Bea vita! Crudo Nordest
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Bea vita! Crudo Nordest

  1. 106 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Bea vita! Crudo Nordest

Informazioni su questo libro

Niente canne, né spleen, né amori perduti nel crudo Nordest.Ci sono milioni di italiani a cui questo paese piace esattamente così comè. Sono piccoli imprenditori che hanno fatto fortuna prima della crisi, oggi alle prese con crediti in sofferenza e fatture difficili da scontare. Sono famiglie totalmente assorbite dallimpegno di mandare avanti il lavoro, lattività, abituate a giudicare severamente il conflitto e la divagazione. Persone che credono nel denaro e nella possibilità del successo per chiunque sia disposto a sacrificarsi. Sono giovani precarie che scrutano nelle vetrine scarpe e vestiti dai prezzi esorbitanti, del tutto fuori portata per loro, oppure ragionieri quarantenni di formazione cattolica e simpatie leghiste. Sono donne animate da unallegria costante, trascinante, un po robotica. Sono gli abitanti delle ville fortificate sparse ovunque nella Pianura Padana. Romolo Bugaro entra nelle loro menti e nelle loro case e racconta il vero corpo di unItalia satura di presente e felice di esserlo.

Domande frequenti

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Informazioni

III. Bea vita!

Anni fa dividevo lo studio con un amico-collega. Una persona intelligente, un po’ chiusa e decisissima a far carriera.
Pur essendo avvocati alle prime armi, avevamo un ufficio piuttosto grande, dove lavoravano parecchi praticanti. Avevamo stabilito di partire a razzo (soprattutto lui).
La mia stanza si trovava in fondo a un breve corridoio, davanti alla segreteria. Sentivo squilli di telefoni, echi di voci, ronzii di stampanti e computer. Avere una segretaria che appariva sulla porta se chiamavi, che scriveva sul blocco se dettavi, era come distendersi sulla sabbia nel pieno sole del mezzogiorno: un piacere faticoso e una forza trasformatrice in grado di agire dall’esterno. Dalle finestre vedevo le facciate grigioazzurre dei palazzoni Antonveneta e le gru dei cantieri disseminati ovunque e il traffico caotico in direzione Fiera. Tutto appariva innervato di luce e privo di spazi neutri nelle maglie fittissime delle urgenze, degli interessi. La cifra esatta dell’indirizzo che stava prendendo la mia vita.
La stanza dell’amico-collega era accanto alla porta d’ingresso. Una grande libreria a parete doveva rassicurare i clienti quanto alla competenza dell’uomo al quale si erano rivolti, nonostante la sua giovane età. Dalle finestre vedevi il parcheggio di via Trieste, sempre intasato di berline in manovra e furgoni della Executive coi portelloni posteriori spalancati per scaricare pacchi o scatoloni e vecchi tossici sdentati, stravolti, in attesa del solito pusher maghrebino.
Eravamo al debutto, preoccupati e desiderosi di vendere cara la pelle. Un paio di volte al mese controllavamo i conti. Affitto, spese condominiali, bollette, segreteria, cancelleria. Per fortuna quadravano abbastanza.
Allora come adesso, la mia vita era scandita da ritmi piuttosto rigidi: dalle otto del mattino alle tredici e trenta scrivevo. Dalle quattordici alle diciannove e trenta stavo in studio. Dopo ero libero, relax.
Dunque, verso le sette e mezza raccoglievo chiavi e telefonino e portafoglio e casco, spegnevo il computer e mi dirigevo verso l’uscita.
Sulla porta dello studio era installato un meccanismo d’apertura elettrico. Premendo un pulsante rosso, il chiavistello scattava rumorosamente. Appena quel Clack! echeggiava nell’aria, dalla stanza dell’amico-collega partiva una frase in dialetto veneto. Sempre la stessa, tutte le sere: Bea vita!
Bella vita. Sottintendeva che uscivo presto. Che mi preoccupavo abbastanza poco di rivedere atti, controllare fascicoli, studiare sentenze. Meno di quanto avrei dovuto? Di certo meno di lui.
L’amico-collega restava in studio molto più a lungo. Fino alle nove, alle dieci, alle undici.
Stava lì – mioddio – sempre!
Ogni sera la stessa storia. Arrivavano le sette e mezzo. Spegnevo il computer. Mi dirigevo alla porta. Il maledetto congegno sprigionava quel Clack! e l’amico-collega sprigionava il commento.
Bea vita!
