L'ermeneutica
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L'ermeneutica

  1. 136 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'ermeneutica

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Una chiara e originale trattazione dei problemi e degli interrogativi dell'ermeneutica, uno stile filosofico che ha caratterizzato la cultura contemporanea.

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Informazioni

Essere e interpretazione

Fatti e interpretazioni

Prendiamo la frase «Non ci sono fatti, solo interpretazioni». Essa certo ci dice qualcosa, ma ciò che enuncia sembra essere piuttosto «Non ci sono solo fatti, ma anche interpretazioni». Proviamo ora a sostituire fatti con gatti. La frase «Non ci sono solo gatti, ma anche interpretazioni» è fin troppo ragionevole, mentre quella «Non ci sono gatti, solo interpretazioni» difficilmente potrebbe essere condivisa persino da Berkeley. Ora, come si sia potuti venire a parlare di una interpretazione universale, che appare costitutiva degli stessi fatti, Heidegger lo spiega chiaramente, nella sua lettura di Nietzsche offerta negli anni Trenta, e che poggia sulla nozione di «storia della metafisica». Heidegger mutua il suo argomento dal Crepuscolo degli idoli (1888) di Nietzsche, che a sua volta lo aveva tratto dalla Storia critica del materialismo (1866) di Friedrich Albert Lange; e la storia – per sommi capi – è questa.
Molto presto, pressappoco con Platone, i Greci hanno incominciato a dimenticare l’essere, confondendolo con le cose, ossia con gli enti presenti e manipolabili. L’essere è divenuto allora un oggetto sottoposto alle volontà politiche dei soggetti, e attraverso la filosofia moderna – da Cartesio a Leibniz a Kant – si è imposta la nozione che Nietzsche avrebbe portato pienamente alla luce, ossia che l’essere non c’è (onde siamo nel nichilismo) e che esiste solo la volontà di potenza dei più forti, che impongono il loro dominio sul mondo. A questo punto, certamente, non ci sono più fatti, bensì solo interpretazioni; né filosofia, in quanto discorso su ciò che c’è, ma storia e politica, come descrizione del modo in cui si manipolano le opinioni, che è tutto ciò che resta una volta che l’essere non c’è più. Heidegger, è vero, dice anche che bisogna cercare di pensare nuovamente l’essere di cui da Platone in poi ci si è dimenticati; tuttavia non dice come, dunque possiamo lasciare da parte questo aspetto.
La storia ha tre difetti fondamentali.
Il primo è che è alquanto monocorde. Tutta la filosofia non sarebbe che un unico percorso, nel quale – indipendentemente dalle lingue, dalle storie e dalle vicende dei singoli pensatori – si pensa solo a questo, la potenza, dimenticandosene regolarmente solo un’altra grossa ben più di una casa, l’Essere; ma una buona storia della filosofia è chiamata a rendere ragione della singolarità delle posizioni, e soprattutto a non pensarsi come una specie di destino contro cui nessuno può opporsi (Heidegger è anche influenzato da Spengler, il quale, tra il 1918 e il 1922, nel Tramonto dell’Occidente, aveva pensato alla storia precisamente nei termini di una fatalità biologica, invece che come campo della libertà umana).
Il secondo è che – per via del suo carattere irrealmente unitario – il racconto attribuisce ai Greci degli atteggiamenti che, nella migliore delle ipotesi, possono essere solo dei cristiani, e che comunque solo tra i moderni non risultano anacronistici. Aristotele non pensava che il mondo fosse stato creato; riteneva che ci fosse da sempre, e l’essere, per lui, era la presenza di qualcosa di fronte ai sensi di qualcuno. I Greci in generale vedevano le cose in questo modo, e solo Platone, nel Timeo, aveva avanzato l’ipotesi di un demiurgo, di un dio artigiano (perciò diverso dal Creatore della Bibbia, che non fabbrica, bensì trae dal nulla) che costruiva il mondo usando delle forme geometriche. Ma, anche in questo caso, aveva posto che qualcosa dovesse preesistere all’attività del demiurgo, ossia uno spazio (chora) che assicurasse la materia per la costruzione. Comunque si era meritato la censura di Aristotele, nella Metafisica, in base all’ovvio argomento per cui non si vede in che modo da punti inestesi si potessero trarre delle linee, indi da linee lunghe ma non larghe dei piani che sono anche larghi, e soprattutto da piani che risultano solo lunghi e larghi si riescano a ricavare dei solidi dotati di profondità. Ma va detto che lo stesso Platone aveva offerto la sua descrizione come un mito, non come un oggetto di scienza. È ovvio che per i cristiani le cose vanno diversamente. In sei giorni Dio ha creato il mondo traendolo dal nulla. Certo, in termini umani, molte cose non si capiscono: dove stava Dio? chi gli obbediva quando disse «e sia la luce»? soprattutto: in che lingua parlava? era un linguaggio privato? però qualcuno lo aveva capito, dunque qualcun altro c’era, ecc. Si tratta, ovviamente, di un miracolo. Agli uomini non riesce. C’è però una sfera in cui l’attività umana è molto simile a quella di Dio, ossia l’ambito della geometria e della matematica. Il geometra non copia le proprietà delle figure da quanto vede in natura, bensì costruisce a partire dal proprio pensiero; il limite, però, come si è tradizionalmente osservato, è che il geometra (per Platone come per Vico e per Kant) non compie nulla di reale, il suo manufatto esiste solo nel pensiero, e per esistere nella realtà abbisogna di materia. Come il geometra è tuttavia ogni uomo nell’ambito della sua attività pratica, ossia in ciò che può fare in quanto essere libero (è necessario ipotizzare la libertà, altrimenti ogni assassino dovrebbe essere assolto, non avendo agito, bensì patito sotto il peso di una costrizione). Posso decidere di fare il bene o il male, o semplicemente di fare o di non fare qualcosa; per Kant, questa sfera concerne un mondo intelligibile, che non ha nulla da spartire col sensibile, ma semplicemente si riflette in esso, attraverso la storia. Se però si decide che noi possiamo non solo agire moralmente e costruire geometricamente, ma persino istituire la stessa natura, allora possiamo davvero parlare di volontà di potenza. Solo, questa decisione non ha avuto luogo né tra i Greci né in Cartesio o in Kant, bensì solo in Fichte, in Schelling e in parte in Hegel quando erano molto giovani. Se (come voleva Kant) tutto il mondo esterno è fenomeno, ossia qualcosa che appare ai nostri sensi e che è costruito nella sua apparenza da noi; e se (come Kant non pensò mai) il fenomeno è una pura proiezione dell’io, un’ombra con nulla dietro di sé, allora il mondo è una favola, ed è la sfera in cui si esercita la volontà di potenza. Insomma, il ragionamento di Heidegger risulta inconcepibile prima di Fichte, e inoltre ci sono forti motivi per pensare che Fichte avesse torto.
Il terzo difetto della parabola è poi che essa pare il meno adatto dei rimedi per lenire un male di cui del resto ingrandisce importanza e antichità. Non si capisce perché, al tempo stesso, Heidegger rivendichi la necessità di pensare veramente l’essere, superando la deriva nichilistica, e punti proprio sul costruzionismo umano, riconducendo tutti i fatti alle interpretazioni. C’è da una parte la sfera della natura, solida e refrattaria al pensiero – ma di questa si occupa la scienza, che non pensa; dall’altra, c’è il mondo dello spirito (l’arte, la religione, la filosofia, la politica), dove il pensiero è apparentemente sovrano; e proprio lì, contro ogni evidenza, si potrà trovare l’essere.

