Capitolo quarto. Orizzonti di senso
Nous n’avons que nos kalach comme subsistance parce que Allah
ne lasse pas vide une bouche qu’il a créée.
Ahmadou Kourouma, Allah n’est pas obligé
1. Antropopoiesi implicita: guerra e soggettività
In questo ultimo capitolo sposteremo la nostra analisi sulla soggettività. Come spesso accade, si tratta di un concetto fluido che gli antropologi hanno utilizzato attribuendogli sfumature diverse (cfr. Das, Kleinman, Ramphele, Reynolds, 2000; Werbner, 2002). È opportuno quindi partire da una definizione di questa nozione e chiarire l’uso che ne faremo.
Sherry Ortner, in un articolo di sintesi pubblicato sulla rivista «Anthropological Theory», definisce la soggettività come l’insieme dei modi di percezione, affezione, pensiero, desiderio, paura, ecc. che animano i soggetti agenti (Ortner, 2005: 31). Si tratta di una definizione generale che ci serve come punto di partenza. Rispetto all’idea di persona – la quale rappresenta, come abbiamo visto, un modello culturale che le diverse società cercano di realizzare per mezzo di progetti antropopoietici programmati –, la soggettività ci porta a considerare un insieme più ampio di forze che agiscono sull’individuo: la classe e il campo sociale, i capitali economico e culturale, il sistema politico ed economico della sua società, il contesto storico della sua vita, e infine le sue disposizioni personali. Questo breve elenco delinea un insieme composito di fattori che plasmano gli individui, ossia ne orientano le azioni, i modi di percezione, le visioni del mondo e l’affettività. Non sono forze, però, che agiscono in modo programmato, che costruiscono le persone seguendo una scansione rituale, come nel caso dell’antropopoiesi programmata. Esse operano piuttosto nella quotidianità e in modo “congiunturale”, il che implica un certo grado di imprevedibilità. Per questa ragione possiamo ricondurle alla categoria di “antropopoiesi implicita”, che si riferisce per l’appunto a quell’insieme ampio e composito di processi di costruzione delle persone che si celano nelle pratiche quotidiane, nel flusso e nei contrasti delle interazioni sociali.
Ovunque al mondo, gli uomini sono il prodotto di forze antropopoietiche (programmate e implicite): non esiste un’essenza o una natura umana a prescindere da questi processi di costruzione. Ma non è una azione a senso unico. Gli individui, infatti, si relazionano con queste forze in gradi e modi diversi: si oppongono e resistono, oppure aderiscono e collaborano, fingono e stanno al gioco, ecc. In questo senso, quando parliamo di “soggetti dotati di agency” vogliamo sottolineare il fatto che gli individui interagiscono con il loro mondo (sociale, culturale, politico, economico, ecc.) e non ne sono mai pienamente determinati: è in questa relazione biunivoca che si determina la soggettività. Essa è dunque definita dal rapporto fra forze antropopoietiche e agency, ossia dalle capacità/possibilità che gli individui hanno di relazionarsi con tali forze.
Quando ci concentriamo sulle storie di vita dei giovani combattenti emergono molteplici “orizzonti di senso”, talvolta contrastanti: le ragioni che spingono all’arruolamento, gli obbiettivi prefissati e soprattutto il significato che ognuno conferisce alla propria esperienza possono essere profondamente diversi. Le milizie sono una forma di comunità che implica pertanto un certo grado di condivisione di pratiche, credenze, e valori; ma allo stesso tempo sono composte da una pluralità di soggetti i cui orizzonti di senso possono sovrapporsi solo in parte e per periodi di tempo limitati. Porre l’accento sulla soggettività ci aiuta dunque a considerare in termini critici alcune categorie molto utilizzate nella letteratura specialistica e che noi per primi abbiamo sin qui impiegato con disinvoltura. Mi riferisco in particolare alle nozioni di “giovani combattenti” e “bambini soldato”, le quali rischiano di essere eccessivamente monolitiche e generalizzanti qualora non venga esplicitato il loro carattere composito, come stiamo cercando di fare.
