
- 208 pagine
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
Negli ultimi decenni il ritmo del cambiamento si è accelerato e la società è andata incontro a problemi nuovi: non sembra più possibile far crescere insieme sviluppo economico, coesione sociale e qualità democratica.Il libro individua alcune tappe fondamentali della trasformazione e delinea alcune 'scene del cambiamento', dove oggi si giocano le possibilità di nuovi equilibri. Il fuoco è sull'Italia, ma in modo comparato, con attenzione alle trasformazioni più generali di economia e società , in riferimento a ricerche e teorie che permettono di interpretarle. È una storia per racconti esemplari, uno sguardo da vicino al laboratorio di uno dei più noti sociologi italiani.
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Informazioni
Argomento
Ciencias socialesCategoria
SociologÃa1. Resistenze allo sviluppo e varietà regionale
Questo primo capitolo è dedicato a tre libri che riguardano la varietà regionale dell’Italia e le resistenze allo sviluppo, a partire dal problema del sottosviluppo del Meridione. Le differenze regionali hanno attivato di recente preoccupanti dinamiche politiche, che mettono in difficoltà la coesione territoriale del paese, evocando persino minacce di secessione. Al persistere di una «questione meridionale» si contrappone polemicamente una «questione settentrionale». Parleremo di questi sviluppi nell’ultimo capitolo. Il richiamo e la critica di ricerche emblematiche degli anni passati, che si trovano in questo capitolo, preparano il terreno alla attuale discussione sul modo in cui si ripresentano fenomeni di lunga durata.
Inchieste e riflessioni sulla questione meridionale sono state sicuramente una delle radici originarie più importanti della sociologia italiana; l’attenzione alla questione rimarrà con le successive ricerche più propriamente di scienze sociali e di sociologia che, nel secondo dopoguerra, si affiancheranno a studi storici.
Il nostro Meridione ha attirato anche l’attenzione di ricercatori stranieri interessati a capire, in genere, il ritardo della modernizzazione dell’Italia, che usciva allora dall’esperienza del totalitarismo politico e, in particolare, la grande sacca di arretratezza che rappresentava in Europa, con il suo peso e i suoi rischi. Si trattava di specificità del nostro caso che, guardando da fuori, saltavano subito agli occhi. Confrontarsi con la letteratura di ricerca e teorica internazionale diventava un utile esercizio, e permetteva anche di aprire interessanti prospettive comparative.
Solo anni dopo emergerà con altrettanta forza all’attenzione internazionale un altro tema riguardante le vie della modernizzazione: lo sviluppo a economia diffusa, vale a dire basato su sistemi di piccole e medie imprese industriali, che farà dell’Italia un caso di studio, spesso citato. Si trattava di importanti novità , che preannunciavano in certa misura la crisi dell’economia e della società industriale come l’avevano conosciuta i paesi del capitalismo avanzato. Per l’Italia, che sembrava essersi incamminata, anche se in ritardo, per questa strada, erano diventate evidenti presto le difficoltà : il modello fordista-keynesiano di società industriale (così si cominciò a nominarlo a un certo punto) non aveva successo più di tanto, nel senso che la grande industria non mostrava capacità di facile diffusione fuori dalle regioni del triangolo del Nord-Ovest, neanche con il forte e inizialmente per molti aspetti modernizzante impulso del diretto intervento statale con imprese a proprietà pubblica; di conseguenza, si discostavano per molti aspetti dal modello sia la struttura che la società andava assumendo, sia le istituzioni di regolazione dell’economia.
Nel prossimo capitolo parleremo della novità inattesa dell’economia diffusa; ora basta anticipare che quella fu anche una sorpresa regionale, che mostrava altri aspetti della varietà regionale dell’Italia: entrarono allora sulla scena dello sviluppo quelle aree del Centro e del Nord-Est del paese che spesso saranno indicate come una «Terza Italia», distinguibile in forma di modello per i suoi caratteri particolari rispetto a Nord-Ovest e Mezzogiorno. Si confermava così l’importanza di analisi differenziali della nostra società , e si intuivano vie diverse di sviluppo e modernizzazione; diventava poi evidente che chi – come i sociologi – voleva ragionare per modelli doveva pensarli regionalmente articolati, utili per orientare significative indagini più particolareggiate, ma anche per delineare immagini di insieme più realistiche dell’economia e della società nazionale.
