Splendor
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Storia (inconsueta) del cinema italiano

  1. 140 pagine
  2. Italian
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Splendor

Storia (inconsueta) del cinema italiano

Informazioni su questo libro

Colpisce, leggendo Splendor, la sua capacità di suscitare il desiderio immediato di rivedere i film di cui parla. Steve Della Casa racconta il cinema d'autore e quello popolare, gli aneddoti poco noti, le dinamiche industriali e i profili biografici, ma sempre come se chiacchierasse con un amico, con uno stile curioso e ironico. Michele Marangi, "L'Indice"

Un libro pieno di rivelazioni divertenti. Per esempio, non tutti sanno che star dell'impegno come Antonioni e Maselli prestarono la loro opera (rinunciando al proprio nome) nelle pellicole 'dei forzuti' come Orazi e Curiazi e Arrivano i Titani. Che Per un pugno di dollari, prima di uscire in piena estate in un'unica sala di Firenze, era stato girato usando armi e costumi riciclati da un altro western. O che il protagonista di I pugni in tasca di Marco Bellocchio avrebbe dovuto essere Gianni Morandi e non Lou Castel. Fulvia Caprara, "Tuttolibri"

Splendorracconta il peggio, e il meglio, dell''essere italiani': straordinari nella capacità di arrangiarsi e altrettanto in quella di voltare gabbana, detentori di un gusto unico per raffinatezza e anche per volgarità, da Senso al Monnezza, così come di un talento assoluto nel creare dal nulla e, forse ancora superiore, nel distruggere tutto, dal neorealismo al mito di Cinecittà. Luigi Mascheroni, "il Giornale"

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Giovani leoni, grandi maestri e talenti «minori». Gli anni Sessanta

Il cinema italiano si presenta negli anni Sessanta come una realtà viva, decisamente prevalente sul mercato interno e capace anche di buone performance per quanto riguarda l’esportazione (non solo relativamente ai film di genere, perché molti autori – quelli già citati e in più Federico Fellini, che ha già vinto un Oscar con Il bidone del 1955 – riescono a vendere i propri film un po’ in tutto il mondo). Ma intanto in Francia si è affermata la Nouvelle Vague anche grazie all’enorme successo internazionale di Fino all’ultimo respiro (1960), diretto da Jean-Luc Godard e scritto da François Truffaut. Entrambi venivano dalla critica militante sui «Cahiers du Cinéma» e altre riviste, e l’affermazione va intesa come una vera e propria cesura nei confronti del precedente cinema francese, che in un famoso articolo apparso nell’ottobre 1952 sui «Cahiers» a firma Michel Dordsay era stato definito «cinema di papà» per la sua correttezza formale diventata un valore in sé e non un modo pungente e coinvolgente di raccontare.
Il successo dei «giovani leoni» influenza molto la critica italiana, anche quella dei rotocalchi: ad esempio, un dibattito proposto dalla Titanus e coordinato da Fernaldo Di Giammatteo approfondisce l’argomento, concludendo che l’esperienza è da considerarsi passeggera. Non è così, e in tutto il mondo si manifesteranno per gemmazione spontanea movimenti generazionali che per un certo periodo restano uniti tra loro, contestando apertamente sul piano politico e formale il cinema prodotto fino a quel momento: in Gran Bretagna esisteva già il Free Cinema, poi sarà il turno del nuovo cinema tedesco di Herzog, Fassbinder, Wenders e Kluge, nato dal Manifesto di Oberhausen, del New American Cinema che deve la sua definizione al critico e regista Jonas Mekas, del cinema dei paesi dell’Est (Russia, Polonia – questo guidato da due talenti quali Roman Polański e Jerzy Skolimowski –, Cecoslovacchia, Ungheria), il Cinema Novo brasiliano, il nuovo cinema giapponese. Paradossalmente, in Italia un vero e proprio movimento rinnovatore generazionale non esiste.