Cominciavo a sentirmi in colpa. Rinviavo l’orario d’uscita. Aspettavo le sette e tre quarti. Le otto. Aspettavo che l’amico-collega prendesse una telefonata. Che ricevesse una persona. Sgattaiolavo fuori come un ladro.
Era implacabile. Interrompeva il colloquio, la telefonata. La sua voce arrivava dalla segreteria, dalla sala riunioni, dallo sgabuzzino in fondo.
Bea vita!
Ero trafitto da quella frase. Segnava la distanza incommensurabile fra il sottoscritto e l’ala più combattiva e determinata del terziario avanzato. Chi stacca alle otto di sera? Gli indolenti. I mediocri. Gli smidollati. Il professionista in gamba sviluppa tutt’altra potenza di fuoco. Accetta la fatica. La tensione. L’impegno. Lavora senza badare ad orari. Giorno e notte. Difficile costruire qualcosa di importante, con l’occhio sull’orologio.
Padova è una città dolce, sospesa, bellissima. D’autunno i bagliori dei lampioni affiorano sul selciato lucido d’umidità e svaniscono liquidi davanti ai tuoi passi. Le vetrine dei negozi, incastonate al pianterreno dei palazzi medievali, creano improvvise microfratture nella struttura del tempo. Alle otto di sera puoi sederti al bar Duomo con un bicchiere di vino bianco fumando la prima Marlboro della giornata o comprare un cartoccio di castagne in piazza della Frutta o semplicemente fare una passeggiata, guardare le saracinesche che chiudono e le ragazze carine, stellanti, affrettate, che corrono agli appuntamenti serali. È come immergersi nell’acqua tiepida, una sensazione magnifica di riposo e azzeramento, libertà da te stesso.
L’amico-collega respingeva tutto questo. Lavorare fino a tardi era un piacere più sottile, più raffinato. Sfruttare ogni grammo di energia per andare avanti, migliorare, mentre gli altri, la maggioranza, perdevano tempo. Competere coi migliori, costruire e combattere: ecco la gratificazione vera, altro che piazze e passeggiate!
Era quasi del tutto indifferente al denaro. I soldi rappresentavano la copertura, il salvacondotto per pulsioni più profonde. Semplici marcatori di percorsi e distanze, come le boe nelle regate.
Spesso le motivazioni degli sforzi colossali sono infinitamente piccole. Il ricordo di persone lontane, di sensazioni sigillate nella memoria. Si può vivere un’intera vita lottando contro ombre uscite di scena trent’anni prima oppure nel tentativo di imitare figure appena sfiorate, che mai sospetterebbero d’aver rappresentato modelli tanto importanti.
Lavorando quindici ore al giorno, sommerso da telefonate e fax e mail certificate e contratti da redigere e atti da depositare, l’amico-collega metteva ordine nel passato, modellava la propria fisionomia più intima e produceva un’accelerazione costante che gli permetteva di sentirsi oltre la fatica, la paura, il bisogno, la realtà stessa.
Un giorno è entrato nella mia stanza con aria scura. Sapevo cosa veniva a dirmi. Aveva bisogno di assumere altre segretarie, altri avvocati e praticanti. Gli serviva più spazio. Aveva messo gli occhi su un ufficio grande il doppio del nostro. Cosa volevo fare? Restavo o andavo con lui?
«Siamo qui da sei mesi» avevo detto. «Sembra un po’ presto, per cambiare.»
Non era presto. Era tardi. Gli serviva più spazio.
Impossibile sostenere un’accelerazione del genere. Dividersi è spiaciuto a entrambi. Nonostante tutto ci sentivamo legati.
Questo accadeva parecchi anni fa. Adesso lui gestisce uno studio di venti o trenta persone, con ottimi clienti e ottime entrate. Immagino stia lì fino alle dieci, alle undici di sera, esattamente come allora. Immagino sia sommerso da telefonate e appuntamenti e impegni d’ogni tipo. E immagino la sua tristezza senza nome, silenziosa come la neve che cade, perché la missione ha avuto successo, l’obiettivo è stato raggiunto, impossibile soffrire come all’inizio, mantenere l’accelerazione.
Le coppe conquistate troneggiano sullo scaffale, è venuto il momento di godere dei risultati, prendere qualche momento di riposo. C’è la famiglia, la vita sociale, il Natale a New York. Infinite possibilità a portata di mano.
Un esercizio doloroso. Avrebbe preferito un rally ininterrotto, fino all’ultimo secondo. Il suo unico interesse era la massima velocità.
L’intero Nordest è la terra del superlavoro. Popolato di persone abituate a spingere senza un attimo di tregua, costantemente disponibili all’oltrepassamento dei propri limiti di resistenza.
