La presa di potere dell'Inquisizione romana
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La presa di potere dell'Inquisizione romana

1550-1553

  1. 288 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La presa di potere dell'Inquisizione romana

1550-1553

Informazioni su questo libro

I primi anni Cinquanta del Cinquecento vedono uno scontro durissimo tra il Sant'Ufficio e papa Giulio III, sempre più in conflitto con gli inquisitori che di fatto non riconoscono la sua autorità, ma troppo debole e screditato per proporre una linea alternativa. La battaglia si apre con il lungo e drammatico conclave del 1549-50, quando Gian Pietro Carafa (il futuro Paolo IV) non esita a formulare esplicite accuse di eresia contro alcuni dei più autorevoli esponenti del sacro collegio. Forte del suo ruolo istituzionale di supremo difensore della fede, il Sant'Ufficio riesce a imporre il primato dell'ortodossia teologica su ogni altra considerazione di natura politica e pastorale, ergendosi così al rango di supremo tutore e garante della Chiesa e del suo magistero. A dispetto degli ordini del pontefice, l'Inquisizione continua ad accumulare prove e documenti processuali per eliminare i propri avversari anche avvalendosi delle denunce di persone screditate o di documenti falsi. Massimo Firpo tratteggia un quadro inatteso delle origini della Controriforma, colte negli aspri conflitti ai vertici della Chiesa di Roma, con esiti destinati a lasciare un segno profondo e duraturo sulla sua identità storica, teologica e pastorale.