1. I giovani leoni

Intendiamoci. Negli anni Sessanta esordiscono in Italia molto autori importanti, primo fra tutti Pier Paolo Pasolini, che a partire da Accattone (1961) rinnova il linguaggio e percorre una strada che, insieme alla sua produzione letteraria, saggistica e giornalistica, lo consacra come la coscienza critica più significativa del decennio. Di che stoffa siano fatti i suoi oppositori è evidente fin dall’inizio, quando l’oscuro parlamentare lucano Salvatore Pagliuca gli intenta causa perché un personaggio di Accattone si chiama proprio come lui. Accanto a Pasolini si forma anche Bernardo Bertolucci, che esordisce giovanissimo l’anno dopo con un film che tutti definiscono «pasoliniano» (La commare secca), anche se da subito il regista parmense cambia traiet­toria e inizia a lavorare per un cinema al tempo stesso di forma e di spettacolo, di eleganza e di trasgressione, di contemporaneità e di passione cinefila: un percorso che lo porterà a grandi riconoscimenti internazionali incluso il premio Oscar.
Qualche anno più tardi esordisce un giovane allievo del Centro Sperimentale, Marco Bellocchio, con un film autobiografico nei luoghi e graffiante nella forma, I pugni in tasca (1965), uno dei grandi titoli del decennio. Bellocchio racconta una violenta saga familiare in un luogo a lui molto caro, Bobbio (che farà spesso ritorno nei suoi film e nella sua carriera). Lo pensa come un film dirompente ma anche come un vero e proprio sovvertimento dei codici comunicativi: tale scelta è resa ancora più evidente dal fatto che per il ruolo del protagonista Bellocchio aveva pensato a Gianni Morandi, il giovane cantante popolarissimo presso gli adolescenti per i suoi dischi e anche per i film musicali da lui interpretati, commedie sentimentali di grande successo. Solo in un secondo tempo, avendo Morandi rifiutato, il ruolo sarà affidato a Lou Castel, che diventerà il volto del cinema sessantottino italiano.
Sempre dal Centro Sperimentale arriva Liliana Cavani, che a sua volta chiede a Lou Castel di essere un Francesco d’Assisi (1966) decisamente in contrasto con la tradizione ecclesiale.
L’attività di questi registi prosegue a tutt’oggi (salvo quella tragicamente interrotta di Pasolini) con rilievo internazionale, ma si tratta di percorsi individuali. Il primo incontro pubblico che ha visto seduti allo stesso tavolo Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci è avvenuto il 19 ottobre 2006 alla Festa Internazionale del Cinema di Roma, dimostrando, più di mille esempi, come non di una corrente (paragonabile quindi alle molteplici nouvelles vagues a livello mondiale) si sia trattato, bensì di prototipi uniti – come ha dichiarato Liliana Cavani – «dalla convinzione che con il cinema si poteva raccontare qualunque cosa».
Altri nomi contribuiscono a livello individuale a delineare un nuovo cinema italiano negli anni di cui stiamo parlando. È, ad esempio, assai interessante il percorso cinematografico di Mario Schifano, uno dei nomi più rilevanti dell’avanguardia italiana del periodo. Schifano, che ha ben presente la Factory creata a New York da Andy Warhol, si interessa di musica (crea il gruppo Le stelle, sulla falsariga dei Velvet Underground) e intraprende anche alcuni passaggi nel cinema, coinvolgendo tra gli altri Mick Jagger e Keith Richards in Umano non umano (1971), la cui lavorazione rappresenta un progetto molto importante per un nuovo cinema, che però abortisce subito per gli screzi tra le persone coinvolte.