Questi ragionamenti, però, non devono indurci a ridurre la nostra analisi a una dimensione individualistica. È importante ribadire che la soggettività è il prodotto della relazione fra l’individuo e il suo mondo, ed è proprio la centralità che attribuiamo a questa relazione a impedirci di cadere in questa trappola. Come argomenta Richard Werbner, per superare i limiti analitici dell’individualismo, che presuppone l’esistenza di un attore eroico e solitario, dobbiamo cogliere il modo in cui le soggettività sono determinate dai discorsi, dall’economia, dalla politica, dalle strutture statali e dalle disposizioni personali (Werbner, 2002: 3). In sostanza, i soggetti non possono essere considerati semplicemente come eroi che “tessono” la propria vita in un vacuum sociale, e nemmeno come individui totalmente sovradeterminati da strutture più ampie (culturali, politiche, economiche, ecc.). Per evitare ogni riduzionismo è necessario quindi tenere insieme i diversi piani e considerare i soggetti «sia come prodotti, sia per quello che producono». All’interno di questo quadro teorico maggiormente articolato, l’agency viene a delinearsi come la capacità degli attori sociali di relazionarsi in modo critico con i processi della loro «costruzione/costrizione» (cfr. Quaranta, 2008). Questa capacità può essere più o meno elevata, e si traduce in disposizioni e comportamenti diversi. Facciamo un esempio a partire dai nostri temi: la soggettività di un bambino soldato (in breve, la percezione del mondo e l’affettività che ne orientano l’azione) è determinata da una antropopoiesi programmata (i riti a cui è stato e viene sottoposto) e una implicita (per esempio la crisi generalizzata, la situazione di guerra, l’organizzazione della milizia, l’educazione ricevuta, ecc.). Queste forze si articolano con l’agency, ossia con la capacità del bambino di relazionarsi con esse (capacità critica, grado di consapevolezza, capacità di adattamento e di resistenza, ecc.). Nel caso di un bambino soldato il primo ordine di forze ha spesso un ruolo preponderante nel determinarne la soggettività. Tuttavia, la sua possibilità/capacità di relazionarsi con esse non viene mai del tutto annullata. Essa si riduce in molti casi a una agency tattica (cfr. cap. II), ovvero a una pianificazione di corta durata che lo porterà, per esempio, a tentare di sottrarsi ai compiti più gravosi e rischiosi, oppure a cercare di trarre un profitto momentaneo dalla sua condizione.
Le esperienze dei combattenti prendono dunque forma all’interno di un ampio e complesso gioco di forze. Per dar conto di questo mondo così articolato, ci soffermeremo ora sulle storie di vita di due combattenti che ebbi modo di conoscere durante la ricerca sul campo: Muhindo e Jack1. L’attenzione che rivolgiamo alle loro narrazioni non ha tanto l’obbiettivo di ricostruire gli eventi della guerra (sebbene anche questo sia un aspetto molto interessante), quanto quello d’indagare il modo in cui i soggetti coinvolti conferiscono senso a questi eventi e si relazionano con un mondo che a sua volta, in un processo circolare, plasma le loro soggettività. Bisogna aggiungere che questo genere di narrazioni non rappresenta una semplice rievocazione di un periodo di vita passata. I resoconti di guerra, infatti, non vanno intesi semplicemente come momenti in cui i soggetti rievocano la loro esperienza, ma sono anche dei dispositivi attraverso i quali è possibile ricostruire l’esperienza stessa. Sono dunque occasioni in cui gli attori sociali danno forma a un mondo rinnovato e vi si collocano con una presenza inedita (cfr. Quaranta, 2006b: xxii-xxiii)2.