I tre libri di cui si parla in questo capitolo ricordano prospettive diverse di ricerca sul Mezzogiorno; più in generale, introducono al tema delle differenze regionali.
Il libro di Edward C. Banfield, una ricerca degli anni Cinquanta, è una interpretazione culturalista del sottosviluppo meridionale, che riporta la spiegazione del ritardo, ma soprattutto delle resistenze al cambiamento, alla mentalità e al costume della popolazione; l’indagine riguardava un piccolo paese della Lucania, e lo sguardo era tutto interno alla società locale.
Il modello di Giuseppe Bonazzi, elaborato nel secondo libro, è invece una interpretazione strutturalista, che chiama in causa differenze di potere e di strategie economiche. Sono passati diversi anni, c’è stato il miracolo economico, e sono state avviate politiche per la crescita anche al Sud: l’Italia non è più ferma, neanche nei suoi punti periferici; e tuttavia ritardi e distorsioni nella crescita cominciano a vedersi e, per spiegarli, sempre meno si può semplicisticamente pensare solo alla vischiosità della tradizione. Viene qui presentata la prospettiva del dualismo territoriale, che, a partire di nuovo da uno studio di caso, addebita alla struttura dei rapporti Nord-Sud il mancato o, meglio, il distorto sviluppo del Meridione.
Infine, il più recente, importante studio di Robert D. Putnam sulle regioni italiane riprende esplicitamente Banfield e propone una più articolata immagine regionalizzata dell’Italia che avrebbe alla radice differenze originarie, mai superate; per quanto si mostri una varietà regionale che ormai non può ridursi al dualismo Nord-Sud, non si sfugge all’impressione che lo schema interpretativo dell’Italia sia cresciuto proprio a partire da particolarità del Sud, e che questa matrice condizioni l’architettura complessiva dell’analisi.
Vedremo l’interesse e i limiti di queste interpretazioni. Va però anche detto che in questo primo capitolo sono in realtà evocate due questioni rilevanti di continuità della società italiana: gli scompensi territoriali cui si è accennato, ma anche il ruolo importante della famiglia nella struttura complessiva della società .
La ricerca del politologo americano (spesso citato come antropologo o sociologo) Banfield merita attenzione anche per questo secondo aspetto. Come vedremo, egli era interessato a costruire una teoria delle resistenze alla modernizzazione, e la comunità studiata fu per lui un caso paradigmatico che servì a sostegno di una tesi che vedeva nella mancanza di cultura civica la determinante delle resistenze. La tesi di Banfield ebbe una grande eco in America, e il concetto cardine della ricerca, «familismo amorale», di cui dirò subito, è diventato addirittura un termine del vocabolario corrente in Italia. Ne derivò come conseguenza che gli italiani in genere, visti da fuori, facilmente potevano essere etichettati come privi di cultura civica adeguata, mentre in Italia questo veniva fatto valere in primo luogo per i meridionali, ma con la confusa sensazione che in qualche misura l’immagine potesse valere per tutti.