Simili a pesci del corallo, hanno forme e colori d’ogni genere. Alcuni sono elegantissimi nei loro completi blu notte, vivacizzati dalla cravatta chiara di Hermès o dal fazzoletto da taschino. Altri preferiscono maglioni a collo alto, giacche di velluto, jeans. Altri ancora si mimetizzano sul fondale roccioso grazie a felpe da grande magazzino, scarpe dozzinali.
Tutti si svegliano all’alba per via dell’abitudine e dell’attitudine al lavoro. Verso le sette arrivano in azienda. Producono macchine movimento terra o sieri per l’industria agroalimentare o pellets per il riscaldamento domestico. Negli uffici deserti, fra telefoni muti e computer spenti, provano un senso di riposo e rigenerazione: le cose immobili, in attesa del tocco che le riporti in vita, sono il risultato di vent’anni di attività, la prova dell’immensa quantità di fluido transitata ogni giorno, senza incidenti, attraverso la turbina, mantenendo l’efficienza del sistema.
Siedono alla scrivania. Verificano mail, lettere e fax del giorno precedente. Controllano ordini e movimenti di conto corrente. Hanno bisogno di spulciare, riscontrare, confrontare, per impedire al caos che preme da ogni lato di prendere il sopravvento e per distanziarsi, attraverso la dilatazione dei dettagli, dalle preoccupazioni d’insieme.
Le giornate sono incandescenti. Sequenze di telefonate, incontri, colloqui più o meno difficili con dipendenti, collaboratori, fornitori, funzionari dell’Arpav, dell’ufficio tecnico, della conservatoria, documenti da cercare, fotocopiare, scannerizzare, inviare in pdf entro la mattinata, firme su lettere, contratti, accordi di puntuazione, visite-lampo al direttore di banca, al notaio, al direttore lavori del cantiere.
Sono uomini di destra. Amano Berlusconi e Tremonti. Soprattutto Tremonti. Persone diverse dai soliti politici. Pratiche di crediti d’imposta, ammortamenti, sconti fatture. In grado di capire problemi e difficoltà della vita sul campo.
Qualsiasi cosa dicano Berlusconi e Tremonti, sono salvaguardati dalla loro storia, dalle loro cicatrici. Non conta cosa fanno in concreto. Conta soltanto la certezza che si tratta di gente amica.
Conducono pochissima vita mondana. Si sottomettono a qualche ricevimento o inaugurazione ogni tanto. Arrivano direttamente dall’ufficio con la giacca stropicciata. Pescano un bicchiere di vino bianco dal vassoio, sgranocchiano una cialda tiepida al parmigiano. Si sentono a disagio. Pesci fuor d’acqua. Stanno incollati alla moglie o alla compagna. Appena possibile sgattaiolano via. Abituati alla centralità, resistono ben poco come figure semianonime in mezzo alla gente.
Conoscono bene le zone grigie del lavoro. Funzionari della Regione disponibili a dare una mano. Concorrenti abituati a discutere in concreto il ribasso della gara. Stare sul mercato è difficile, basta niente per cadere. Impossibile giocare la partita con fair play.
Alcuni vengono traditi dallo sforzo. L’artiglio è vicino, può colpire in ogni momento. La tensione finanziaria era un problema di vecchia data, una tradizione aziendale. Sembrava facile mantenerla sotto controllo.
Un bel giorno il debito s’impenna. Fidi e castelletti non bastano più. Il funzionario della banca telefona alla segretaria dicendo che bisogna rientrare di cinquanta, di settanta, di centoventi entro la settimana. Cos’è successo? L’impatto negativo di un evento viene moltiplicato in modo esponenziale da circostanze apparentemente secondarie. Una modifica del piano regolatore subito dopo l’apertura del cantiere. Il siluramento del dirigente della società di leasing quando il riscatto stava per essere rinegoziato.
L’avvento della difficoltà suscita una reazione immediata. Appuntamenti e telefonate e trasferte si moltiplicano. La posta elettronica si intasa di messaggi. Impiegati e segretarie corrono da un ufficio all’altro con documenti da fotocopiare e cd con file da stampare e fascicoli da riporre. Nell’aria si a...

Indice dei contenuti

  1. I. Che ci faccio in questo posto?
  2. II. Via San Fermo
  3. III. Bea vita!
  4. IV. Non proprio organici all’ordine generale delle cose
  5. V. Ancora via San Fermo
  6. VI. Duemilacentoquaranta euro per quattordici mensilità
  7. VII. La tara dei non-insediati
  8. VIII. Congedo