Muhindo e Jack sono due ragazzi molto diversi per età, condizione sociale, cultura personale, ecc. Con entrambi strinsi un rapporto profondo e (suppongo!) genuino. Il primo, originario di un piccolo villaggio del Nord Kivu, si era arruolato nei Mayi-Mayi a soli dodici anni e in seguito era divenuto docteur, ovvero l’addetto alla preparazione dell’acqua magica. Il secondo, nato a Dar es Salaam (Tanzania), dopo una lunga militanza nel movimento panafricanista e un periodo di formazione militare in Libia, all’età di venticinque anni decise di partire per il Congo dove si arruolò dapprima nell’Afdl e in seguito nell’Rcd per realizzare la sua ideologia rivoluzionaria. Le storie di vita di questi due giovani ci mostrano quanto complesso e articolato sia il mondo della guerra, e ci offrono uno spaccato delle soggettività che lo animano e al contempo ne vengono plasmate. Muhindo si relaziona alla realtà che lo circonda con una ridotta capacità critica, la sua visione del mondo è autoreferenziale, e la sua agency si traduce in comportamenti che oscillano dalla fuga all’opportunismo. Ma è comunque un attore sociale di primo piano, tutt’altro che passivo, in grado di sopravvivere e districarsi in uno dei contesti più difficili al mondo. Al contrario, a Jack la capacita critica non manca affatto, il suo sguardo è distaccato e riflessivo: la sua agency è indubbiamente più ampia, ma questo non lo affranca dalle pesanti costrizioni che condizionano la sua vita. Allo stesso tempo, fra Muhindo e Jack emergono alcune importanti affinità: tutti e due sono mossi da uno spirito di avventura che pare incontenibile, da un bisogno di riconoscimento e di affermazione che li rende particolarmente attivi, e mostrano una sorprendente capacità di adattamento e di resilienza (cfr. Malaguti, 2004). Le loro vite si snodano fra difficoltà di ogni genere con una intensità straordinaria: sono come due giocatori seduti allo stesso tavolo, la sorte non è stata generosa con loro e gli ha riservato una mano difficile; ma la partita è quella e non si tirano indietro, e ognuno se la gioca con le carte che ha in mano.
2. Storia di Muhindo, un bambino dottore
Muhindo è indubbiamente il bambino soldato più estroverso con cui io abbia avuto a che fare. Lo incontrai per la prima volta a Lukanga (Nord Kivu), il suo villaggio natale, nell’inverno del 2002. Aveva allora quattordici anni e da circa due anni si era arruolato in una formazione Mayi-Mayi. Al momento del nostro incontro si era recato a casa per una visita di qualche giorno ai suoi genitori. La divisa pulita e ordinata di Muhindo spiccava fra i vestiti logori e stracciati degli altri bambini del villaggio che facevano capannello intorno a lui, ammirati e intimoriti dalla sua presenza. La radio, che ostentava orgoglioso, era il simbolo evidente del suo status di bambino “eccezionale”, capace di accedere a quei beni che i suoi coetanei potevano solo fantasticare. Fui subito sorpreso dalla sfrontatezza e dalla protervia di Muhindo. A un adulto che lo aveva apostrofato dicendogli: «Non hai paura di morire?», rispose perentorio: «Tutti noi dobbiamo morire prima o poi!». La confidenza e la temerarietà che mostrava dinanzi all’idea della morte, nonostante i suoi quattordici anni, mi lasciarono smarrito.
Pochi giorni dopo il nostro primo incontro Muhindo tornò all’accampamento Mayi-Mayi. Passarono circa sedici mesi prima che ci incontrassimo di nuovo, sempre a Lukanga, e nel frattempo Muhindo aveva combattuto in diverse formazioni, passando dall’una all’altra senza particolari preoccupazioni. Aveva imparato l’arte del docteur, preparava la mayi e i dawa, ed era anche stato promosso a comandante: una vita avventurosa, nonostante la giovanissima età, che gli aveva lasciato dentro un fondo di angoscia e timore. In una lunga intervista, svolta in due giorni, mi narrò la sua esperienza di bambino soldato:
– Puoi ripetermi il tuo nome?
Muhindo Kapasi Germain.
– Quanti anni hai?
Quasi sedici anni.
– Mi puoi raccontare la tua esperienza di soldato?
Sono entrato prima nei Mayi-Mayi. Sono andato là perché sono arrivato a casa e tutti i miei amici erano partiti e dopo qualche giorno li vedevo sul camion con delle armi e questo mi ha spinto ad andare.
– Continua...
Sono andato là, dai Mayi-Mayi, e dopo una settimana mia madre è venuta a trovarmi e mi ha chiesto di ritornare. Ho detto di no. Ho rifiutato perché se tornavo a casa sarebbero venuti a cercarmi e quelli che scappano li uccidono facilmente. Mia madre è tornata a casa. Un giorno due amici sono venuti a trovarmi dai Mayi-M...