In effetti, pochi libri hanno generato un’immagine di cose italiane così capace di fissarsi nel senso comune e così pervasiva di aspetti diversi di realtà ai quali riferirla, sino a diventare un’immagine dell’Italia nel suo insieme per noi e per chi ci guarda da fuori, quanto The Moral Basis of a Backward Society. Non si trattava, in realtà , di una immagine e di idee nuove, ma di ciò che appariva come una sorta di definitiva loro codificazione, sintetizzata, come dicevo, nel concetto di «familismo amorale»; concetto che individuava, come radicata nella profondità della cultura, la regola di comportarsi in modo da massimizzare gli interessi materiali immediati della propria famiglia, nella convinzione che tutti gli altri si comporteranno alla stessa maniera, senza alcuna sensibilità a cooperare per il bene comune. Familismo amorale significa dunque anche mancanza di cultura civica, che troverebbe qui la radice ultima. C’è qualcosa di paradossale nel fatto che uno sperduto, poverissimo paese dell’Italia meridionale abbia avuto una tale capacità di rappresentazione e uso allargati, prestandosi a essere considerato una cellula del tessuto culturale del paese. Proprio questo è avvenuto: la sindrome culturale del familismo amorale, che Banfield ritenne di individuare a Montegrano, è diventata un modo con cui pensare una tara che ci porteremmo dietro tutti noi italiani, rintracciata in una specie di cellula staminale ancora indifferenziata, che ha poi dato origine alle forme sociali sviluppate, variate e specializzate, della nostra incerta modernizzazione. A onor del vero, Banfield non pensava a una interpretazione estesa a tutto il Mezzogiorno, e tanto meno all’Italia. Ma tant’è.
Il nostro percorso su temi e autori del cambiamento sociale comincia da qui, con l’introduzione scritta per una recente riedizione italiana dello studio di Banfield. Si vedrà una ricostruzione del suo modello, e saranno indicate alcune critiche circostanziate. Voglio solo aggiungere che se bisogna guardarsi dall’uso estensivo e metaforico che spesso ne ha accompagnato la diffusione nel lessico corrente, mi sono convinto che l’idea di familismo amorale può essere anche una potente arma di critica sociale, anche più tagliente di quanto non sia quando attrezzata per politiche conservatrici, come fa Banfield, o solo usata per cercare di capire il Mezzogiorno. Naturalmente si tratta di ripulirla e ripensarla a misura della società di oggi. Ne parleremo nel quarto capitolo.
1.1. Edward C. Banfield: il familismo amorale
1.1.1. Una ristampa utile. A metà degli anni Cinquanta, il paese di Chiaromonte, in Lucania, è stato l’ambiente e l’oggetto di studio di Edward C. Banfield, un ricercatore americano destinato a diventare un influente accademico del suo paese. Le tesi sviluppate nel libro, pubblicato in America e poco dopo in Italia, gli hanno dato ampia notorietà [1]. Chiaromonte è così entrato negli annali delle scienze sociali con il nome di Montegrano, perché è usanza dei ricercatori che studiano una comunità di cambiarle nome, per ragioni di discrezione e per orientare lo studio a letture più teoriche e meno individualizzate.
Chiaromonte a fine 2004 contava 2108 residenti, facenti parte di 847 famiglie, con una dimensione media per famiglia di 2,5 persone. Al primo gennaio del 2002 la popolazione era di 2139 persone. In tre anni, dunque, la popolazione è diminuita di 31 unità , circa dieci ogni anno.
All’epoca della ricerca, a metà degli anni Cinquanta, Montegrano contava 3400 abitanti, poco di più della popolazione nel 1862: 3240 abitanti. La diminuzione della popolazione si verifica dunque negli anni della crescita economica dell’Italia, nel secondo dopoguerra, e un certo stillicidio continua. La famiglia nucleare, carattere strutturale di fondo al quale si riferiva la ricerca, continua, come abbiamo appena visto, a permanere.
Un sito, che oggi illustra le attrattive di Chiaromonte, ricorda una lunga e tormentata storia iniziata con un insediamento risalente all’età del ferro, che si conclude così:
altre [notizie], d’interesse sociologico sul paese e sui suoi abitanti, è possibile trovarle su Le basi morali di una società arretrata di Edward Banfield [...] che proprio su Chiaromonte, da lui denominato Montegrano, elaborò una tesi sociologica. Il testo ampiamente dibattuto e contestato negli anni Settanta è adottato in università americane: a distanza di cinquant’anni, dimostra la sua attualità . Il paese conserva, in modo anche inquietante, un ethos strutturato.