Nello stesso periodo altri artisti si cimentano con il cinema, soprattutto Ugo Nespolo che in alcuni cortometraggi sperimentali mette in scena i suoi colleghi dell’Arte Povera torinese: Mario Merz, Alighiero Boetti, Michelangelo Pistoletto. Sempre in ambiente artistico si sviluppa la carriera di Sandro Franchina, che realizza parecchi filmati sugli artisti romani che si riuniscono in piazza del Popolo e che affida a Franco Angeli il ruolo di protagonista in Morire gratis (1966), straordinario road movie che racconta la pop art, l’ansia di ribellione, la diffusione della droga e la crisi dell’artista. Altre figure rilevanti in ambito underground sono quelle di Alberto Grifi, Tonino De Bernardi, Gianfranco Baruchello, Alfredo Leonardi, Franco Brocani (cui Schifano dedica un intero film, Trapianto consunzione e morte di Franco Brocani, «dedicato ad un amico malato di cinema», dove la presenza di Tano Festa si sovrappone senza problemi a quella di Felice Gimondi).
In ogni caso, la circolazione di tutti questi lavori non va oltre i circuiti alternativi, i cineclub, qualche festival. La tensione underground italiana, tutt’altro che trascurabile sul piano dei risultati, non riesce mai a trovare una sponda importante nell’elaborazione critica di un giornale quale è il «Village Voice», che ospita le recensioni di Jonas Mekas sul movimento underground americano. Non appartiene al mondo dell’arte figurativa Carmelo Bene, la cui storia si interseca tuttavia di frequente con quella di Schifano. Farà scandalo la sua scelta di non ritirare il suo film a Venezia nel ’68, di fronte alla contestazione che porterà alla sospensione della Mostra del Cinema:
È un sogno, i sogni sono belli, perché realizzarli? I sogni inoltre si possono tradire e sempre sono traditi. [...] Mandare un film a Venezia è una precisazione del mio atteggiamento, e dipende da una mia maggiore maturazione politica. L’ho detto prima: ci sono statuti interni e statuti esterni. Se ci sarà polizia a Venezia non è me che picchierà. Siediti, hai vinto, mi sono detto, e mi sono seduto. Le leggi io non le tradisco e non le ossequio, non mi interessano, sono fuori dalla mia persona, non fanno parte dell’anima mia (Carmelo Bene, in «Cinema&Film», n. 11/12, 1970).
Sempre a proposito di grandi innovatori, va assolutamente citato Marco Ferreri, con il suo personalissimo percorso nel raccontare il disagio di una società che solo in apparenza sta vivendo un’opulenza mai vista. Di questo è conscio lo stesso Ferreri, che è anche consapevole di essere un caso a sé (l’ennesimo) nel cinema italiano del periodo: «Visti nell’insieme di quella che era la produzione in generale, compresa quella del cinema ‘fuori dal sistema’ e tutte le altre, [i miei film] erano tutti talmente sbagliati rispetto alla forma, alla linea e alla sintassi di allora, che non posso dire che mi abbia influenzato nessuno» (in L’avventurosa storia del cinema italiano, a cura di G. Fofi e F. Faldini, 2 voll., Feltrinelli, Milano 1979-1981). Il suo capolavoro è Break Up – L’uomo dei cinque palloni (1965), rimaneggiato e tagliato dal produttore Carlo Ponti fino a farlo diventare un cortometraggio da inserire in un film a episodi. È un film che distrugge l’immagine di Mastroianni come latin lover (con la totale complicità dell’attore), e che al tempo stesso cita i palloni contenenti «fiato d’artista» lanciati in quegli stessi anni da Pietro Manzoni: è infatti la storia di un uomo di successo che precipita in una crisi fatale perché ossessionato dalla scoperta di quanto si può riempire d’aria un palloncino prima che esso scoppi.
L’inquietudine regna sovrana anche nel cinema di Tinto Brass, che aveva lavorato alla Cinémathèque Française, aveva tradotto Georges Bataille ed era stato assistente del grande documentarista Joris Ivens: «Dopo è stato detto che Ça ira e Chi lavora è perduto sono stati una specie di annuncio del ’68. Il discorso può essere giusto nel senso che quelli del ’68 erano temi che io mi portavo dietro da un decennio, erano parte delle angosce e delle rabbie non solo mie ma di tanti miei coetanei» (in L’avventurosa storia del cinema italiano cit.).

