienti, leciti e illeciti, per risolvere il problema del pane quotidiano. Nella seconda metà degli anni Settanta si verificò una flessione dell’emigrazione, con una improvvisa impennata nel 1980 (15.980 unità), solo in parte assorbita negli anni successivi, quando i valori annuali si stabilizzarono attorno alle 11.000-12.000 unità. In coincidenza con la ripresa della crisi economica italiana, nel 1989 si ebbe un rapidissimo balzo a 13.650 unità, livello più volte superato nel corso degli anni Novanta, sino a toccare la punta di 16.616 nel 2001, per mantenersi negli anni successivi tra le 14 e le 16.000 unità: per i lavoratori palermitani, ma anche per i giovani professionisti, l’unica strada percorribile rimaneva ancora una volta l’antico «cammino della speranza», ossia la strada dell’emigrazione! E tuttavia i dati ufficiali non documentano appieno il fenomeno, perché non tengono conto dell’emigrazione mordi e fuggi, cioè l’emigrazione temporanea alla ricerca di un lavoro precario e magari in nero, cui segue l’inevitabile ritorno a casa.
Di contro, l’immigrazione – che tra il 1961 e il 1987 si è mantenuta quasi costantemente sulle 10.000-12.000 unità l’anno – dal 1988 si è abbassata al di sotto delle 10.000 unità e talora anche delle 8.000, per mantenersi dalla seconda metà degli anni Novanta sulle 10.000 unità. Dalla fine degli anni Settanta, inoltre, pur se l’immigrazione dalla provincia e dal resto dell’isola si è mantenuta ancora largamente prevalente, consistenti apporti sono stati forniti per quasi tutti gli anni Ottanta dall’emigrazione di ritorno – spesso costituita da elementi anch’essi alla ricerca di una nuova occupazione – e dal 1987 in poi soprattutto dall’immigrazione di gente di colore dai paesi afroasiatici, che alimenta inoltre una corrente clandestina non quantificabile che trova alloggio in abitazioni fatiscenti della vecchia città. E intanto il saldo con il resto dell’isola, che per tutto il Settanta era stato attivo, negli anni Ottanta è anch’esso diventato negativo. La situazione si è cioè completamente ribaltata anche nei confronti della Sicilia: l’immigrazione di ‘regnicoli’, per i quali gli sbocchi occupazionali in città si sono quasi del tutto esauriti, si è ridotta a cifre più modeste e, di contro, è cresciuta l’emigrazione dei palermitani nell’ambito della regione (esempio: 4.635 immigrati dal resto della Sicilia nel 1989 contro 7.846 emigrati, 5.765 contro 9.026 nel 2001, 5.389 contro 10.543 nel 2006). Il saldo negativo con il resto dell’isola è causato soprattutto dal fenomeno, accentuatosi nell’ultimo ventennio, del trasferimento della popolazione più giovane nei paesi costieri vicini, un po’ per moda, un po’ per l’effettiva necessità di trovare alloggi a minor costo che in città. Ciò da un lato ha provocato la crescita sproporzionata dei centri abitati che fanno da corona alla città, dall’altro ha accentuato il fenomeno del pendolarismo, ossia del trasferimento giornaliero in città di numerosi abitanti dei comuni vicini per raggiungere il posto di lavoro. Ma il saldo negativo con il resto dell’isola è anche conseguenza dell’espulsione di forza lavoro dalla città, che mette seriamente in discussione il ruolo di Palermo capitale, perché una città che non sia più centro di attrazione della forza lavoro della regione forse non può più considerarsi una capitale. E allora resterebbe da verificare se Palermo non abbia perduto la più grande occasione del XX secolo per dare una svolta decisiva alla sua storia.
È certo, in ogni caso, che Palermo ha finito col pagare, snaturando se stessa e la sua fisionomia urbanistica, un tributo assai pesante al suo ruolo di capitale, forse non proporzionato ai vantaggi che le sono derivati. La Regione infatti non solo ha speso molto poco per la sua capitale, ma non si è mai preoccupata dei riflessi negativi che la sua presenza ha comportato per la città, costretta, ad esempio, come se già non bastassero i gravi problemi da risolvere che da sempre si trascinava, a far fronte alle conseguenze del massiccio inurbamento e di un incremento demografico più accelerato del normale. La popolazione cittadina è ufficialmente passata dai 411.879 residenti del ’36 ai 490.692 del ’51, 587.985 del ’61, 642.814 del ’71, 701.782 dell’81, 698.556 del ’91, 686.722 del 2001. Negli anni Ottanta la crescita demografica quindi si è bloccata e già il censimento del ’91 ha segnato un arretramento, che – come anche in parecchie altre grandi città italiane – si è aggravato notevolmente negli anni successivi, se a fine 2006 la popolazione residente risultava ridotta a 666.552 unità. Una popolazione peraltro invecchiata, anche se il fenomeno è meno preoccupante che nel resto del paese, dove le dinamiche della denatalità e dell’invecchiamento sono più rapide: tra il ’91 e il 2001 a Palermo la fascia dei giovani (0-14 anni) si è ridotta di quasi quattro punti percentuali, dal 21,2 al 17,5 per cento (Italia 14,2), mentre quella dei vecchi (>64) si è incrementata di oltre tre punti, dall’11,4 al 14,7 per cento (Italia 18,7), cosicché – per effetto del declino della fecondità da un lato e dell’allungamento della vita dall’altro – l’indice di vecchiaia (rapporto tra popolazione di oltre 65 anni e popolazione di 0-14 anni) è passato contemporaneamente dal 54 all’84,1 per cento (Italia 131,4), compromettendo anche a Palermo il ricambio generazionale.
