Senza architettura
eBook - ePub

Senza architettura

Le ragioni di una crisi

  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Senza architettura

Le ragioni di una crisi

Informazioni su questo libro

«Il XXI secolo ci spiegano gli antropologi, i sociologi, i filosofi sarà un secolo caratterizzato dall'intensità dei flussi, dove agli ulteriori spostamenti di grandi masse di popolazione da un continente all'altro, da uno Stato all'altro, dalle campagne verso le coste e verso le città, si aggiungerà l'accesso alla mobilità turistica di qualche miliardo di cinesi, indiani, coreani ecc. Da Bilbao in poi, anche i non addetti ai lavori capiscono le nuove potenzialità dell'architettura in questo scenario di competizione globale tra le città.» Ma nel nostro paese la voglia di innovazione incontra sempre forti resistenze quando si tratta dei settori creativi più 'tradizionali': letteratura, cinema, e architettura 'contemporanea'. Soprattutto se per contemporanea si intende un'architettura che riflette lo spirito, la tecnologia, le disarmonie, i conflitti e le incertezze che caratterizzano il nostro tempo.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Senza architettura di Pippo Ciorra in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Architettura e Architettura generale. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

1. L’Italia e la scena internazionale

1. Archi-tetti e archi-star Proprio nei giorni in cui ho cominciato a scrivere questo libro un grande comune italiano ha fatto uscire il bando di concorso per un edificio di notevole importanza simbolica e infrastrutturale per la città. Il concorso è impostato – secondo una delle procedure ammesse dalla legge Merloni – in due fasi: in una prima fase i concorrenti presentano la loro candidatura con un curriculum e una serie di certificazioni; nella seconda fase i dieci gruppi selezionati elaborano un progetto che sarà poi giudicato dalla stessa commissione che ha scelto i finalisti.
Si tratta di un concorso molto atteso e molti di noi avrebbero voglia di candidarsi e partecipare. Ma ci sono già alcuni segnali preoccupanti. I primi, facili da interpretare per quelli un po’ «smagati», sono visibili nella composizione della giuria e nella cifra fissata per il rimborso ai dieci selezionati, che è altissima e quindi studiata per attirare nella rete i pesci più grossi. Inoltre circolano già i soliti boatos, che dicono che il sindaco vuole assolutamente una «grande star internazionale», del genere Foster, Calatrava, Hadid, per fare dei nomi che hanno già avuto importanti incarichi pubblici in Italia.
Il destino del concorso a questo punto è abbastanza segnato, qualche giurato dotato di buona volontà si batterà affinché nei dieci ci siano anche un paio di gruppi italiani più o meno «nuovi», ma alla fine la possibilità che vincano il concorso sono davvero molto limitate. Naturalmente ogni regola ha le sue eccezioni e in una procedura del genere possono succedere mille cose, quindi spero di essere smentito e anzi, se alla fine deciderò di partecipare, di fare un bel progetto e ottenere l’incarico. Ma non è probabilissimo, per me e per molti altri come me, e comunque la sensazione di giocare ad armi pari è ancora lontana. Infatti (aggiungo a fine stesura), il concorso è poi andato secondo le previsioni: ha vinto una grande star internazionale e l’edificio NON è stato realizzato.