2. La commedia drammatica della nuova Babilonia

Questi sono gli autori che hanno proposto un «nuovo cinema» in Italia. Autori importanti, che a volte hanno conseguito fama e rilevanza internazionale e in qualche caso sono anche riusciti a «incontrare» il pubblico. Ma si tratta di autori singoli, mai interessati a creare un movimento attorno al loro agire e alle loro opere. E se in tutto il mondo l’inquietudine degli anni Sessanta viene raccontata da autori di venti o trent’anni, in Italia ciò non avviene. Il cinema che descrive l’Italia del boom è fatto da registi intorno ai cinquant’anni, di grande mestiere e con una lunga carriera precedente nel cinema comico. Il genere più frequentato per raccontare l’Italia contemporanea è la commedia, con gli attori più noti e con sceneggiature di ferro (tutto il contrario, quindi, dei fondamenti della Nouvelle Vague, che odiava i film di scrittura elaborata). Il tono più diffuso è quello dolce-amaro, capace di mescolare ironia e divertimento con riflessioni profonde e amare. E il film che maggiormente segnala questo cambio di marcia è un vero e proprio evento a livello mondiale, La dolce vita, firmato nel 1960 da Federico Fellini.
Fellini stava già lavorando da tempo a quel soggetto, che doveva intitolarsi Moraldo in città e che era pensato come un seguito di I vitelloni. Cosa succedeva a quel ragazzo di provincia che una mattina abbandonava la sua Rimini, saliva su un treno e imponeva alla propria vita la cesura rappresentata dal suo trasferimento nella capitale? Il soggetto ha avuto una storia lunga, diversi rimaneggiamenti, produttori che hanno rinunciato, contributi importanti (come quelli di Ennio Flaiano e di Tullio Pinelli, altri due «non romani» che avevano ben presente l’impatto che il trasferimento nella capitale comportava nelle vite di chi compiva questa scelta) e un cambio di passo totale.
Da storia bohémienne è diventato una sorta di affresco della vita caotica e piena di tensioni di una «nuova Babilonia», nella quale si perdono definitivamente le tracce di tutte le culture che erano state vive in Italia fino a pochi anni prima. Il critico-scrittore Tullio Kezich ne ha parlato (in interviste, in un libro e in uno straordinario documentario) come di un’esperienza paragonabile al servizio militare, «la più avanzata e la più divertente che ci potesse essere». Come sempre avviene per un avvenimento epocale, su La dolce vita fioriscono storie, leggende, ricostruzioni postume, retroscena sorprendenti. Non tutti veri, non tutti falsi. Ma il genio di Fellini consisteva anche nel rubare un po’ di qua e un po’ di là, nel prendere spunti da tutto e da tutti per poi rielaborarli a modo suo. Per ogni scena, per ogni situazione è possibile citare un’eco, un ricordo. Con maniacale precisione Fellini continuava a perseguire quello che sembrava un grande caos creativo e che era invece una sua lucidissima scelta, anche nei dettagli. Elio Pandolfi, attore completo e soprattutto dotato di una voce modulabile che gli consentiva ogni tonalità maschile o femminile presente in natura, ha ricordato di essere stato ingaggiato per un mese (tanto è durato il doppiaggio) e di averlo passato interamente in una saletta vicino allo studio di doppiaggio, con Fellini che periodicamente ne usciva pregandolo di fargli una voce con queste o quelle caratteristiche. Nel film Pandolfi presta la sua voce a più di venti personaggi. A volte si tratta solo di una battuta, a volte sono più linee di dialogo. Pennellate che contribuiscono in modo decisivo non solo all’affresco, ma anche a decifrare come lo stesso affresco sia stato costruito.
Tecnicamente La dolce vita è una «commedia drammatica», secondo una definizione apparentemente ossimorica inventata dai francesi. Ma sul connubio tra commedia e dramma vive tutta la grande stagione della commedia all’italiana, che prende il via con I soliti ignoti e viene consacrata l’anno successivo dal Leone d’Oro (e dall’immenso successo commerciale) di La grande guerra. I due protagonisti di questo film, Alberto Sordi e Vittorio Gassman, propongono gag e situazioni divertenti ma alla fine vengono fucilati in una scena drammatica che invita a rileggere tutta l’ironia delle situazioni precedenti. Toccare la «guerra vittoriosa» del ’15-’18 rappresentava per l’Italia dell’epoca un atto quasi sacrilego, una rottura che creò conseguenze fin da subito. All’annuncio dell’inizio della lavorazione e della scelta come protagonisti di due attori famosi per le commedie, i principali quotidiani italiani pubblicarono una raffica di articoli che mettevano sotto accusa l’idea di raccontare quella guerra con due protagonisti che rappresentavano due «eroi della paura». Le polemiche andarono avanti per mesi e tennero a lungo in bilico la lavorazione, ma il successo, anche commerciale, del film le spazzò via e soprattutto fece capire a un folto g...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Come un contagio. Le origini
  3. Il primo cinema in camicia nera. 1925-1935
  4. Quota 100. 1935-1945
  5. Dalle rovine al mito. 1945-1960
  6. Giovani leoni, grandi maestri e talenti «minori». Gli anni Sessanta
  7. Prima della rivoluzione. Gli anni Settanta
  8. Lo sbandamento. Gli anni Ottanta
  9. Gli ultimi lampi