La frase finale è enigmatica, e sollecita curiosità più che fornire un’informazione documentata. Il testo offre anche, e giustamente, un’idea della diffusione del libro, le cui tesi – si può aggiungere – hanno avuto e continuano ad avere un’eco allargata, anche fuori dell’accademia. Addirittura, l’espressione familismo amorale, introdotta da Banfield per spiegare l’arretratezza, o per meglio dire la mancanza di reazione all’arretratezza, di Montegrano, è diventata di uso corrente per etichettare fenomeni disparati; è diventata persino un modo di individuare il presunto difetto fondamentale dell’Italia, per molti che dall’estero pensano al nostro paese.
Come ricordava anche il sito prima citato, dopo la sua pubblicazione la ricerca è stata molto discussa, in particolare in Italia, anche da ricercatori stranieri che hanno lavorato sul nostro Mezzogiorno.
Un primo punto da notare è il significato diverso che il libro ha assunto nel nostro paese, dove è stato letto direttamente in riferimento alla questione del Mezzogiorno e per le implicazioni che ha avuto sugli stereotipi della cultura nazionale, e invece in America, dove è diventato un riferimento importante a sostegno di più generali interpretazioni conservatrici della società e delle politiche pubbliche, insieme ad altri contributi dell’autore altrettanto o forse più noti e discussi, su temi diversi. Quanto a Banfield, come vedremo, Montegrano rappresenta per lui una tappa decisiva della sua inquieta ricerca, che lo porta da posizioni giovanili vicine alla tradizione pianificatrice del New Deal a posizioni diametralmente opposte.
Un secondo aspetto preliminare da notare è che, in Italia, si assiste a critiche più o meno dure e convergenti alla ricerca, insieme anche ad apprezzamenti, specie di ricercatori stranieri che da noi hanno lavorato; negli Stati Uniti si riscontra invece una più netta polarizzazione: critiche, ma all’opposto anche enorme considerazione; James Q. Wilson, per esempio, professore emerito dell’Università della California, non esita a definire il libro uno dei grandi classici della scienza sociale moderna[2].
Per quel che mi riguarda, condivido buona parte delle critiche, ma ho l’impressione che non ci si possa liberare facilmente di Banfield; ho il sospetto che anche molti dei più accesi critici nutrano la sensazione di avere a che fare con una specie di fantasma nascosto in qualche parte della casa, pronto a saltar fuori quando e dove meno ci si aspetta. Diciamo meglio: molte e decisive riserve facilmente vengono alla mente leggendo oggi la ricerca a Montegrano, tuttavia bisogna riconoscere che si tratta di una ricerca con la quale è necessario comunque misurarsi, e in modo non banale.
Farò qui alcune riflessioni, sollecitate da una rilettura del libro a distanza di tempo. Il loro filo conduttore è appunto la durata dell’interesse, la continuità delle citazioni, anche in Italia, dove altri libri così criticati sarebbero forse stati messi da parte; studiosi venuti da fuori continuano a usarlo, come un punto di sicuro riferimento.
Va detto subito che la polarizzazione di critiche e consensi, evidente negli Stati Uniti, non riguarda soltanto la ricerca a Montegrano, ma i lavori di Banfield nel loro insieme, con stessi toni convinti e spesso accesi; a parte considerazioni più direttamente scientifiche, ciò è certamente collegato al forte e diretto impatto politico e ideologico del pensiero di uno studioso indipendente, ma diventato conservatore dichiarato e polemico. Vorrei ancora aggiungere che Banfield sembra aver sempre parlato non tanto ad altri studiosi, quanto ai politici, e soprattutto a una opinione pubblica conservatrice da sostenere nelle sue ragioni e convinzioni profonde, con quelle che dal suo punto di vista erano argomentazioni empiricam...
Indice dei contenuti
- — dedica
- Introduzione. Cosa si può trovare nel taccuino
- 1. Resistenze allo sviluppo e varietà regionale
- 2. Fra economia e società nel capitalismo che cambia
- 3. Il lavoro teorico
- 4. La nostra modernizzazione: qualche idea per continuare il lavoro
- Appendice. La cifra della sociologia