Pantelleria
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Pantelleria

L'ultima isola

  1. 104 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Pantelleria

L'ultima isola

Informazioni su questo libro

Sospesa tra noi e l'Africa, drammatica e soave, inquietante e dolcissima, nera di lava e d'ossidiana, verde di uva di Zibibbo, di capperi e ulivi, azzurra di lago, indaco di mare, Pantelleria è un'isola limite.

Pantelleria è bellezza. Esuberante di venti, di mare, di odori. Di vulcano. La sua natura estrema, nei millenni, ha costretto a trovare soluzioni, a contendere, pietra dopo pietra, terra alla lava, a opporre intelligenza alla ferocia dello scirocco e del maestrale. Isola di approdi perenni: è stata fenicia, romana, bizantina, araba, normanna, spagnola. Pantelleria è un confine non solo geografico, è una frontiera che accoglie, è un luogo che ci ricorda quanto sia fragile e al tempo stesso eccezionale la condizione umana.

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Informazioni

Un vulcano di nomi

Pantelleria è un’isola di scrittura. Ha un nome, spesso due, a volte un cognome o una dinastia di inciure (soprannomi) ogni pietra di lava, ogni metro di terra, ogni cuddìa o depressione, ogni garca di fatica o gora di sottobosco impraticabile, ogni grotta, ogni pirtuso, ogni favarella, fumetto e buvìre, ogni contrada e frazione, persino ogni casa, dammuso, jardinu, ogni incrocio di viottolo, sciara raggelata, salita o discesa perché c’è sempre un “di sopra” e un “di sotto” (Bugeber ha anche un “di mezzo”), a monte e a valle, un “dentro” e un “fuori” (Khamma). L’infaticabile archiviazione del catasto e della storia che ha cercato toponomastiche spingendosi sino al magma semantico prelinguistico, affondando probabilmente sino al tempo della scoperta dell’isola che prima non c’era e adesso c’è, all’alba dell’alfabetizzazione quando un suono intendeva un luogo, una memoria, una suggestione sedimentata.
Pantelleria è senz’altro uno dei posti del mondo in cui il linguaggio si è più esercitato a trasformarsi in geografia. Di terra, ma non in acqua, perché non c’è un luogo del sottomare, una secca, alcuna zona prospiciente l’isola che abbia un nome di sgarrubbo, una indicazione. L’unico racconto del mare è quello dei profili concentrici delle isobate, a partire dai cinquanta metri, perché non ci sono misure più piccole né nomi per raccontare i fondali di Pantelleria che una volta andava per mare con perizia, aveva una flotta, ma mai peschereccia. Velieri di merce e di genti, lunghe navigazioni di servizio, quando ancora l’isola fioriva della coltivazione intensiva del cotone e i panteschi erano un po’ arabi e un po’ svevi al punto che pagavano le tasse al califfo e agli imperatori, al 50 per cento, perché non era chiaro a chi si appartenesse. Non lo è mai stato.
Doveva essere uno spettacolo l’isola antracite sbocciata di cotone candido, una visione dal mare, una promessa di Paradiso per i marinai di ogni religione. Manodopera berbera, raffinati filatori, che ancora non si ponevano questioni di credo perché portarono a Pantelleria cinquanta famiglie ebree che sapevano come trattare la materia prima.
Pantelleria è stata la prima colonia in Europa del cotone portato dagli arabi. Ne facevano tessuto pesante per gente di mare, una salopette blu, la divisa dei marinai panteschi. I campanilisti raccontano che il jeans sia nato a Pantelleria e che i genovesi, nella costanza dei rapporti, l’abbiano fatto proprio.
Ma anche la memoria del cotone andò perduta come lo splendore di Cossyra, l’isola fenicia, greca, romana che batteva moneta, come la valenza marinara che aveva fatto del porto di Pantelleria sede di velieri e di traffici, uno scalo nel cuore del mondo antico, prima che si scoprisse l’isola grande dell’America e la raccolta del cotone a costi contenuti grazie alla delocalizzazione della manodopera: lo schiavismo.
Si perse anche la memoria della navigazione, l’estro delle rotte. Si andava per mare, ma non a pesca. Troppo profondi, accidentati i fondali, troppo vento in superficie e troppo mare per governare e lavorare. Chi ha rischiato di gettare le reti, spesso è tornato, quando è tornato, pentito. Pescatori di svago a Pantelleria, barchette col fuoribordo, qualche pilotina. Si esce di notte per andare a totani, proprio lì, di fronte, perché la profondità diventa subito abissale, chi si immerge lungo costa prende immediatamente un polpo, con le mani. E non c’è bisogno di portarlo a terra per cucinarlo. I più smaliziati lo immergono ancora a mare, con un peso, tra la Karace e la grotta calda di Nikà. Al fondo la sorgente termale è come una pentola al limite dell’ebollizione: 90 gradi. Il polpo, dopo un po’, è cotto. È questa la pesca a Pantelleria.