Tutto ciò ovviamente non accade solo in Italia. L’ambizione di avere tra le attrattive turistico-culturali della propria città un’opera di un architetto internazionale di grido ossessiona ormai le notti del sindaco di Latina come quelle del maire di Besançon, solo che negli altri paesi accanto al megaconcorso che vincerà Richard Rogers o Zaha Hadid ce ne sono in genere altri dieci – maxi, mini, midi – che alla fine vedranno prevalere architetti europei un po’ meno «star», architetti locali affermati, giovani progettisti e via di seguito. Intendo dire che l’innesto di architetture glamourous in quei contesti mette solitamente in moto un meccanismo virtuoso che fa sì che l’investimento che la comunità locale fa per riservare un incarico importante (con relativa parcella fuori tariffa) a un superarchitect viene in qualche modo restituito. Lo recupera infatti grazie a una più diffusa accettazione del concetto di qualità architettonica e al ruolo che in questo processo di miglioramento viene riconosciuto agli architetti locali. Che in questo modo si giovano anche dell’abitudine e del desiderio, da parte dei committenti, di quelle forme innovative e magari anche un po’ «spettacolari» che da noi sembrano consentite solo a Zaha e ai suoi amici.
Il che ci permette già di intuire una qualche forma di squilibrio nei rapporti tra l’architettura italiana e quella internazionale, nonché di fare alcune prime considerazioni utili all’intento di questo capitolo, che è appunto quello di dare un’idea della situazione internazionale dell’architettura e dei rapporti tra l’architettura italiana e il mondo.
Prima considerazione: lo scenario internazionale dell’architettura è oggi sostanzialmente spezzato in due tronconi diseguali. Il primo include le «archistar», e cioè una ventina di superprogettisti che girano il mondo gareggiando tra loro, in pratica come i piloti di Formula 1, e che sono in grado di far digerire a sindaci, critici, studiosi, opinioni pubbliche e organi di controllo qualsiasi azzardo figurativo, tecnico, economico, sociale, sulla pura base della loro autorità/autorialità. Il secondo troncone mette insieme «tutti gli altri», cioè architetti più o meno bravi, più o meno attrezzati alla competizione internazionale, che però rispetto agli idoli sopra citati hanno ancora bisogno di confrontarsi e negoziare con le convinzioni, le strutture e le regole delle comunità nelle quali si trovano a lavorare.
Seconda considerazione: l’architettura italiana è praticamente assente – salvo il solito e isolatissimo Renzo Piano, che in realtà fa categoria a sé – non solo nella cerchia delle superstar, ma anche nel «girone» inferiore (anche qui con qualche eccezione del genere Fuksas, Gregotti & Co.) degli architetti internazionali «normali», rispetto ai quali sono almeno tre decenni che ci sentiamo dei fratelli esclusi e negletti, quando non, appunto, un puro terreno di conquista.
Terza considerazione: questo perdurante distacco rispetto agli standard e alle abitudini europee e mondiali non fa che accentuare i fenomeni di provincialismo, arroccamento, autoreferenzialità della nostra architettura e finisce per influire negativamente, a causa degli effetti che ha sul ruolo marginale e sulla debolezza sociale degli architetti, anche sulla qualità del nostro paesaggio e delle nostre città.
Quarta e ultima considerazione: il lavoro delle archistar è allo stesso tempo causa ed effetto di una specie di fuoriuscita dell’architettura, alla fine del secondo millennio, da quelli che erano i suoi limiti storici e tecnici consolidati, in favore di una traslazione quasi completa nel mondo dei media, della comunicazione, dell’ingegneria ardita, dell’evento artistico. La conseguenza è una completa messa fuori gioco di strutture disciplinari e interpretative stratificate per millenni e che invece ora vanno ridiscusse e ridefinite quotidianamente, in un contesto di massima incertezza culturale. Per mille motivi, di cui parliamo in altri capitoli, il nostro mondo culturale e professionale si è rivelato il più lento a riconoscere questo processo e il più renitente a decidere di parteciparvi. Il risultato non è stato però un arroccamento puro e duro intorno a un’idea di architettura più vicina a quella «storica», evidentemente troppo inadeguata alle condizioni e ai problemi di oggi, quanto piuttosto un rimanere «in mezzo» tra le certezze di una disciplina nobile ma poco aderente alla realtà e il fascino rischioso di una «fenomenologia inventiva» che stabilisce giorno per giorno i suoi limiti e le sue regole di funzionamento.