Essere e tempo

Così, tutta la natura è riportata alla storia, e l’essere viene riassorbito nel tempo, il quale non è, per Heidegger, quello del sole o dell’orologio, bensì un altro, quello dell’anima che originariamente costruisce il mondo. Che il tempo sia in noi, mentre lo spazio è «lì fuori», può certo indurre un senso di dominio; però non è detto che sia vero. Come abbiamo appena ricordato, la via di Heidegger si pone suo malgrado in aperta continuità con l’idealismo trascendentale. Noi disponiamo solo di un cogito, che nel mondo esterno è cosa tra le cose, ma nell’interno si collega con un mondo soprasensibile non più incatenato al peso della necessità. Poiché l’esterno risulta inconoscibile nella sua composizione interna (è il tradizionale cavallo di battaglia del costruzionismo, noto da noi nella sua forma vichiana valorizzata dal neoidealismo di Croce e di Gentile, per cui solo la storia è realmente accessibile agli uomini) è necessario imporre ad esso il sigillo di una costruzione. Dunque, la filosofia sarà essenzialmente un’etica (si riconosce qui il Leitmotiv del nesso tra etica, politica, ermeneutica).
Gli idealisti progettavano di fare della filosofia una costruzione che detti le sue leggi allo stesso mondo fisico. Questo è molto chiaro in Schelling: mentre lo studioso empirico concepisce la natura come un terminus a quo, il filosofo trascendentale la considera come un terminus ad quem, ossia come un risultato cui si perviene attraverso una costruzione a priori. In altri termini, mentre Kant aveva differenziato tra la costruzione matematica (che per lui non era conoscenza, giacché pensare una cosa non equivale a conoscerla) e lo schematismo filosofico (che è conoscenza, ma proprio perciò è assegnato al dato), qui si presume che si possa costruire la natura allo stesso modo in cui Talete costruisce il suo triangolo, ossia, non guardando davanti a sé, bensì cercando dentro di sé. Si capisce perché qui sia necessario postulare una immaginazione assolutamente produttiva, anteriore al mondo e a qualunque dato empirico. La stessa costruzione della natura è pensata, per l’appunto, al modo di una creazione artistica, e l’arte diviene il grande modello, che si troverà nell’idea di Nietzsche, ribadita da Heidegger – e questa volta contro la scienza – secondo cui la vera filosofia, come la vera poesia, trae il mondo dal nulla (esponendolo però al rischio costante di farlo precipitare di nuovo nel niente).
Ora, moralizzare la natura è, letteralmente, raddrizzare le gambe ai cani. E, allora, come è possibile la recidiva di Heidegger? In Kant e il problema della metafisica (1929) egli si impegna esplicitamente nel sottolineare che la conoscenza ontologica non crea l’ente, e questo con la dichiarata intenzione di differenziare la propria lettura da quella degli idealisti. In particolare, si appella alla distinzione kantiana tra fenomeno – ciò che appare ai sensi – e noumeno – ciò che può essere soltanto pensato, e di cui, caratteristicamente, non si può dire niente – per ribadire che un uso istitutivo delle categorie senza riferimento alla sensibilità non avrebbe alcun senso. È il ragionamento di Kant: con la categoria di sostanza non avrò mai la più piccola delle cose.
Eppure si è spesso – e a giusto titolo – sottolineato come la prospettiva heideggeriana non differisca da quella degli idealisti, che per l’appunto si erano impegnati nel tentativo di costruire il mondo con il pensiero. Oltre a escludere che le forme logiche potessero fabbricare le forme sensibili, Kant non aveva mai cercato di risalire alla radice comune di sensibilità e intelletto, ossia a quella strana sfera originaria in cui il sentito e il pensato fanno tutt’uno. Heidegger, invece, nella ricerca di un tempo originario e nel progetto di un oltrepassamento della metafisica, si muove proprio in questa direzione, e in questo senso si incontra con la Dottrina della scienza di Fichte, che vede nella immaginazione il medio tra finito e infinito che pone il non-Io nell’Io, ossia, in altri termini, costruisce il mondo di là da qualunque possibilità di errore (e, dunque, di verità). Si può aver ragione solo se si corre il rischio di sbagliare nell’incontro con una esperienza che non è l’emanazione del nostro spirito. Malgrado l’appello al fatto (ben ovvio, ed è strano che Heidegger ci insista tanto) che l’uomo nasce e muore in un mondo che c’era prima di lui e ci sarà dopo di lui, la ricerca dell’originario definisce l’atto per cui un soggetto costituente si pone all’origine del mondo.
Così, proprio il ricorso a una immaginazione assolutamente produttiva, e malgrado il palese fallimento dell’idealismo, denunciato sia dallo Schelling sia dallo Hegel maturi, caratterizza la ripresa del costruzionismo in Heidegger. La chiave di volta dell’argomento di Heidegger è di tipo essenzialmente kantiano. Il senso esterno, lo spazio, è poco dominabile in quanto tale, però risulta includibile nel senso interno, ossia nel tempo. Tutto ciò che è nello spazio è prima e più essenzialmente nel tempo, che è del resto la materia propria del Dasein (l’Esserci, la situazione dell’uomo nato e destinato a morire); per evitare tuttavia che il Dasein e la sua temporalità risultino costituiti invece che costituenti, è necessario trovare una temporalità originaria che determini quella volgare (spazializzata: come si è detto, il corso del sole o quello dell’orologio; ossia, secondo la definizione di Aristotele, il numero del movimento secondo l’antecedente e il successivo). Questo tempo, che si richiama alla visione di Agostino, che lo raffigura come un distendersi dell’anima, diviene lo strumento per cui tutto il mondo può essere costruito a partire dall’anima. In altri termini, se Kant aveva posto due ambiti, quello della conoscenza, dove restiamo passivi e soggetti ai dati esterni, e quello della costruzione matematica o della iniziativa morale, dove siamo padroni assoluti, Heidegger fa dell’anima la sfera di una libertà infinita, e capace di far valere i suoi diritti anche sul mondo dei fenomeni, non già negandoli (come suggeriva Fichte, che li riteneva prodotti dall’Io), ma giudicandoli irrilevanti.
L’incongruenza tra un atteggiamento costruzionistico e una pretesa fenomenologica, così come tra una impostazione completamente cristiana e la pretesa di pensare come i Greci, è un serio problema per un pensatore che – per l’appunto volendosi fenomenologo – ha additato il compito della filosofia nell’indagare non l’interno delle cose (che è compito della scienza), bensì l’esterno, il fenomeno, ciò che appare. Non troppo paradossalmente, questa pretesa di guardare nelle cose appare compromessa con una aspirazione scientistica ben più di quanto non lo sia l’attitudine che consiste nel restare all’ambito del senso comune, di ciò che ci viene normalmente attestato dai sensi.