Di recente alcuni hanno armato una vecchia “sardara”, hanno aperto una bottega con vetrina e vendono il pescato. Ma a Pantelleria il pesce che si mangia è come quello di Milano: viene dalle reti delle barche di Mazara. Una volta arrivavano imbarcazioni da Trapani, da Napoli, dalla Grecia a sterminare il corallo, le spugne, in fondali che non hanno nome e nemmeno inciure marinare. Pantelleria non è come le Egadi.
Marettimo ha un nome per ogni luogo del sottomare, per ogni pietra affogata, ogni secca e strapiombo subacqueo. Ci sono più nomi sott’acqua che sull’isola. Mario Genco, giornalista e scrittore, nel suo bellissimo Trattato generale dei pesci e dei cristiani (Prova d’Autore 2003) ha raccontato questa mappa geografica e antropologica dei fondali dettata dalla fatica, dalla necessità, dalla poesia. La tramandavano di padre pescatore in figlio pescatore. Tornava utile per gli allineamenti con i punti cospicui della costa, segnalava dove calare le reti, dove si sarebbero perse, dove, di stagione, c’era la “passa”. Con la morte dei pescatori, l’abbandono delle reti, l’illusione che il turismo di agosto avrebbe riscattato la fatica di tutto l’anno, la mappa del mare, con nomi e soprannomi, inciure e legende si è rarefatta sempre di più sino a svanire. Un mare innominato si è richiuso attorno a Marettimo.
Marettimo è un’isola estroversa, scarsamente coltivata. Il suo sguardo è rivolto verso l’orizzonte. Prima per il pesce, adesso in attesa di traghetti e aliscafi che sbarcano turisti. Pantelleria, invece, guarda se stessa come se fosse un continente da dissodare e lavorare, si osserva. È narcisa e laboriosa dentro se stessa, il mare lo lascia alle spalle. È un’isola introspettiva.
Non esiste carta geografica di un luogo così piccolo e impervio, a tratti persino inospitale, alieno, così capillarmente, millimetro per millimetro, nominata, battezzata, scritta. È la storia che teneva la penna, con tutte le grammatiche e gli idiomi che hanno messo un piede sull’isola, contaminandosi con il dialetto, con il latino, con il greco, l’arabo, il francese. I nomi dei luoghi di Pantelleria suonano di meraviglia, di avventura, di donne bellissime, di Mille e una notte, di guerrieri. I nomi di Pantelleria hanno un odore, perché il mosto per il passito di Buccuram “di sopra” ha un profumo diverso dal mosto della dirimpettaia Sciuvechi, a separarli poche centinaia di metri e la Grotta del Freddo, e verso sud, costeggiando le falde della Montagna Grande c’è Sibà e, ancora più a sud, Zighidì, ormai in vista di Scauri, che suona come un gioco di bambini, antico.
A Pantelleria si ha sempre la sensazione di trovarsi in bilico su un confine antico, non solo geografico, ma culturale, temporale, sensoriale, tra ciò che si capisce e quanto si intuisce con vista e udito, ascoltando i panteschi più vecchi che ancora aspirano la pronuncia araba delle acca accompagnate ai cappa e i più giovani che l’hanno rimossa, forse nell’abbrivio sintetico degli sms, o per rassicurare i continentali che Pantelleria parla italiano.
Quell’aspirazione primordiale nella pronuncia, mormorio d’Africa portato dal vento, oppure voce del vento stesso, si va spegnendo funerale dopo funerale, e quando si muore d’estate si avverte più forte lo slittamento impermeabile tra due mondi perché il feretro accompagnato a partire dall’enorme, inquietante dammuso in cemento armato della chiesa madre del SS. Salvatore in piazza Cavour, due volte ricostruita dopo i bombardamenti del ’43, sfiora i tavolini sul lungomare Borsellino dove si consuma a sorsi la villeggiatura, e non scorre curiosità tra la dimensione funebre e quella vacanziera, anzi sembrano ignorarsi, ciascuno verso il proprio orizzonte.
Sfilano quasi invisibili, una accanto all’altra. In realtà si osservano, si scrutano, da una parte i villeggianti che si chiedono se non ci fosse altra strada per raggiungere il cimitero dell’Arenella invece di sconvolgere con il lutto la caducità di quest’estate, e dall’altra uomini e donne, anziani in nero che avanzano al passo lento del carro funebre per ribadire con gli sguardi che questa è ancora un’isola viva, quindi si muore, e ciascuno si porta la croce della propria consapevolezza sin dentro la tomba a lasciare intatto il mistero del mondo che si rinnova cambiando persino la pronuncia di se stesso, perdendosi pezzo dopo pezzo, lasciandoci a balbettare nomi di luoghi che non hanno più significato e suonano atoni come campane rotte.