2. Maestri e mostri Perché, potrebbe chiedersi qualcuno, tutto questo influenza così a fondo la nostra architettura? Non potremmo sviluppare la nostra ricerca, il nostro «stile», negoziarlo con i cittadini e le istituzioni e tirare dritto? La risposta è solo apparentemente ovvia e uguale a quella che si potrebbe dare in molti altri ambiti, dalla musica alla letteratura al cinema, imperniata sul «villaggio globale» e il mercato planetario, l’omologazione dei gusti, lo strapotere dei media ecc. In realtà va ricordato che la prevalenza del gusto internazionale su quello nazionale è per gli architetti occidentali il codice genetico primario della modernità, sinonimo di progressismo, condivisione di ideali estetico-sociali e bella politica. Le radici non sono difficili da rintracciare, disperse tra la dottrina marxista, i socialisti utopisti e le comunità religiose radicali che partivano dal centro Europa per andare a piazzare le loro città ideali sulle rive dei fiumi Ohio e Mississippi. Se la liberazione dei popoli non poteva che avvenire sulla base di un movimento internazionalista, figuriamoci quella dell’architettura, impegnata allora a lottare contro ogni genere di falsificazione «locale» (neogotica, neorinascimentale, neoclassica...), per le quali l’inarrestabile onda internazionalista appariva come l’unico antidoto efficace. L’equazione internazionalismo-progressismo in architettura si è radicata rapidamente e in modo indelebile, liberandosi con sorprendente facilità delle gabbie interpretative troppo ideologiche.
La mostra di Hitchcock e Johnson al MoMA (Museum of Modern Art) sull’«International Style», nel 1932, e il razionalismo disincantato degli architetti italiani durante il fascismo (oltre alle varie performance di Le Corbusier al cospetto di questo o quel dittatore) altro non sono se non le prove ultime di un percorso che alla fine degli anni trenta è già compiuto, attraverso il quale la modernità architettonica e il suo contenuto fortemente internazionalista si erano liberati degli accenti ideologici più politicizzati, per arrivare a delineare una sintesi «estetica» e palingenetica del progressismo. Da allora, pur attraverso frequenti crisi e ripensamenti, e una fase critica più intensa ma non risolutiva intorno agli anni ottanta, si è formata una gerarchia di pensiero con la quale inevitabilmente continuano a confrontarsi l’immaginario e il sistema di valori architettonici di progettisti, studenti, committenti, critici, commentatori, analisti e via dicendo.
3. Eroi moderni Figlio legittimo della seconda rivoluzione industriale, seguendo le procedure tipiche dell’avanguardia, il Movimento Moderno si dota all’inizio di una struttura che sta a metà tra arte e politica. Ci sono, appunto, le avanguardie, gli ideologi, le organizzazioni satellite, le figure carismatiche, i figuri un po’ ambigui e i revisionisti, le «masse» (relative) da coinvolgere. Velocemente, grazie anche alla possibilità di diffondere internazionalmente le loro idee, emergono le figure di alcuni Maestri – Le Corbusier, Gropius, Wright, Mies van der Rohe, più tardi Louis Kahn – che in pratica dominano la scena reale dei progetti e delle realizzazioni per mezzo secolo e quella disciplinare per quasi tutto il Novecento. Con loro l’architettura conosce la sua prima dimensione universale moderna, basata sul potere culturale (e professionale) di pochi artisti carismatici, chiamati a diffondere il loro verbo e a realizzare i loro edifici e i loro piani all over the world.