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Informazioni

II. Giulio III, il Sant’Ufficio e il controllo della gerarchia ecclesiastica

1. Tra eretici e inquisitori

Allora sessantatreenne, dotato di solide competenze giuridiche ma privo di cultura teologica e di sensibilità religiosa, Giulio III portava sul trono la notevole esperienza di governo maturata durante il pontificato di Paolo III, ma anche una personalità inadeguata ad affrontare i gravi problemi che incombevano sulla Chiesa, dalla ripresa del concilio alla crisi di Parma, dalle sempre procrastinate riforme al diffondersi dell’eresia anche al di qua delle Alpi. Di carattere impulsivo e collerico, ma al tempo stesso mutevole e timoroso, spesso incerto nelle sue decisioni, era non di rado grossolano nei modi, tanto da ledere «il decoro della potestà grande e della suprema dignità ch’egli havea con leggiere et vane parole, non senza rossore di chi le udiva», avrebbe scritto Onofrio Panvinio, secondo il quale egli si era subito «volto tutto con suo gran piacere all’otio», rilasciando «al suo genio et a’ piaceri la briglia»250. Lungi dal dare qualche segnale di cambiamento, infatti, il nuovo papa volle festeggiare l’incoronazione con grandi feste e spettacoli che evocavano non tanto la fede cattolica quanto Giulio Cesare pontifex maximus251. Era un uomo sanguigno e vorace, ghiotto di sapori forti, di aglio, di cipolla, di carni grasse, che pagò con i tormenti della gotta che lo afflissero senza sosta. Amante del fasto e subito circondato da una corte di famelici parenti, diede fondo alle casse papali per finanziare non solo la guerra di Parma, ma anche la costruzione della residenza suburbana di villa Giulia, con i suoi affreschi raffiguranti divinità discinte, Bacchi ebbri di vino, fanciulli ignudi arrampicati su siepi fiorite. «Papa delitiatur, ut in eo genere Leonem decimum plane superet», scriveva il Vergerio, che non esitò a bollarlo come un vizioso e un bestemmiatore252, mentre come un goloso e un lussurioso lo presentò un virulento carme satirico in appendice alla traduzione di un testo di propaganda riformata edito nel 1551253. «Diede presto saggio qual dovesse esser il suo governo, consummando i giorni intieri ne’ giardini e disegnando fabriche deliziose e mostrandosi più inclinato a’ diletti che a’ negotii, massime ch’avessero congiunta qualche difficoltà», avrebbe scritto Paolo Sarpi254. Oggetto di critiche da parte del Carafa e dei cardinali più rigoristi fu anche la sua passione per la caccia, i buffoni di corte, gli spettacoli teatrali e soprattutto il gioco, al quale perdeva senza batter ciglio cospicue somme di denaro255, senza preoccuparsi della terribile carestia che affliggeva una Roma affollata all’inverosimile dai pellegrini venuti per il giubileo. Un dispaccio in cifra inviato a Ferrara il 30 luglio da Giulio Grandi presentava una situazione a dir poco desolante dei comportamenti di papa Del Monte a pochi mesi dall’elezione256:
Per Sua Santità non si attende né si pensa che darse bon tempo tutti in vedere a giocare alla primiera col suo cardinale De Monte et qualche uno altro familiare intrinseco. Banchetta continuo, hora invitato da questo hora da quello a vigne et a giardini, né se riffiuta invito; non se spedisce pur una minima facenda; ogni 20 giorni si fa signatura et medesimamente concistoro. [...] Vostra Excellentia mi perdoni che in effetto non posso scrivere altro se non quando vien fatto loro qualche banchetto. Questa vita così quieta che fine habbi da haver Iddio lo sa.
Le feroci pasquinate da cui fu bersagliato lo accusarono soprattutto di essere un «gran sodomito»257, anche a causa della chiamata nel sacro collegio di Innocenzo Del Monte, il «piccolo furfantello» che a Parma (città di cui era stato legato nel 1537-44) aveva accolto «in camera e nel proprio letto come se gli fosse stato figliuolo o nipote»258, facendolo adottare dal fratello Baldovino Del Monte e avviandolo a una carriera ecclesiastica della quale non sarebbe stato capace di salvaguardare neanche le apparenze. L’elevazione alla porpora di quel giovane dissoluto e violento, subito colmato di ricchi benefici ma del tutto inetto al ruolo politico che il papa cercò di affidargli, avrebbe indotto il Panvinio ad accusare il pontefice di essere «puerorum amorum implicitus», «nimis vitae luxuriae et libidinibus intemperanter deditus», e Paolo Sarpi a presentarlo come «più attento agl’affetti privati che alle pubbliche essigenze»259. Anche dopo la morte di Giulio III quell’impresentabile cardinal nipote non cessò di far parlare di sé e creare scandalo a causa delle meretrici di cui amava circondarsi, delle risse in cui fu spesso coinvolto e degli omicidi di cui si rese responsabile, fino a costringere Pio V a incarcerarlo260. Come fu subito chiaro dalla confusa gestione della guerra di Parma, assai incerti furono anche gli indirizzi politici del pontefice261, spesso influenzati dalla mutevole debolezza del suo carattere, dai tormenti della