Sino al colpo di scena inaspettato perché sono tornati per le prime vacanze pantesche alcuni discendenti delle diaspore migratorie degli anni Cinquanta-Sessanta, nonni e genitori sepolti altrove, in Continente. Hanno cadenze bresciane, vicentine, romane, sono medici, avvocati, professori, fanno footing tutte le mattine, parlano inglese e consumano colazioni di pancetta. Ma è sorprendente ascoltare la loro perfetta pronuncia pantesca cristallizzata nella mitologia dell’esilio di padri, madri e nonni, nell’epica della memoria da era glaciale che ha congelato così com’erano riti e usanze, ma anche i nomi di luoghi che spesso non esistono più, cancellati persino dalle carte e dalle mappe perché la malattia della toponomastica è la morte degli uomini che la pronunciavano.
Quei parenti anziani senza biglietto di ritorno raccontavano ai bambini venuti al mondo in terra straniera, in Continente, quell’altra maniera di vivere che coltivavano i nati nell’isola, quando le mamme e le nonne nelle mattine d’estate portavano i picciriddi all’acqua delle buvìre per lavarsi sotto il cielo, e invece, nelle mattine d’inverno, all’acqua calda delle sorgenti termali, e d’inverno e d’estate era comunque una festa.
Raccontavano che il latte della colazione si andava a mungere, lasciando un obolo a discrezione, direttamente dalle mammelle delle vacche di Pantelleria, emaciate per destino e per carenza di foraggio perché si spartivano il foraggio seccagno con gli scecchi dell’isola, l’asino pantesco che faceva razza a sé e ancora se ne vanta la testardaggine e la resistenza, in memoria, dal momento che è estinto. Questa storia raccontavano gli anziani emigrati che con gli occhi continuavano a guardare verso Sud, verso l’isola che per loro non c’era più, ma avvertivano ancora col fiuto della nostalgia l’odore di quell’acqua sorgiva sulla pelle che li aveva lavati da infanti, e non era puzza di zolfo, era profumo di pietra.
I nipoti in visita dal Nord sono cresciuti con i racconti dell’infanzia dei vecchi, nella precisione dei luoghi e delle cose, e svelano ai cugini isolani la Pantelleria che non hanno mai sentito nominare perché anche le inciure dei luoghi sono state erose dal vento. Chiedono di vedere Nauvricibbibbi dove abitava un parente lontano, e non esiste più, oggi si chiama Madonna delle Grazie, e chiedono di vedere Triqnakhalè, no, anche questo luogo è svanito, oggi è Piano del Barone, e continuano a snocciolare luoghi e nomi, parole scomparse insieme a quelle che invece hanno ancora anagrafe geografica ma pronuncia dispersa e nelle orecchie dei nativi torna il merletto dell’isola sarcito nel ricamo lessicale delle aspirate, e fa senso ascoltare la cadenza lombarda intercalata dal rimbombo gutturale dell’arabo, torna l’antica mappa sonora di Pantelleria: Dakalè, Farkhikhalà, Frisciakki, Khaddiuggia, Khafaro, Khaffefi, Khandakhi, Khania, Karebi, Khassà, Khattbuale, Khufirà, arabo che si sovrappone ad altro arabo e ancora al “cavallo di ritorno” linguistico di Bonsulton che è un francesismo ma non viene d’Oltralpe, risale dal Sud, dall’Africa colonizzata, e poi luoghi di cognomi italiani, spagnoli e non si sa dove comincia e finisce il nome di un territorio per diventarne un altro, perché lo spazio è minimo e la storia è tanta. La mappa di Pantelleria è una Babele, una vertigine.
Degli asini di Pantelleria rimangono foto folkloriche nelle hall degli alberghi, adorni di lustrini e piume, il gran pavese per il palio pantesco che si correva in onore di san Pietro attorno al Bagno dell’Acqua, al lago. E c’erano quelli che scommettevano sull’ordine d’arrivo, quelli che ci rimettevano fortune.
Raccontavano dell’asino perché era il protagonista dei tempi virili del fascismo che risvegliò Pantelleria dal torpore dei cicli molli della Storia per farne avamposto militare, aeroporto sull’acqua, spina nel fianco per francesi e inglesi, muscolo genitale mussoliniano buttato lì, in mezzo al mare, turgido di cemento armato e futurismo, sbattuto in faccia ai nemici di sempre.
Il podestà era anche ginecologo, si chiamava Nagar e faceva nascere i bam...

Indice dei contenuti

  1. L’isola che non c’era e adesso c’è
  2. Allunaggio
  3. L’isola senza spiagge
  4. La città dei morti
  5. ‘Racìna’
  6. Matrioske
  7. La civiltà della pietra
  8. Il vento parla pantesco
  9. Macondo, Pantelleria
  10. Un vulcano di nomi
  11. Attese
  12. Neve
  13. Ringraziamenti