La differenza tra gli eroi del moderno e le figure che dominano attualmente la scena architettonica sta allora non tanto nella capacità di rivolgersi a una platea planetaria, cosa che già Corbu aveva dimostrato di saper fare benissimo, quanto nell’intenzione dei maestri moderni di stabilire continuamente nuovi canoni disciplinari da lanciare come messaggi eversivi nel paesaggio culturale. Il loro successo dipendeva da quanti più architetti si dichiaravano disposti a seguire i loro precetti («i 5 punti»...), trasformandosi in una specie di apostoli del messaggio moderno in territori spesso molto ostili; quello delle nostre star dipende invece dalla capacità di fare delle loro architetture delle performance che nessun altro riesce o avrebbe il coraggio di fare. I primi si rivolgevano agli architetti, ai critici e agli intellettuali; i secondi si rivolgono al «pubblico» e ai magazine settimanali, non cercano l’approvazione dei critici ma li scavalcano e li costringono a seguirli su terreni ignoti, dove criteri e riferimenti vanno ricostruiti ex novo ogni giorno.
Va detto che la caratteristica forse più interessante di questa generazione di architetti di successo, i magnifici sette della mostra del MoMA sul decostruzionismo (1988) e tutti i loro amici, probabilmente non è il fatto che sono ormai protagonisti di uno star system di stampo mediatico/hollywoodiano al quale non eravamo abituati. Ciò che è davvero rilevante è l’impressione che questi progettisti siano stati autori consapevoli del travaso dalla condizione di maestro, che evidentemente a loro stava stretta, a quella di archistar, dalla condizione di architetto a quella di guru mediatico.
All’inizio, infatti, tutto è cominciato secondo canoni abbastanza tipici di un normale avvicendamento di tendenze culturali e disciplinari. Tra gli anni settanta e gli anni ottanta del secolo scorso l’architettura sembrava paralizzata e incupita nella sterile diatriba tra tardomodernisti stancamente (e insinceramente) allineati ai precetti dei maestri, mal sopportati da chi ormai li identificava come gli autori di case scomode e megastrutture suburbane invivibili, e neostoricisti convinti che per trovare le risposte al bisogno di città, spazio pubblico, rappresentazioni e simboli del vivere contemporaneo si potesse solo rivolgere lo sguardo all’indietro e replicare.
È successa allora una cosa strana, forse non del tutto imprevedibile: per scardinare l’ormai intollerabile coppia dialettica «modernità vs storia» alcuni architetti/pensatori hanno reagito semplicemente riesumando le figure più radicali e iconoclaste dell’avanguardia moderna e utilizzandole a freddo come se fossero un repertorio storico. Nascono così le incursioni sapienti di Peter Eisenman nell’eredità difficilissima di Terragni e Moretti, gli omaggi ai costruttivisti russi di Koolhaas, Tschumi e Hadid, i riti voodoo applicati da Libeskind sul corpus del pensiero progettuale di Mies e via dicendo. Nasce così, in fondo, anche la lettura eversiva che Aldo Rossi propone delle permanenze storiche, arrivando anche lui a un suo modo tutto autoriale di superare l’antinomia tra tradizione e modernità. L’operazione ha funzionato molto bene, anche perché Eisenman e soci percepivano e intercettavano un bisogno quasi disperato di innovazione o almeno di novità. La loro proposta non era in fondo che un dispositivo per creare delle falle nella tetragona costruzione disciplinare dell’architettura del tardo Novecento e lasciarvi entrare uno spirito del tempo ormai abituato negli altri ambiti creativi a forme e proposte non convenzionali e molto uncanny.
Eisenman e soci si affermano quindi come giovani «maestri», grazie a ricerche ancora svolte dentro o perlomeno intorno ai confini dell’ambito e della teoria disciplinare. Poi però succede qualcosa di nuovo, e cioè che l’istinto di spettacolarizzazione che la società va elaborando dagli anni ottanta in avanti trova una materia prima più che interessante nei progetti spaesati e «inusuali» dei nostri eroi, ne coglie le potenzialità di «icone», fa incrociare le loro variabili con quelle del mercato e dà l’impressione di poter offrire loro un ruolo più centrale di quello che possono avere semplicemente