gotta o dagli svaghi che amava concedersi a dispetto delle urgenze politiche. Mentre gli eserciti di Enrico II di Valois si riaffacciavano in Italia, infatti, il signore di Algeri Khayr ad-Dīn detto Barbarossa, alleato del re di Francia, spediva le galere barbaresche a incrociare al largo di Napoli e Ostia, seminando il panico a Roma, dove ogni anno si attendevano con ansia le notizie sui movimenti della flotta turca di Dragut pasha. Del tutto casuale fu il principale successo del pontificato di Giulio III, e cioè la morte di Edoardo VI e l’ascesa di Maria Tudor al trono d’Inghilterra, che apriva la strada alla restaurazione cattolica con la designazione di Reginald Pole a legato papale e arcivescovo di Canterbury. Un successo fu anche la ripresa del concilio a Trento, che tra il maggio del 1551 e l’aprile del ’52 varò i decreti sui sacramenti già discussi a Bologna262. Esili furono invece le iniziative di Giulio III per la riforma della Chiesa, sebbene egli stesso si dicesse convinto che l’avversione per il clero nascesse «solo dalla avaritia che nei capi s’era mostra in questa corte, dalle non buone provisioni che facevano nel conferire i benefici et dal troppo luxo di detto clero»263. Il Seripando ne avrebbe commentato la morte osservando che, se il suo predecessore aveva sempre parlato di riforma della Chiesa senza mai farla, egli non ne aveva neanche parlato264. E così anche don Diego de Mendoza, che in una lettera al Granvelle del 14 febbraio diceva di temere che alla fin fine «no se diga por este pontifice: ‘Promittet multa, faciet pauca’»265.
In gran parte lettera morta restarono quindi le proposte di riforma riguardanti il sacro collegio, il conclave, la residenza dei vescovi, il clero regolare, l’ordinazione dei preti, la predicazione, le indulgenze, la Dataria, la Penitenzieria, la Segnatura avanzate dalla folta commissione De reformatione Ecclesiae istituita nel febbraio del 1550, che cominciò a riunirsi solo nell’autunno in vista della ripresa del concilio. Nel concistoro del 5 novembre Giulio III enunciò i suoi ambiziosi progetti, ma i lavori procedettero a rilento e le proposte che ne scaturirono furono formalizzate solo nella bolla Varietas temporum, attesa per la primavera del ’54 ma poi non pubblicata a causa della morte del papa l’anno dopo266. Il testo era articolato in ben 150 canoni, l’ultimo dei quali affidava il compito di sorvegliarne l’effettiva applicazione «illis cardinalibus qui pro tempore extirpandis hae­resibus et sanctae Inquisitionis negotio praefecti erunt», attestando così la subordinazione di ogni progetto di rinnovamento morale e pastorale al primato del Sant’Ufficio267. Era quanto aveva previsto Giovan Francesco Commendone nel lucido Discorso sopra la corte di Roma scritto all’indomani dell’elezione di papa Del Monte, dove affermava che in breve tempo i supremi inquisitori avrebbero seguito l’esempio degli antichi censori romani che, «fatti per un ufficio particolare, crebbero a tanto che potevano muovere ed alterare tutta la repubblica»268. L’elezione di Paolo IV avrebbe suffragato questo penetrante giudizio, che trova riscontro anche in quanto ebbe a scrivere il Seripando, egli stesso di lì a poco fatto segno di sospetti, sottolineando come quel tribunale, «moderatum et mite» sotto Paolo III, avesse a tal punto dilatato le proprie funzioni e la propria autorità sotto la guida del Carafa, «nulla humanitate aspersa», che «nullibi toto terrarum orbe horribilia magis magisque formidulosa iudicia esse existimarentur, quae iusta omnino et honesta censenda sunt si ea fuerint charitate condita quam Christus Iesus, mortalium omnium a Deo patre iudex constitutus, et docuit et exercuit»269.
Come si è visto, fu il conclave del 1549 a segnare un momento decisivo nel trionfo della strategia inquisitoriale, volta a subordinare la riforma della Chiesa alla lotta contro l’eresia che sin dagli anni trenta il Carafa aveva posto al centro della sua azione, nella convinzione che essa andasse sconfitta anzitutto nella curia romana, dove aveva assunto le elusive sembianze valdesiane. Il sotterraneo scontro, iniziato ancor prima della bolla Licet ab initio e via via aggravatosi nel decennio successivo, si manifestò allora in tutta evidenza, con i sospetti e le insinuazioni ormai diventate esplicite accuse e usate come micidiale arma nella lotta che si combatteva ai vertici della Chiesa sugli obiettivi, i modi, gli strumenti con cui affrontare la grave crisi che essa stava attraversando. Già in occasione delle tese discussioni curiali per la traslazione del concilio a Bologna, per esempio, nell’agosto ...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. I. Il Sant’Ufficio in conclave
  3. II. Giulio III, il Sant’Ufficio e il controllo della gerarchia ecclesiastica
  4. III. L’offensiva antivaldesiana e i processi contro Reginald Pole e Giovanni Morone
  5. IV. Domenicani ed eretici
  6. V. Strategie inquisitoriali. Marcello Cervini e Gian Pietro Carafa
  7. Abbreviazioni e sigle