«Alètheia» e «adaequatio»

Ma in cosa può consistere questo sguardo nell’interno? Non si tratta di un altro mondo, bensì di una diversa verità, per cui ciò che si presenta come natura non è che l’ombra della storia e del linguaggio. Caratteristicamente, il nocciolo della dottrina di Heidegger sulla verità, esposta all’inizio degli anni Trenta, è che ce ne siano due; non si tratta di una posizione ovvia, giacché anche filosofi di prima grandezza hanno più spesso parlato di un’unica verità, che si differenzia secondo i suoi oggetti (per esempio, verità di fatto/verità di ragione). Con un argomento che si richiama anzitutto alla sua ipotesi storiografica, Heidegger distingue invece tra adaequatio e alètheia. La prima, la più corrente e in apparenza naturale, è la conformità tra la proposizione e la cosa: questo foglio (quello che state leggendo) è bianco (se quello che leggete adesso corrisponde al supporto su cui lo leggete, la proposizione è vera). La seconda, più fondamentale, è alètheia, il «non-nascondimento» dell’ente, cioè della cosa: prima di dire «questo foglio è bianco», l’ente in questione (o qualunque altra cosa) mi si è offerto...

Indice dei contenuti

  1. Che cos’è l’ermeneutica?
  2. Essere e interpretazione
  3. Cos’altro leggere
  4. Bibliografia