risolvendo problemi di spazio e rappresentazione dei loro committenti. In questo modo è la società stessa a trascinare gli architetti di maggior successo velocemente fuori da quello che eravamo abituati a considerare l’ambito disciplinare, per collocarli in un empireo da star demiurgiche e coccolate. Il trapasso è ormai compiuto e loro si adeguano volentieri al nuovo ruolo di archistar: inseguono performance figurative sempre più basate sull’inaspettato e l’insolito, seducono con argomentazioni sempre meno disciplinari, non intendono condividere il loro lavoro con nessuno né creare scuole o tendenze. Non a caso molti ormai rifiutano anche di insegnare.
4. Effetto Bilbao Come sempre accade, ogni processo di questo genere ha i suoi momenti simbolo. Per la generazione «archistar» non è difficile individuarne un paio. Prima di tutto il grande raduno di architetti organizzato dall’UIA (Unione Internazionale degli Architetti) a Barcellona nel 1996, in una città dove l’architettura d’autore viveva all’epoca una fase di grande protagonismo, dove gli organizzatori avevano convocato per una serie di conferenze tutti i nuovi miti dell’architettura, da Foster a Eisenman, da Holl a Herzog & De Meuron, da Zaha Hadid a Daniel Libeskind, da Isozaki a Coop Himmelblau, e dove per la prima volta si manifestò un plateale «effetto rock festival». Audience di 16/18.000 persone, affluite da tutto il mondo, costrinsero infatti gli organizzatori a spostare le lezioni da teatri e sale conferenze «normali» al grande palazzetto dello sport da 20.000 posti realizzato, appunto, da Isozaki per le Olimpiadi, mentre alla fine di ogni conferenza c’erano sempre da smaltire almeno un paio d’ore di fila di cacciatori di autografi prima di poter passare il microfono al prossimo lecturer. Manco si trattasse di Mick Jagger.
Il secondo e più ovvio climax coincide invece con l’inaugurazione, a fine 1999, del museo Guggenheim realizzato da Frank O. Gehry a Bilbao, fino ad allora porto fluviale anonimo e depresso della regione basca. Del museo gehriano si sa tutto e (quasi) tutti l’hanno visto, data la sua capacità di attrarre turisti. Possiamo solo ricordare che, per tutti, rappresenta il momento in cui viene comunicato al mondo intero il nuovo ruolo dell’architettura nel mercato globale della cultura, la sua rinnovata capacità di generare «sogni». L’edificio di Gehry – Kunsthalle per la rotazione di una collezione internazionale di proprietà newyorchese, realizzata da un architetto californiano grazie alla capacità di un’industria italiana, vagamente ispirata a un capolavoro australiano di progettazione danese in una semisconosciuta località basco-spagnola – si propone anche come emblema di quello che Purini, proprio nel 2000, definisce senza particolare simpatia il nuovo universalismo architettonico.
Il XXI secolo – ci spiegano gli antropologi, i sociologi, i filosofi – sarà un secolo caratterizzato dall’intensità dei flussi, dove agli ulteriori spostamenti di grandi masse di popolazione da un continente all’altro, da uno Stato all’altro, dalle campagne verso le coste e verso le città, si aggiungerà l’accesso alla mobilità turistica di qualche miliardo di cinesi, indiani, coreani ecc. Allora sarà un secolo in cui vincerà, aggiungono gli analisti economici, chi quei flussi saprà intercettarli. Bilbao, in questo senso, rappresenta un successo e un esempio. E da Bilbao in poi, come si è detto, anche i non addetti ai lavori capiscono le nuove potenzialità d...

Indice dei contenuti

  1. «Avessi un giardino...»
  2. 1. L’Italia e la scena internazionale
  3. 2. La professione in Italia: massa senza potere
  4. 3. Università (La meglio gioventù)
  5. 4. La scomparsa della città
  6. 5. Architettura e rivoluzione
  7. 6. Lo spazio vuoto della critica
  8. 7. La moltitudine delle riviste
  9. 8. Media e «architeinment»
  10. 9. Arte e genetica
  11. 10. Tecnologia e ambiente
  12. Nota bibliografica