Il notevole inurbamento degli anni 1945-1968 e il rapido sviluppo demografico hanno provocato una crescita elefantiaca della città e comportato costi eccessivi sotto il profilo urbanistico, delle infrastrutture e dei servizi, che non si sono assolutamente adeguati, delle condizioni materiali di vita, soggette a una maggiore inflazione a causa dell’accresciuto flusso di denaro in circolazione, che provocava inizialmente un aumento sproporzionato degli affitti e del costo complessivo della vita e successivamente anche del costo delle nuove abitazioni; e ancora delle condizioni sociali, che hanno risentito i contraccolpi di improvvise e inspiegabili fortune, della sicurezza pubblica, di tutto quanto infine oggi si indica con il termine vivibilità. E hanno finito quasi col dare una giustificazione alla inettitudine e agli errori delle sue amministrazioni.

2. Il reclutamento della classe politica democratica

Le prime elezioni regionali del 1947 e le politiche del 1948 – che videro il trionfo della Dc, a danno di tutti gli altri partiti – non avevano concesso, se non in qualche caso eccezionale, possibilità di vittoria a candidati sconosciuti provenienti dagli apparati di partito e di organizzazioni collaterali. Poiché allora non vigeva incompatibilità con la carica di deputato nazionale, alle elezioni regionali alcuni partiti preferirono addirittura ripresentare parlamentari in carica, che conferivano maggiore prestigio alle liste e fornivano maggiori possibilità di successo. E perciò la rappresentanza della città all’Ars e al Parlamento nazionale, della quale facevano parte anche alcuni originari di altri Comuni, continuava a essere costituita essenzialmente da esponenti del mondo delle libere professioni.
La situazione cambiava già con le elezioni regionali del 1951, in cui il blocco socialcomunista scavalcava la Dc. Mentre i partiti minori continuavano ancora ad affidarsi a professionisti e a imprenditori, democristiani e socialcomunisti cominciavano ad attingere ai quadri di partito e di organizzazioni vicine (sindacati, Azione Cattolica, parrocchie, Acli, ecc.), talora – nel caso dei dc – già inseriti nella burocrazia regionale, cosicché nella Dc e tra i socialcomunisti non furono eletti noti personaggi, a favore di sconosciuti esponenti dell’Azione Cattolica e di dirigenti sindacali. Il caso più significativo, che dà proprio il senso della svolta, era certamente quello che nella stessa lista vedeva protagonisti Cusenza, sindaco per circa 30 mesi, e Salamone, capo ripartizione al Comune nel ramo della Beneficenza, bocciato il primo, eletto il secondo. Seppure in misura più modesta, il fenomeno è presente anche alle politiche del 1953 e comincia a toccare i partiti minori: nella lista del Msi venne eletto uno studente universitario nativo di Montemaggiore, che l’anno precedente era stato eletto consigliere comunale della città e finirà con il costituire un esempio tipico del politico di professione, senza altro mestiere, come molti altri dopo di lui.
Il nuovo sistema di reclutamento della classe politica trovava maggiore possibilità di applicazione nelle consultazioni per il rinnovo del Consiglio comunale: già nel 1952, entravano a Sala delle lapidi parecchi sconosciuti attivisti di partito e sindacalisti della Dc, dello schieramento socialcomunista e del Msi, spesso provenienti da fuori città: almeno 20 dei consiglieri allora eletti, cioè un terzo del Consiglio, risultano infatti nati fuori Palermo. Il sistema si consolidò ulteriormente nelle elezioni della seconda metà degli anni Cinquanta e si affermò definitivamente nel decennio successivo, quando coinvolse anche i nuovi immigrati, che rispetto agli autoctoni avevano maggiori stimoli e soprattutto una migliore conoscenza dei meccanismi elettorali e clientelari, dei quali molto spesso essi stessi e le loro carriere rappresentavano l’esempio più convincente.
Risolto, dopo quello dell’impiego, il problema dell’abitazione di proprietà (più oltre si vedrà come), il nuovo inurbato non perse infatti tempo a tentare la grande avventura politica. Per anni aveva svolto attività di galoppinaggio a favore del ‘suo’ onorevole, che intanto era diventato magari assessore regionale o deputato nazionale e nella cui segreteria politica spesso egli continuava a lav...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. I. Una città plurimillenaria
  3. II. L’Ottocento borbonico
  4. III. L’unificazione difficile
  5. IV. Tra moderatismo e regionismo
  6. V. Il trasformismo
  7. VI. L’età giolittiana
  8. VII. Palermo ‘felicissima’
  9. VIII. Dopoguerra e fascismo
  10. IX. Palermo capitale
  11. Appendice. Amministratori comunali dal 1860